mercoledì 2 giugno 2010

Italiani e romeni, la conoscenza può vincere il pregiudizio


Da Ffwebmagazine del 02/06/10

Proviamo a pensare cosa accadrebbe se l’Italia fallisse l’integrazione della comunità romena, ovvero di quel popolo che per attitudini e affinità è il più simile a noi. Vorrebbe dire che, a quel punto, sarebbe ancor più complicato favorire l’integrazione di altre etnie maggiormente distanti per mores, costumi e abitudini. Significherebbe che ancora una volta l’Italia rifiuta la modernizzazione sociale. Di contro l’approccio all’immigrazione è oggi una delle occasioni per dimostrare la capacità di accettare il diverso, di integrare l’altro, di ascoltare chi viene da lontano o da vicino, e di saper affrontare così le sfide vere della globalità.

Con le quali, piaccia o no, si è chiamati a fare i conti perché, come diceva Platone, «siamo tutti intorno al mare, come ranocchie attorno a uno stagno». E a nulla servirà ritardare la metabolizzazione di tali concetti, dal momento che si tratta di fenomeni già presenti, come fermenti vivi, in tutti i paesi: accelerare dunque interventi di accoglienza politica e culturale avrebbe riflessi positivi non solo per chi desidera integrarsi, ma anche per chi grazie a quell’integrazione, vedrebbe maturare il proprio tessuto sociale. La politica è lì per governare i conflitti sociali che inevitabilmente ogni convivenza produce, ma che possono essere stemperati e messi a frutto.

E una politica che agisce senza conoscere è destinata inevitabilmente a mancare l’obiettivo. Per questo vale la pena di sfogliare le quasi duecento pagine di un interessante saggio, Romeni. La minoranza decisiva per l’Italia di domani, scritto a quattro mani da Guido Melis e da Alina Harja per i tipi della Rubbettino, dove, usando le parole pronunciate dal presidente della Camera Gianfranco Fini, si rafforza la consapevolezza che la conoscenza può vincere il pregiudizio. Sì, il conoscere, l’approfondire, imprescindibili per deliberare, come predicava Luigi Einaudi, possono rappresentare la chiave per capire. Per avanzare dubbi, legittimi, per fare domande. Ma, poi, per ascoltare risposte e delucidazioni. E costruirsi un’idea quanto più possibile vicina alla realtà. Per comprendere come quel paradigma forzato che all’indomani dell’omicidio Reggiani enunciava una quasi naturale e diretta proporzionalità tra romeni e il reato di stupro, fosse nient’altro che figlia del pregiudizio causato dalla non conoscenza. Per informarsi, ad esempio, che il numero di romeni in carcere è pari allo 0,3%: una percentuale risibile.

Tabù e posizioni concettuali precostituite che, come ha osservato il presidente Fini, non tengono conto dello straordinario apporto dato alla cultura da intellettuali romeni del calibro di Ionesco o Eliade. Senza dimenticare l’esiliato Vintila Hòria, presenza costante negli anni settanta e ottanta alle iniziative della fondazione “Gioacchino Volpe” e collaboratore del Secolo d’Italia. Un suo pregevole lavoro si intitolava proprio “Dio è nato in esilio”, traendo ispirazione dalla figura di Ovidio, quello stesso sentimento che oggi è avvertito dirompente dai romeni che vivono in Italia.

Molti ancora ignorano che i romeni in Italia non sono solo impegnati in lavori umili, ma fondamentali per l’intero sistema economico-sociale del paese, come colf, badanti, bracciati agricoli - senza dei quali, è utile ricordarlo, migliaia di anziani non avrebbero più assistenza, o migliaia di ettari di campagne non produrrebbero più quei prodotti agroalimentari che tutto il mondo ci invidia. Ma hanno fatto il famoso passo in più, come testimoniano le ventisettemila aziende romene presenti sul nostro territorio. A significare un attivismo non da poco e niente affatto da sottovalutare, se rapportato al punto di partenza. Chi ha messo in piedi quelle imprese certamente non partiva da una posizione privilegiata, né poteva contare su un sostegno forte, almeno nelle fasi iniziali.

Esempi che nel libro abbondano, così come le testimonianze di studenti, giornalisti di Bucarest corrispondenti da Roma, del vescovo greco-ortodosso, di musicisti, di muratori e di operai. Ci sono tutti, per farsi conoscere e scoprire, per dire a chi ancora proprio non riesce a ragionare sull’immigrazione con cognizione di causa perché accecato da pregiudizi e da tornaconti elettorali, che una diversa nazionalità non comporta certo la scoperta di un alieno. E se anche fosse un alieno, con due teste o con abitudini strampalate, beh proprio non ci sarebbe nulla di strano nell’accoglierlo in una comunità che si preoccupa troppo spesso di conservare lo status quo anche nel sociale, mortificando sempre di più iniziative e slanci non allineati.

E proprio quella diversità potrebbe rappresentare fonte di ricchezza e di apertura per un paese smemorato, che sembra quasi voler cancellare decenni di dura emigrazione, prima verso il nuovo continente, poi verso le fabbriche del nord Europa, e nel secondo dopoguerra - e sino ai giorni nostri - verso l’Italia settentrionale. A questo paese gioverebbero forse le parole di Cesare Pavese, quando diceva «finché ci sarà qualcuno odiato, sconosciuto, ignorato, nella vita ci sarà qualcosa da fare: avvicinare costui».

Nessun commento: