domenica 6 giugno 2010

Così il dolore non è più un tabù


Da Ffwebmagazine del 05/06/10

È possibile che il varo bipartisan della legge sulle cure palliative e la terapia del dolore (la n.38 del 15 marzo 2010) possa incarnare finalmente una politica che si unisce quando in gioco c’è il bene comune? È praticabile anche per altre grandi tematiche quella convergenza che tutti i partiti, all’infuori di tre misteriosi astenuti – ma l’avranno letta la legge? - hanno dimostrato per dare conforto a chi soffre cronicamente? Magari anche per equiparare l’Italia agli standard di altre realtà, dove il dolore non è più un tabù.

Motivi per essere ottimisti non mancano. In primis per il risultato legislativo raggiunto: un provvedimento breve e conciso, di undici articoli, con pochi tecnicismi, per tutelare il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore. Per alleviare sofferenze sopportate a lungo dagli individui, erroneamente convinti che il dolore vada accettato perchè parte integrante della vita. A volte non sufficientemente supportati dai medici, con poco tempo a disposizione per ascoltare le istanze di questi malati, invece assistiti adeguatamente dai centri specializzati, ma ancora poco conosciuti. Dinamiche emerse dall’indagine “Non siamo nati per soffrire. Dolore cronico e percorsi assistenziali” promossa da Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato, che testimonia quanto gap mediatico culturale ci sia nei fatti.

Il dolore cronico di natura non oncologica è al centro non solo del provvedimento legislativo che ha visto la luce due mesi fa, ma anche di un’ampia analisi curata da numerosi soggetti (Associazione diabetici, Associazione per la lotta contro le cefalee, Associazione malattia reumatiche, Associazione diabetici, Federazione medici generici, Unione lotta alle distrofie muscolari e Pfizer) per comprendere come i pazienti in cura presso i centri specializzati, circa duecentomila, giudicano il loro stato. E soprattutto per predisporre interventi mirati e risolutivi. Poco si è insegnato circa l’autogestione del dolore, ammonisce il senatore Tomassini, presidente della Commissione Igiene e sanità al Senato, che potrebbe essere rafforzata da una migliore tempistica sull’utilizzo dei farmaci. Come pochi sono al momento i centri antidolore sul territorio nazionale, spesso anche avversati o non sostenuti.

Ma la chiave per capire il sottile filo che lega il paziente affetto da dolore cronico alla nuova opportunità palliativa, sta tutta nell’approccio psicologico. Più della metà dei pazienti interrogati nell’indagine ha dichiarato di non sentirsi adeguatamente ascoltato, data la mancanza di tempo del medico generico e soprattutto a causa del fatto che è costretto a consultare almeno due, ma anche cinque medici, prima di essere indirizzato verso un centro specializzato. Ulteriore disparità si registra per la prescrizione di farmaci oppiacei, alta la percentuale al nord, media al centro, bassa al sud. Negativa la percezione sull’informazione, dal momento che l’80% dei medici non segnala al cittadino l’esistenza di tali strutture che permangono ancora in una sfera di non conoscenza per il 70% dei pazienti. I quali però, una volta sperimentatene le cure, si dichiara entusiasta all’86%.

Nota dolens il giudizio sull’apporto psicologico, se è vero come è vero che solo il 23% degli intervistati ne usufruisce. Significa che urge un salto generazionale e culturale molto preciso in questo senso. Innanzitutto per superare la paura del dolore, coinvolgendo anche i medici di famiglia e compiendo un’operazione sociale prima che farmacologica.

La stessa carta dei diritti del malato prevede espressamente il diritto dello stesso a non soffrire, ma prima di questa legge tale esposto non era oggettivamente integrato da interventi tangibili. Altro elemento sul quale riflettere è quello relativo alle conseguenze dirette sul paziente che il dolore cronico causa. Dolore e vita quotidiana si intersecano drammaticamente, in quanto fecondano paure e insicurezze, abbassando il rendimento professionale del malato, alterandone l’umore e di conseguenza i rapporti diretti con la famiglia di appartenenza. Con l’intera sfera delle percezioni sociali che vengono inevitabilmente svuotate dell’originaria modulazione. L’aspetto umano, prima che quello medico-sanitario, deve essere il primo obiettivo da preservare. Anche in considerazione di un altro dato emerso dal rapporto: il 2,2% degli intervistati ha ammesso che il dolore cronico porterebbe in sé il germe del suicidio. Percentuale bassa, si dirà, ma pur sempre significativa e da valutare con estrema attenzione.

Ecco allora che le buone pratiche dimostrate in concreto dalla politica con il varo di questa legge, debbono essere di stimolo per altri momenti alti come questo, consapevoli che dinanzi a esigenze impellenti e generali non vi può essere divisione o prepotenza di parte, magari rammentando quello che gli antichi greci solevano dire sulla missione della politica, chiamata a “tracciare rotte nel mare”.

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