lunedì 7 novembre 2011

Dalla classe alla casta


Ha ragione Sabino Acquaviva quando ammonisce sulla trasformazione della società italiana, che da essere composta da classi sociali si è ridotta, oggi, a essere divisa morfologicamente in caste. Perché hanno bloccato l’ascensore sociale, perché si è investito nelle cricche e non nel sistema, negli amici degli amici e non nello strato sub sociale nazionale, nei desiderata di pochi svilendo il futuro dei tutti. L’Italia è un paese ingiusto, per mille ragioni. Esempio principe: tutti inneggiano alla meritocrazia e nessuno la metta in pratica. Ma al di là delle deficienze strutturali storiche o contingenti, come accade nel resto d’Europa, qui sta montando dell’altro. È la consapevolezza rassegnata di chi non vede la luce in fondo al tunnel, di chi si rende conto ogni attimo di più che la classe dirigente è sempre meno qualificata, aggrappata ai tanti troppi Scilipoti che sporcano il nome e le fattezze di una nazione. Che servirebbe un Einaudi che non c’è e non ci sarà, che basta promettere un tot per restare in sella. A questi cittadini giustamente delusi, che osservano un sogno disintegrarsi, che fanno veramente i conti con la crisi sulla propria pelle, non si può obiettare solo con lo strumento della fiducia coatta.
Né si può dire semplicemente loro che tanto domani sarà un altro giorno, migliore dell’oggi ma peggiore del dopodomani. Storie vecchie che non funzionano più. Invece serve accarezzare i loro dubbi, le paure, le disillusioni, ascoltare sfoghi e ragioni, discutere anche animatamente delle piaghe sociali che, nell’Italia del bunga bunga e delle grandi opere che non si fanno, stanno tornano drammaticamente a galla. Qui si muore ancora di lavoro nero, si malasanità, di alluvioni. Di cassintegrazione, di nuove droghe per poveri disperati, di prestiti scaduti che stanno arrivando prepotentemente nel motore socioeconomico della nazione. A questa gente, che rappresenta la maggior parte della popolazione, non interessa quanti deputati in più ha la maggioranza, o chi staccherà la spina, o chi verrà messo nel listino bloccato perché figlio, delfino o trota di un presunto leader. Ma vogliono solo che le cose cambino e alla svelta.
Per queste ragioni allora la politica alta, quella con la P maiuscola, quella per intenderci che consentiva al paese di sfoggiare facce presentabili e galantuomini, come Berlinguer, De Gasperi, Almirante, deve rinnovarsi prima che sia troppo tardi. Prima che gli italiani siano ridotti allo stremo e che perdano la lucidità democratica, piombando in derive illogiche. Dove il rinnovarsi non si limita solo a sostituire deputati con plurilegislature alle spalle con rampolli approssimativi figli o nipoti di altri componenti della cricca. Ma si evolva dall’interno, con un nuovo vocabolario, frustandosi per idee che non ha avuto, studiando cause ed effetti del paese. Perché alla politica di oggi, quella dei teatrini televisivi, quella del do ut des, dei vertici notturni, delle cene clandestine, dei frondisti che un momento prima solo peones e dopo si trasformano il salvatori non della patria ma dello scranno, beh a questa gente mancano le idee e le parole. Un’occasione è il simposio organizzato per il prossimo fine settimana a Rocca di San Leo dal Forum delle idee per rilanciare il significato e la luce delle parole della politica. L’obiettivo è proporre un nuovo alfabeto della vita attiva nel nostro presente: un ciclo di seminari sperimentali per ricordare a chi gestisce la cosa pubblica che senza idee e senza parole (adeguate) lo status quo non cambierà.

Fonte: Go-bari di oggi.

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