lunedì 19 aprile 2010

Ma democrazia e capitalismo sono inconciliabili o no?


Da Ffwebmagazine del 19/04/10

È inimmaginabile che esista una democrazia sprovvista di mercato e proprietà, ma il capitalismo a sua volta presenta forti punti di contrasto con la democrazia: come uscire da questo vicolo cieco? Se lo è chiesto Michele Salvati in Capitalismo, mercato e democrazia, un volume che prende spunto da alcune sue recensioni sulle riflessioni di illustri studiosi e pensatori circa sei differenti livelli tematici. Il capitalismo americano teorizzato da Philips e Reich; il keynesismo e il neoliberismo con Glyn; la complicata convivenza tra rapporti di equidistanza sociale e progresso economico in Dahrendorf; l’idea della condivisione come proposta attuativa di provvedimenti economico/sociali di Attalì; l’idiosincrasia tra mezzi di comunicazione e democrazia con lo spagnolo Castells; e, infine, lo scontro tra democrazia come forma di governo e democrazia come impostazione ideologico-politica caldeggiato da Dunn.

Un libro che, nonostante le premesse impegnative e niente affatto scontate, riesce a tracciare un quadro estenuante e perfino di facile decifrazione, portando il lettore a chiedersi: le interazioni fra capitalismo e democrazia rappresentano passaggi obbligati, o sono contrapposizioni oggettivamente inevitabili? E qualora entrambe le opzioni fossero attuabili, con quali parametri armonizzare le relazioni? Nelle prime pagine è possibile scorgere l’assioma che la democrazia ha tra i suoi elementi primordiali l’economia di mercato e la proprietà privata, ovvero il capitalismo. Quest’ultimo, però, sviluppa tematiche antitetiche alla democrazia stessa. Che necessita di una riequilibratura.

Secondo Giuliano Amato quelle tendenze capitalistiche devono essere contrastate in chiave antitotalitaria, e in questo un contributo interessante deve necessariamente giungere dalla spinta dei riformisti. Salvati presenta, sotto forma di dilemma, una dicotomia non componibile tra sistema-paese e iniziativa economica. Per tali ragioni, alla base di uno sviluppo socio-economico fondato su questi due macroelementi non può che esserci un sistema che controlli e bilanci i poteri della politica, impedendole di favorire o non contrastare prevaricazioni che porterebbero il capitalismo a far emergere il peggio di sé, come in casi più o meno recenti è avvenuto, basti citare solo la recente crisi economica o quella del ’29 dove in entrambe, evidenzia l’autore, si erano create le medesime congiunture come potere di acquisto concentrato solo in alcune élite.

Rilievo da cui non può che scorgere l’amletica domanda: ma viviamo realmente in una democrazia? Sì se, come riflette Alessandro Campi, si constatano gli innegabili passi in avanti compiuti dai paesi occidentali quanto a diritti civili e a legittimazioni in chiave democratica. No se, come asserisce lo stesso Amato, lo scacchiere appare modificato in virtù di una serie di forme oligarchiche che si contrappongono l’un l’altra. E il contributo del progresso tecnologico, potrà influire come deterrente a uno scenario di guerra globale, ipotizzabile a causa della spiccata conflittualità prodotta dalla ricerca delle materie prime, non solo energetiche ma, ad esempio, anche “quotidianamente utili”, come l’acqua o il cibo.

Ecco che si apre uno squarcio sull’eventualità che vuoti democratici non possano restare tali a lungo all’interno della società, ma debbano essere colmati. In questo senso si scorge nel libro la volontà di rimettere al centro del dibattito la riflessione sul rapporto pre e post progresso socio-economico, ma depurandola da elementi drammatici e non da quelli analitici. L’ottimismo e la fiducia con la quale Salvati vede la luce in fondo al tunnel non è figlio di una preordinata sottovalutazione delle problematiche a fini propagandistici, ma erede della consapevolezza che se in passato e in condizioni ancor più precarie il sistema ha retto, anzi, ha prodotto più di un vagito di reazione, non si comprende per quale ragioni non possa fare altrettanto anche adesso.

Lecito, quindi, chiedersi: ma siamo empiricamente di fronte alla disintegrazione della democrazia, o potremmo esserlo in un prossimo futuro? Si è prodotta una rottura rispetto alla grande costruzione democratica europea post-conflitto mondiale? L’idea di vivere in una fase simbiotica di transizione può essere utile per le riforme, per questo l’autore ricerca un nesso tra ricchezza e democrazia, tra eguaglianza/disuguaglianza e democrazia. Certo, non mancano analisi intriganti e che spalancherebbero ampi dibattiti fra opposte visioni, come la definizione che Salvati fa del capitalismo “croce e delizia”. Croce in quanto incarna la contraddizione dialettica con la democrazia; delizia in quanto ha reso possibile lo sviluppo. Ma il senso più intimo del libro è da ritrovare proprio in quella spinta finale alla fiducia, dove l’elemento di positività sta tutto nel punto di equilibrio, precario ma non effimero, che capitalismo e democrazia hanno trovato. Pur tra mille e innegabili difficoltà e, a volte, ipocrisie.

Si pensi, ad esempio ad alcuni stati che, nonostante di democratico abbiano poco sul piano informativo e sociale per via di deficienze oggettive, si impegnano alacremente per ottenere lo status di Paese democratico. Significa che anche solo la parvenza di democrazia diventa l’obiettivo da seguire e indipendentemente dalle risultanze reali che poi si riscontrano. Perché, quindi, non sfruttare questo appeal che la democrazia esercita per instillare in quelle situazioni ancora precarie, la spinta al cambiamento? Sarà difficile, forse, far tradurre questo libro in cinese, in mandarino o in dialetto ceceno, ma l’impressione è che sarebbe utile farlo leggere non solo a quelle latitudini, ma anche nelle università italiane o in qualche circolo politico, dove purtroppo c’è chi ancora ignora i significati di elementi da valutare attentamente, come rischi egemonici e dialogo tra riformisti.

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