Forza Grecia, perché significa forza euro. Il destino della moneta unica passa inevitabilmente dalle Cariatidi che osservano da pochi metri il Partenone, sotto un cielo plumbeo. Lì, sul punto più alto della capitale ellenica, dove sventola la bandiera bianca e azzurra, assieme a quella dell’Unione, i destini continentali si incrociano con quelli della porta d’oriente del vecchio continente. Il partito (politico, speculativo e quindi anche mediatico) di chi vorrebbe una retromarcia verso i bassi lidi della moneta nazionale non ha bene calcolato lo tsunami finanziario che ne deriverebbe. Toccando interessi non solo dell’eurozona, ma soprattutto in chiave di geopolitica mondiale. Perché proprio al centro del Mediterraneo si sta giocando una partita ad altissimo rischio dove le pedine non sono solo lo spread o le montagne di prestiti scaduti che Atene detiene nel proprio portafoglio. Ma vi sono anche altri fattori che vanno considerati, vedi l’influenza e le mire dell’area pacifica che sta prepotentemente guadagnando terreno. Come mai nonostante le misure anticrisi il debito pubblico ellenico l’anno prossimo aumenterà? Perché il duo “Merkozy” si ostina a non considerare l’opzione eurobond che stimolerebbe gli appetiti di liquidità cinesi? C’è chi invoca addirittura il ruolo di cavia per la Grecia, viste le deficienze strutturali, perché la crisi non è ellenica, bensì europea. Ma andiamo con ordine. Innanzitutto si sgombri il campo da facili illusioni: i conti in Grecia non tornano e, almeno ufficialmente, non per colpa di altri. Ma per decenni di spreco di denaro, politiche miopi e corruzione multilivello. La Grecia è tutt’ora il paese in cui lo stato è il maggior datore di lavoro ed è il primo cliente del settore privato. Bisognerebbe certamente impattare questo strapotere statale che è all’origine della crisi, ma sarebbe servito farlo senza scatenare la tremenda recessione attuale. L’accordo del 26 ottobre è servito invece per alleggerire il debito in modo che, pur in condizioni critiche, ci sia in futuro una speranza di ripresa. Ma non è sufficiente, perché la Grecia è storicamente stata crocevia di scontri. Prima la dominazione ottomana, staccatasi solo a inizio del novecento (Creta è stata l’ultima a liberarsi nel 1914, nonostante la rivoluzione fosse partita nel 1821), poi i due blocchi monolitici del patto atlantico e della cortina di ferro, che proprio in mezzo all’Egeo incrociavano le lame. Passando oggi per la nuova era delle altre potenze, Cina su tutte e con la Russia di Putin a svolgere un ruolo non solo di spettatore. Si aggiungano gli scandali in occasione delle Olimpiadi del 2004 che hanno interessato il colosso tedesco Siemens, le fibrillazioni in Medio Oriente e gli ostruzionismi continui della Turchia in chiave di un’ “ottomana” vocazione espansionista, adesso indaffarata a tessere trame con l’Iran di Ahmadinejad e a litigare con Atene per il petrolio e per il gas presente nelle acque greche, senza dimenticare l’ingiustificata occupazione di Cipro con 50mila militari turchi presenti in loco dal 1974. Uno scenario tutt’altro che semplice da gestire e comprendere. Un fatto, però, è rappresentato dai numeri: in rosso per l’Atene di oggi, con sperequazioni sociali assurde, con una fetta di cittadini costretta a variare finanche le abitudini alimentari perché senza gli euro di ieri, con l’aumento di suicidi e di depressioni, con servizi statali nella sanità dimezzati. Ma in rosso anche per lo stato di domani: nel 2012 è calcolato che il debito pubblico salirà al 170% del pil (oggi è al 160%): come mai? Significa che le ricette imposte dalla troika composta da Fmi, Ue e Bce all’economia greca in un primo tempo avevano sottovalutato l’impatto negativo che avrebbero avuto grazie ad una rapida liberalizzazione dell’economia. È come se si contrapponessero specchi ad altrettanti specchi. Ma il governo che fa? Approvato un esecutivo di larghe intese per scongiurare le elezioni anticipate e dare il via libera al piano di salvataggio, anche se lo shock vero è stato l’annuncio di un referendum sulle misure, proposto dal premier Papandreu e dopo 48 ore ritirato anche per le pressioni dei mercati continentali collassati giusto il tempo di quell’annuncio. Papandreu: un cognome che significa molto in Grecia, al pari di altre due famiglie, Karamanlis e Bakoyannis che nella politica fanno il bello e il cattivo tempo ininterrottamente da quasi un secolo. Ma ecco Iorgos: figlio dell'ex primo ministro greco Andreas (fondatore del Pasok al termine del regime dei colonnelli) e nipote di Geórgios (primo premier della Grecia al termine dell'occupazione nazista nel 1944), ha spiazzato tutti con quella boutade. In occasione della festa nazionale del 28 ottobre lo hanno accusato di tradire la sua Grecia. Un venduto agli stranieri insomma e che a loro ha ceduto gran parte della sovranità del paese. Iorgos l’Amerikano (così lo epitetano) è nato infatti negli Stati Uniti da famiglia mista, sua madre è l’ex radicale americana Margaret Chant, crescendo e formandosi in America e in Svezia. Un greco della diaspora, che ha trascorso la maggior parte della vita all’estero, dalla pronuncia greca incerta: per questo lo accusano. Ha anche detto di non vedere la vita politica come una professione: ma allora perché non ha fatto un passo indietro? Chi ne ha seguito la carriera politica afferma che il mansueto George, che preferisce l’inglese al greco quando dialoga con il suo staff e ama fare jogging al mattino, la vede come un’eredità lasciatagli dal padre e dal nonno: non ha vissuto drammi politici perché è un principe ereditario. Comportandosi di conseguenza e decidendo senza consultare nessuno. All’indomani del pacchetto di accordi post summit europeo del 27 ottobre, i nemici di Papandreu hanno affilato un’altra arma contro di lui. Dal momento che la cancelliera tedesca era riuscita nell’impresa di affrancare l’economia ellenica con un “controllo permanente” della troika fino al momento in cui il paese non fosse stato capace di essere autonomo. Ma il nemico numero uno resta il partito antieuropeo e antieuro. Che in patria è rappresentato dal partito comunista, mentre fuori dai confini nazionali prende il nome di speculazione. Sì, certo, c’è la Bild che scrive che per premunirsi contro il rischio di un'uscita della Grecia dall'euro il maggiore tour operator tedesco ed europeo, Tui, stia sottoponendo ai partner alberghieri greci contratti in dracme. Il quotidiano tedesco scrive che in caso di ritorno alla dracma, il calo del valore della nuova valuta potrebbe arrivare fino al 60%. Ma cosa accadrebbe con un’eventuale uscita della Grecia dall’euro? In primis una fuga dei depositi, ovviamente ciascun risparmiatore ritirerebbe subito il proprio denaro in euro anziché attendere di avere in tasca “solo” dracme svalutate. Con il rischio di fallimenti bancari a catena, oltre a costi sociali non indifferenti perché il governo sarebbe costretto a nazionalizzare le banche. Senza dimenticare che, come rilevato dall’economista Jesus Castillo, l’inflazione comporta un abbassamento del potere d’acquisto delle famiglie. A ciò si aggiungono altri fronti. La questione dei giacimenti presenti nell’Egeo o nella zona esclusiva di Cipro, la cui esistenza è nota sin dalla fine degli anni settanta, ma che non sono mai stati sfruttati per le pretese turche. Tra l’altro l’unico paese al mondo che non ha aderito alla relativa convenzione delle Nazioni Unite, avanzando al contempo diritti assurdi. Si era giunti però ad un compromesso, proprio quando Papandreu era ministro degli esteri, dopo aver rischiato in molte occasioni l’episodio “caldo”: sospendere le ricerche nell’Egeo in vista della definizione bilaterale dei confini. Cosa abbastanza difficile, perché la Turchia ha delle idee tutte sue che non trovano riscontro in alcun codice legislativo, come il fatto che le isole non abbiano diritto ad una piattaforma continentale. Insomma, problematiche croniche: e se vi è una responsabilità, sta nel fatto di non averli risolti a monte. E questa volta non per colpa dei governi greci, in verità la Turchia ha mostrato più intransigenza del dovuto in svariate occasioni, con la comunità internazionale a vigilare sonnacchiosamente, come sull’invasione di Cipro, ancora oggi capitolo tristemente irrisolto. C’è poi il capitolo Germania: Albrecht Ritschl, professore di Storia economica alla London School of Economics, intervistato dalla rivista tedesca Spiegel ha detto che la Grecia non ha un centesimo per restituire i prestiti, mentre è la Germania in passato ad aver sperimentato i più grandi fallimenti del ventesimo secolo, dal momento che, accusa, “il famoso miracolo tedesco era sulle spalle degli europei, per questo non dimentico i greci”. E a supporto della sua tesi ricorda i documenti ufficiali che dimostrano come i tedeschi dovrebbero riconoscere alla Grecia solo per anticipi l'ammontare di 91,99 miliardi dollari. Che, se pagate in occasione della riunificazione tedesca, come esplicitamente definito dai tre accordi internazionali a Roma, Londra, Parigi annullerebbero oggi il debito ellenico.
Tutto ciò si lega, ancora, a un gap comunicativo: nessuno ha provveduto a informare l’opinione pubblica ellenica su che cosa avrebbe comportato l’adesione all’euro. È così, tra quotidiani schizzati anche a un costo di sei euro e un caffè italiano che in alcune zone di Atene sfiorava i cinque euro, che si sono ritrovati in questa situazione a dir poco disagevole. Certo, quelli de Le Monde continuano a proporre il paradigma argentino, auspicando una ricostruzione ellenica che parta dalla competitività, al momento zero per via dello scarto d’inflazione accumulato dal frangente del suo ingresso nell’euro. E puntando sul deprezzamento della sua moneta, uscendo dall’euro, come panacea a tutti i mali. Ma gli analisti francesi dimenticano che la Grecia non è l’Argentina, non fosse altro che per la diversa estensione geografica e per ben altre dinamiche continentali. Perché in fondo nemmeno l’area euro mediterranea è come gli Stati Uniti, o forse Parigi lo dimentica? La dracma servirebbe solo a spingere verso il terzo mondo finanziario la cosiddetta Europa del sud, che a quel punto includerebbe altri paesi Piggs oltre alla Grecia come l’Italia (cosa che solo Berlusconi ignora). Ma dando il definitivo addio alla moneta unica e alle ultime briciole di speranza di avere un’area continentale che sia comunitaria e autorevole. Con il brindisi di chi, ad un’Ue compatta e monolitica, non dispiacerebbe poi tanto rinunciare.
Fonte: Il futurista settimanale del 17 novembre 2011
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