sabato 12 giugno 2010

Warsan Shire: «Diamo voce a chi non ne ha»


Da Ffwebmagazine del 12/06/10

Le sue poesie non sono ancora tradotte in italiano, qualche assaggio della sua penna lo si deve alla rivista Lo Straniero. Ma il popolo, non solo somalo, della rete conosce Warsan Shire per la sua costanza. Quando insiste nel parlare di Africa, di guerra, di dolori, di sconfitte, di cose reali. E non per un velo di pessimismo forzato, ma per «dare voce a chi non ha voce», per raccontare quello che accade in zone lontane, di cui si odono bisbigli che invece sono grida. Nata in Kenya da genitori somali in fuga dalla guerra civile, Warsan vive a Londra da quando aveva sei mesi. Oggi, ventidue anni dopo quella fuga, dà spazio a storie di diseredati e incompresi.

Pur vivendo a Londra da piccolissima, ha un forte legame con la sua Africa. Come lo coltiva?
Se osservo le mie radici, non mi sento una cittadina britannica ma africana ed è quella la mia identità. Prima di tutto sono somala e mi sforzo di coltivare questo status con il legame familiare, con il cibo, con le tradizioni e le usanze. Rivendico il mio essere africana, è una cosa che non passa inosservata e cerco di portarla innanzi con orgoglio.

In alcuni dei suoi versi, parla di asilo e di confini: cosa rappresentano questi due concetti?
I miei genitori sono stati prima migranti, mio padre è un esiliato politico da molto tempo. Io stessa sento di appartenere a una casa in cui non sono mai stata. Quindi, anche se non ho fatto alcuna esperienza diretta in quei luoghi, come i campi profughi, comprendo perfettamente il significato di quelle due parole.

Sul suo blog ha scritto «non ho mai trovato bella la bellezza, mi piace cercarla». Perché non le piace? Perché può essere fonte di dolore, o perché pensa sia fuorviante?
Forse la gente si aspetta sempre che i poeti parlino solo di cose belle, di fiori o di elementi soavi e pieni di grazia. Invece penso che, per il luogo dove sono nata, io debba parlare da una piattaforma differente. Dove io possa dare voce a chi non ha voce, parlando magari di cose brutte, inaccettabili ma reali, di cui la gente o si è scordata o non riesce più a parlare.

Molte sue storie affrescano il dolore delle donne che, dice, nonostante tutto continuano ad amare. Chi dà loro questa forza?
Personalmente, ma non solo io, percepisco le donne africane come eroiche. In questo contesto, tra l’altro, si è sedimentato il mito di “mamma Africa”, ovvero una donna che nonostante angherie e prevaricazioni, riesce non solo provvedere al benessere della famiglia, ma anche a farsi carico di tutti gli altri problemi. Tengo molto a dire che le donne citate nei miei pensieri, devono sì continuare ad amare ma soprattutto ad essere amate.

Italia per voi somali vuol dire dominio coloniale ieri, ma tante storie di speranza oggi: come vede il nostro paese?
È la prima volta che lo visito e non conosco nemmeno l’esperienza dei somali che arrivano per via dei flussi migratori. Ma posso dire che già dalla lingua si vede se c’è la vicinanza, che prima era coloniale e oggi dovrebbe essere un qualcosa di diverso e visibile. Non c’è abbastanza consapevolezza da entrambe le parti, forse ancor di meno da parte degli italiani. Mi auguro che vi sia più dialogo, sia sulla storia che ci ha interessati, sia sulle connessioni che abbiamo, dal momento che siamo due popoli legati l’uno all’altro. Ricordo che mia madre, quando da bambini ci rimproverava, lo faceva in lingua italiana. E la lingua credo sia qualcosa di fondamentale per una cultura.

Quanto l’ha influenzata la figura di suo nonno, il poeta Cabdulqaadir Xirsi Siyaad “Yamyam”?
Mia madre mi parlava sempre di mio nonno, un uomo gentile, dalla pelle molto scura, che faceva il veterinario. Ma ciò di cui più mi raccontava, perché era molto attaccata ai suoi genitori, era il forte legame esistente tra i nonni. Una storia d’amore infinita, sfociata in ventidue figli che lei gli ha dato. E lui non ha mai sposato un’altra donna, all’infuori di mia nonna. Più che un’influenza diretta di mio nonno, io ho vissuto la loro storia d’amore come un esempio. Nella mia testa è l’uomo nero perfetto.

Come si è inserita in quel patchwork che è la multiculturalità londinese?
È vero che la multiculturalità londinese esiste, e me ne rendo conto quando vado altrove. Però è anche un po’ stereotipata. Ho notato che all’interno dell’industria culturale, loro tendono a impacchettare prodotti multiculturali, per cui mi sono spesso trovata in contesti specifici per il solo fatto di essere somala. Non dico che non sia una realtà, ma dal momento che non tutti i somali fanno poesia, quegli artisti che ci sono rientrano in quell’ambito solo perché hanno radici somale. Direi che Londra confeziona la multiculturalità, facendone un oggetto che si vende.

Ha detto di recente: «Scrivo perché la condizione umana non è semplice e a volte neppure bella». Possono la cultura, la musica, la rete e i blog sostenere un rinascimento dell’Africa?
Ho iniziato a usare la rete come modo per mantenere i legami e per condividere film, musica libri. A un certo punto ho provato a scrivere pensieri, poi le prime poesie e così si è composto il tutto. Internet è stato fondamentale, è la chiave del futuro, senza di esso dubito che sarei riuscita a pubblicare qualcosa.

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