Da Ffwebmagazine del 07/12/09
«Tutti pensano a cambiare il mondo- diceva Tolstoj- ma nessuno pensa a cambiare se stesso». Se da oggi, inizio del vertice del clima di Copenhagen, tutti i paesi decidessero di cambiare veramente le regole dell’inquinamento, si potrebbe tentare di consegnare ai nostri figli un mondo senza rischio di autodistruzione. E, perché no, utilizzare la green economy per produrre anche un vantaggio finanziario, vitale in questo biennio di crisi.
In Groenlandia i ghiacci si sciolgono a una velocità che non era stata prevista dai calcolatori elettronici. La temperatura in aumento sta modificando completamente i sistemi di vita animale e vegetale: fioriture sfasate e presenza di specie mai viste prima. Il Bangladesh è il paese con il più alto numero di bimbi morti annegati, causa le copiose inondazioni. Molte zone del pianeta, fra cui Spagna e Italia, sono vittime della desertificazione. Altre, come l’Olanda e isole come Maldive e Seychelles, potrebbero sparire, ingurgitate dal mare. Proprio la crescita dei mari di circa un metro e mezzo, associata alla massiccia dose di Co2 presente nell’atmosfera, sta portando la morte negli oceani. «Serve un impegno per il futuro e il rispetto delle leggi della natura», ha ammonito Benedetto XVI. Ma quante volte sono stati avanzati i medesimi propositi?
È chiaro che se l’appuntamento danese dovesse risultare l’ennesima assise internazionale in cui a regnare incontrastate sono ipocrisia e buone intenzioni, non solo non si risolverebbe il problema, ma - se possibile - lo si aggraverebbe in maniera esponenziale. Decantare mediaticamente ecologia e uso delle energie sostenibili, e poi non incentivare le auto elettriche, i pannelli solari nei palazzi di nuova costruzione, le piste ciclabili almeno in tutte le strade dei centri cittadini, la creazione di nuovi parchi pubblici (veri e propri polmoni naturali), significa fare terrorismo ambientale. E mostrare un “corto respiro” estremamente dannoso.
Che senso ha sedersi al tavolo con altri cento capi di stato del mondo pur continuando a inquinare con industrie che, è il caso di Città del Messico, causano il maggior numero mondiale di problemi respiratori tra i cittadini?
Parallelamente alla distruzione terrestre, cresce nel mondo anche la quantità di popolazione che lo abita. Continuando di questo passo, è stato stimato che entro settant’anni si giungerà a nove miliardi di persone, che però dovranno rivedere i loro modi di vivere. Perché, inevitabilmente, non potranno condurre la medesima esistenza e soprattutto non potranno farlo nei medesimi luoghi.
Una rivisitazione urbana in chiave ecosostenibile non solo è possibile, ma potrebbe rappresentare una soluzione anche per ottenere un ritorno economico. È il caso dei centotrenta progetti elaborati dal comune di New York per ripensare lo sviluppo cittadino a trecentosessanta gradi. “Grattacieli che respirano” ha proclamato il sindaco Michael Bloomberg, e il riferimento non è esclusivamente alla questione ecologica. Strutturare ex novo la crescita dei quartieri, la relativa evoluzione negli spazi e, perché no, nelle vite dei cittadini, equivale a creare nuovi posti di lavoro, a dare luce a specializzazioni fino a oggi semisconosciute, ad aprire nuove possibilità di esplorazione scientifica. Insomma, aspirare aria nuova, sotto tutti i punti di vista. Vorrebbe dire innescare un circolo virtuoso dove formazione, università, industrie, edilizia e vita umana, si troverebbero avvolti in un unico fazzoletto di buon senso. Consapevoli che dalla riuscita dell’uno dipende la vittoria dell’altro.
Un punto di partenza, attuabile in tutti i comuni d’Italia, potrebbe essere la costruzione di abitazioni - di vario genere o di edilizia popolare - completamente autosufficienti dal punto di vista energetico, con pannelli solari impiantati sui tetti. O su tutti gli edifici pubblici, come le sedi di regioni, province, comuni, tribunali. Per poi trasferire tale modus operandi al maggior numero possibile di palazzi. Diffondendo, velocemente e con la necessaria completezza, informazioni utili a una vita che sia essa stessa ecosostenibile.
Non è concepibile che uno dei più grandi acquedotti d’Europa, l’Acquedotto Pugliese, perda sistematicamente il 25-30% dell’acqua a causa di condutture difettose o obsolete. O che a causa delle gomme non sufficientemente gonfie, molti automobilisti italiani consumino il 20% di carburante in più. Sono numeri da paesi culturalmente sottosviluppati, che una democrazia matura, una democrazia che guardi al di là del proprio naso, deve sforzarsi quantomeno di dimezzare. E con piani di azione specifici: non siamo più agli albori delle crisi climatiche, quando le nozioni sul tema risultavano frammentarie, o quando veniva tutto declassato come il solito catastrofismo.
La situazione, a oggi, è grave ma ben visibile, soprattutto per restare ai confini nazionali, in alcune realtà specifiche dove, tanto per fare un esempio, la raccolta differenziata è ancora una chimera. O, per dirne un’altra, dove in alcuni uffici pubblici anche parecchio importanti, si spreca un’incredibile quantità di carta per distribuire documenti senza dubbio importanti, ma che potrebbero essere veicolati a costo zero grazie alla tecnologia (vedi file in formato elettronico, o e-mail).
E allora, Copenhagen non sia un evento inutile. «Non sia l’arbitro finale del successo né il punto di arrivo dell’azione globale» ha detto il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon. Magari la sua chiusura fra dieci giorni, con la relazione finale di Barack Obama, potrebbe segnare l’inizio di mini eco-congressi nei singoli paesi, dove si passi rapidamente dalle parole ai fatti, con la consapevolezza che il problema coinvolge tutti, senza esclusione. E che non sarà sufficiente la solita soluzione tampone per chiudere una falla di proporzioni epocali.
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