venerdì 4 dicembre 2009

Alla lotta per i diritti umani serve un'informazione libera

Da Ffwebmagazine del 04/12/09


E se i giuristi di tutti i paesi islamici si riunissero in conclave? E se facessero uno sforzo comune per delineare problemi e soluzioni , spronando così gli stati nella battaglia per i diritti umani? La proposta viene da Mario Lana, avvocato e direttore della rivista I diritti dell’uomo che, a vent’anni dall’uscita del primo numero, apre una riflessione sul rapporto sotterraneo fra la dignità della persona e la libertà di informazione. Un intreccio che, parafrasando Roberto Saviano, poggia l’uno sull’esistenza dell’altro, dal momento che nonostante tale consapevolezza sia ormai un dato ampiamente acquisito, «in Italia l’informazione sgomita costantemente per affrancarsi da manifestazioni di tifoseria da stadio. O con noi o contro di noi, questo sembra essere il concetto. Come fossimo in una guerra dove è impossibile ragionare oltre una logica di schieramento».

La guerra. Atrocità che si presta a molteplici immagini visive. Dove armi impugnate e sangue versato non sono solo quelli del Vietnam di ieri, o dell’Afghanistan o delle stragi nel terzo mondo di oggi. Ma sono anche le vite spezzate di Peppino Impastato, di Giancarlo Siani, di Giuseppe Fava, di Anna Politkovskaja, di don Pino Puglisi, di Ilaria Alpi, di Milan Hrovatin, di Maria Grazia Cutuli. Giornalisti, idealisti, attivisti che hanno combattuto- e scritto- per vari diritti civili. Non importa se denominati con nomi diversi, mafia, signori della guerra, assolutismo. Ciò che conta è l’impegno, quello sì eguale per intensità e onestà intellettuale. O come la vita strappata a Stefano Cucchi. È anche quello un esempio di diritti civili, o no? Ecco che l’informazione diventa fondamentale, perchè può scavare sui fatti o farne a meno; può precisare o generalizzare; fornire alibi o inchiodare a responsabilità; diffamare o esaltare; aprire dibattiti o centralizzare il tutto antidemocraticamente. Ma come preservare il fruitore da un’informazione drogata, rammentando allo stesso tempo ai media il proprio ruolo di campanello d’allarme nei confronti dei diritti civili? Nel 1921 Walter Lippman evidenziava come la persuasione fosse divenuta «un’arte deliberata e un organo regolare del governo popolare», rafforzando la posizione del famoso quarto potere.

Già Stuart Mill predicava l’esigenza di «proteggersi dalla tirannia dell’opinione. Se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero più diritto di far tacere quell’unico individuo di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone il potere, l’umanità». Primario diritto della persona è quindi la libertà di pensiero e di idee. Ma tale diritto deve anche essere in parte alimentato da una panoramica visione globale. Quanti giornali, ad esempio, nell’ultimo mese hanno dedicato ampio ed approfondito spazio ai morti in Niger, o agli operai asserragliati sul tetto della azienda per cui lavora(va)no, o alla possibile introduzione del reato di tortura, o alla mancata ratifica del trattato contro il traffico degli esseri umani, o allo sgombero forzato di migliaia di rom dalle città italiane? O, per certi versi, a coppie a cui è impedito di avere dei figli artificialmente, o a cittadini a cui non è ancora consentito di rifiutare l’accanimento terapeutico, o a individui non nati qui che non possono votare i propri rappresentanti in parlamento? Interrogativi legittimi, che dovrebbero porsi, non solo quanti nella società vivono e crescono in maniera non superficiale, ma soprattutto coloro che quella società foraggiano di impulsi e di direttive. Piccole, medie o grandi che siano.

Un quadro che entro il prossimo febbraio sarà al centro di un focus da parte delle Nazioni Unite, che provvederanno ad analizzare, tramite controlli procedurali, la situazione dei diritti civili in tutti i paesi. Dove il raggiungimento di risultati nell’azione pro diritti civili , in questo senso sarà inevitabilmente proporzionale alla qualità dell’informazione assicurata a tali tematiche.

Uno spunto a sostegno potrebbe essere quello di prevedere e diffondere una strategia culturale di difesa dei diritti dell’uomo. Con l’ausilio di assise internazionali che non siano solo l’ennesima occasione di scambiarsi cifre e fredde valutazioni statistiche su fame nel mondo e sugli squilibri democratici patiti da molti cittadini. Ma che rappresentino il laboratorio per sperimentare soluzioni nuove, sforzandosi di assistere maggiormente realtà che già operano su territori difficili, come Medici senza frontiere o Amnesty International, tanto per citarne due. E non per organizzare sontuosi e costosi meeting dove la portata principale è sempre più spesso un’abbondante porzione di ipocrisia, condita da laconici propositi per l’anno successivo. Una tavola imbandita a cui l’informazione, quella buona, non dovrebbe accomodarsi, preferendo se possibile il digiuno. Digiuno da milioni di “farò”, da accordi con paesi antidemocratici, da stati che alla vita umana non riservano la necessaria considerazione, da pagine e pagine di memorie inutili al cambiamento.

Un’informazione che dovrebbe tentare di essere non soltanto corretta, obiettiva, non faziosa, nè di parte, come tra l’altro da molti mesi si legge nei rilievi quirinalizi, ma per usare le parole di Saviano, «un’informazione che non sia diffamante, che non estorca consensi, è premessa necessaria a molte battaglie civili, che altrimenti morirebbero asfissiate da montagne di parole».

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