mercoledì 10 febbraio 2010

Ma troppa attenzione alle radici ci farà perdere di vista il futuro

Da Ffwebmagazine del 10/02/10

Ma non sarà che a forza di imbastire la salvaguardia delle identità di ieri, si stanno smarrendo energie per costruire quelle di domani? Sottovalutando, ad esempio, la forza propulsiva delle rete e dell’immenso contributo di idee che può fornire, in un’ottica che investa nell’immaginario?

Il dibattito, avviato in occasione dei festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia e sostenuto da un recente seminario Aspen, parte dalle condivisibili constatazioni di come l’intero patrimonio storico e culturale italiano si scontri sempre più frequentemente con una percezione non all’altezza, sia del quotidiano che della sua rappresentatività. Quasi fossimo in presenza di due blocchi che viaggiano su binari paralleli e che compongono una drammatica incongruenza. Un’Italia nota e ammirata per storia, arte, letteratura. E una mestamente preda di inconcludenze, collusioni, sprechi, ritardi atavici: un’Italia che, in una parola, sopravvive. Si pensi alla consapevolezza che, se è vero che il passaporto italiano è visto come un esclusivo biglietto da visita nel mondo, per altri versi altrettanto tangibile è la minuscola credibilità nazionale.

Una linea di analisi che transita dalla notevole omologazione del pensiero intellettuale, definito al limite dell’autocastrazione. Da ciò il paradigma di un paese con un glorioso passato, un presente strutturalmente povero ma, dato ancor più preoccupante, un futuro completamente immerso nell’incertezza. E che smorza sul nascere speranze e proposte innovative. Che guarda al web come una minaccia, non assimilando intimamente come esso rappresenti invece un’occasione, così come fatto da Obama o da Vendola. Di confronto, di apertura, di mondializzazione di menti: allacciate l’una all’altra per scontrarsi e quindi per produrre. Che non programma con una logica di lungimiranza, galleggiando sulle contingenze che gradualmente si presentano. E agendo, di conseguenza, in risposta alla prossima emergenza, senza anticiparla con visioni di ampio respiro.

Un paese che anziché attaccare, difende e si difende con tutti gli effettivi, ma lasciando inspiegabilmente la porta sguarnita. Appallottolato all’interno di contenitori vuoti e di soluzioni fantasma. Che fa di tutto per ignorare quell’invito rivolto nel 1846 da Proudhon a Marx, «non facciamoci capi di una nuova intolleranza, accogliamo e incoraggiamo tutte le proteste. Condanniamo tutte le esclusioni e tutti i misticismi ideologici».

Un paese che, assieme a certo substrato socio/culturale, sta scivolando indietro non di qualche anno ma sino all’età della pietra, dimostrando quasi di non essere interessato alle nuove sfide del terzo millennio, al contributo delle élite in chiave di concertazione, ad esempio, con il rapidissimo progresso scientifico, inimmaginabile solo dieci lustri fa. Accanto a questo scenario la risposta della politica, non solo è apparsa spesso deficitaria, ma addirittura controproducente.

Perché anziché interrogarsi sulla tipologia delle evoluzioni post moderne, complice quell’aria nebbiosa e di continua rissa che non aiuta, si è avvitata su se stessa in una sterile difesa di patrimoni del passato, di identità che nessuno mette in dubbio. Ma che difficilmente potranno contribuire a guardare il mondo con le lenti giuste. Adeguate a una visione inevitabilmente diversa e in continua evoluzione, sia per modalità che per spunti. Soprattutto da parte dei più giovani.

E poi le radici occorrono per metabolizzare il passato, approfondirlo e possibilmente carpirne il meglio con l’obiettivo di ripartire da questo, non per invocarlo a ogni decisione da prendere e poi, tafazzianamente o non prenderla o prenderla al contrario.

Perché allora non provare a reinventare la percezione culturale del paese? Anche attraverso la cosiddetta compresenza di contrari che, secondo Mario Galzigna, filosofo e docente di epistemologia a Venezia, è «un’altalena che rivendica il diritto delle differenze ad esistere senza essere cannibalizzate in quanto dialettiche singolari». Il cui ruolo può essere quello di andare oltre quella consapevolezza di apriori e, perché no, senza diventarne prigionieri, ma impiegandole come una sorta di slancio propositivo. Facendo del sostegno all’immaginario un nuovo filone di proposta culturale.

E allora sarebbe il caso di valorizzare attentamente quelle altalene di contrari, valutandole come un arricchimento, anche in considerazione del fatto che certo immobilismo non rappresenta una valida alternativa. Quindi raccogliendone i frutti solo potendo contare sulla piena consapevolezza delle radici laiche dell’identità culturale italiana. Passaggio delicatissimo, che consente di tuffarsi nei meandri di quella società civile, alcova delle coscienze, della maturazione umana. Dove si sanano contrasti, si produce nuova linfa per affrontare le evoluzioni che il domani, inevitabilmente, riserverà.

Ma davvero qualcuno ritiene ancora di potersi tappare le orecchie e ignorare i richiami che sta urlando il futuro? E a quale scopo? Per ritardare inesorabilmente la presa d’atto che il duemila è già iniziato da un decennio? E per far questo occorre investire, osare, alzare lo sguardo oltre il proprio ciglio e scrutare l’orizzonte, magari rileggendo le parole che Benedetto Croce scrisse in una lettera a Giovanni Laterza, «bisogna avere fiducia nell’avvenire e coraggio nel presente».

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