giovedì 17 dicembre 2009

I bambini e l'immigrazione:serve un occhio vigile


Da Ffwebmagazine del 17/12/09

Chi siamo noi e chi sono loro? Dove inizia l’atto di metamorfosi di una società inclusiva, che si dota degli anticorpi necessari a contrastare il pregiudizio e il no preventivo al diverso? Già nel 1846 Proudhon esortava a non divenire «capi di una nuova intolleranza», accogliendo e incoraggiando invece tutte le proteste, e condannando tutte le esclusioni. Che avesse previsto il sisma sociale che si sarebbe verificato un secolo e mezzo dopo? L’Italia non soltanto accusa un pesante ritardo socio-politico nei confronti dell’immigrazione in generale, ma non si è nemmeno posta il problema dei minori, appartenenti a quelle fasce più deboli e maggiormente esposte ai pericoli. Sembra che, ancora oggi, qualcuno non voglia farsene una ragione: l’immigrazione esiste, presenta dei numeri importanti, quindi va gestita e non rimandata a domani, quasi si trattasse di un affare la cui soluzione si può pigramente posticipare.Quanti ragazzi immigrati ci sono per le strade italiane? Quanti conducono una vita dignitosa, civile e quanti invece non godono di diritti, sopravvivendo giorno dopo giorno nell’indifferenza generale? Seimila, risponde il rapporto “Save the children” sui minori stranieri presenti in Italia, ma è un dato che potrebbe essere anche più ingente. Bivaccano nelle stazioni, chiedono l’elemosina ai semafori. E non hanno una rete nazionale che li monitori e che si preoccupi di censirli. Si tratta di ragazzi nati sul territorio nazionale o giunti sin qui in virtù del ricongiungimento. Dal 2004 ad oggi pare siano raddoppiati, ma i più sfuggono al conteggio in quanto manca un occhio che vigili attentamente.

Per questo sarebbe opportuno che si provvedesse ad attivare una forma organizzativa dello stato in grado di gestire professionalmente la fase dell’accoglienza, dove chi arriva dovrebbe trovarsi di fronte a un doppio livello: una persona che parli la sua lingua e si occupi del primo approccio, quindi dei diritti di cui potrebbe godere. E in seguito chi lo indirizzi materialmente verso le procedure di integrazione. È in mancanza di un tale organismo strutturato su due strati, che si verificano purtroppo anche non pochi casi di fuga. E allora serve un modo nuovo di intendere la convivenza, dal momento che, come rifletteva Albert Einstein, «se l’umanità deve sopravvivere avremo bisogno di un vero e proprio nuovo modo di pensare».

Se persino un quotidiano moderato come il Sole 24 Ore arriva a scrivere che «sull’immigrazione la politica italiana continua a scherzare col fuoco» significa che si sta pericolosamente sfiorando il confine tra ciò che va fatto, subito, e ciò che va impedito che accada come conseguenza. E quale strumento se non un ministero ad hoc? Che sia funzionale a un tema che ha avuto un innegabile sviluppo nell’ultimo decennio, che lo ha portato a ricoprire una rilevanza nazionale. Meritevole di specifiche politiche, la cui competenza non può essere caricata esclusivamente sul Viminale.

Le finalità di un ministero per l’immigrazione non si limiterebbero evidentemente solo a un’opera organizzativa sul territorio, ma dovrebbero ampliarsi abbracciando idealmente la sfera sociale, concentrandosi anche su chi quel territorio lo abita da anni. Integrare sì gli immigrati, ma integrare anche quei cittadini che già vivono qui e portarli a convivere culturalmente con l’immigrazione. Intendendola come una risorsa. Educando alla diversità, che non rappresenta una deminutio per nessuno, ma invece è fonte di arricchimento. Rileggendo magari quei versi di Cesare Pavese: «un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

Oggi purtroppo accade quello che aveva previsto Arthur Schnitzler, ovvero che «nessuno si occupa mai di come è fatta un’altra persona. Abbiamo paura gli uni degli altri, in verità ognuno di noi è solo». Forse è per questo che la paura si muta in violenza, come accaduto al Cie di Gradisca d’Isonzo nei giorni scorsi, dove è stato fatto recapitare un portafoglio imbottito di polvere da sparo. E che solo per un caso fortuito non ha provocato feriti tra gli immigrati presenti nel centro. E allora lavorare per integrare, unire, convivere, coesistere, evitando in questo modo che, come sosteneva Rudyard Kipling, si arrivi a pensare che «tutte le persone come noi sono noi, e tutti gli altri sono loro»

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