lunedì 5 aprile 2010

La poesia dei viandanti per aprire i confini

Da Ffwebmagazine del 05/04/10

«La gente - diceva Charles Bukowski - è il più grande spettacolo del mondo. E non si paga il biglietto». E se alla gente, diversa, si affiancassero versi in prosa e parole sbocciate da esperienze e attraversamenti di confini e di vite? Il risultato sarebbe ancora più pregevole. Una sorta di viaggio mentale a ritroso, così come andato in scena nella rassegna Viandando qui e altrove, rapsodia poetica contemporanea di italiani migranti e di migranti in Italia.

Una rosa di ventidue poeti bilingue, magistralmente interpretati da Cosimo Cinieri, con la regia di Irma Immacolata Palazzo, per non chiudersi all’interno dei propri recinti, al fine di utilizzare la poesia come tentativo inclusivo per comprendere tanti perché e le innumerevoli modalità di partenza e di arrivo.

«Migrazione è libertà di conoscere un deserto, un mare, un grattacielo, un canto. Non disperazione. Un volo di uccelli». Una rassegna che sarà ospitata all’interno degli Istituti Italiani di Cultura di Strasburgo, Tel Aviv, Il Cairo in occasione della Settimana della Lingua Italiana 2010. Un’occasione per affrancare alla poesia le storie di migrazioni dell’ultimo secolo. Quando dai porti di Genova e Napoli salpavano le navi della speranza, a cavallo fra i due conflitti mondiali, con milioni di italiani attratti dal nuovo continente. O quando gli italiani andavano a popolare le fabbriche di Belgio, Francia e Germania. O quando la migrazione era da sud a nord. Da sud Italia, o come più recentemente dal sud dell’Europa. O dal sud del Mediterraneo. E, oggi, dal sud del mondo.

L’Italia da punto di partenza è diventata punto di arrivo. Come nell’agosto dei primi anni Novanta, quando la motonave Vlora spuntò sull’orizzonte del porto di Bari con un carico umano allucinante. Le cui pieghe si ritrovano nei versi del poeta albanese Gezim Hajdari, vincitore del Premio Montale. O come l’impegno a favore dei tossicodipendenti del rumeno Mihail Mircea Butcovan, con poesie che spaziano lungo uno spartiacque di dolore, accendendo fasci di luce sulle esistenze di badanti, prostitute, orchestrali in attesa di essere espulsi.

O di quello politico del camerunese Ndjock Ngana, passando per la brasiliana Marcia Teophino - candidata al premio Nobel - ed eroina pro Amazzonia. Odio e tristezza si trasformano in amore nei versi del cinese Mao Wen, mentre è nei sogni che il marocchino Mohames Khail inquadra la sua anima gemella. Incredibilmente intenso il legame tra il giapponese Sonu Uchida e la città eterna, nella raccolta Il diario romano, dove scrive in haiku. Mentre mozzafiato è la ballata trecentesca del brasiliano Murilo Mendes. Passando per la mirabile verve dell’italo bosniaco Predrag Matvejevic, nato a Mostar ma da qualche anno cittadino italiano, vincitore del Premio Strega e che nel nostro Paese ha pubblicato ben diciassette opere. E che in virtù di un legame unico, intreccia la sua solitudine alle statue di Villa Borghese, dipinge la divinità amazzonica Tincoa riesumandola da un semaforo di Ponte Sisto.

E poi i migranti italiani, come Adeodato Piazza Nicolai, Giancarlo Pizzi, Delia De Santis, accomunati dal dramma della partenza, dove il Mediterraneo è una sorta di marchio che i nostri si porteranno dentro sin dove approderanno. Quello stesso mare nostrum che, come ha ricordato recentemente Yannis Kounellis, «non è una chiusura, ma un’apertura estrema. Le novità nascono tutte dagli incontri». Una cavalcata letteraria unica nel suo genere, anche e soprattutto a causa della peculiarità insostituibile, quella narrazione che, come ha detto lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, riesce a far risaltare il cono d’ombra dell’esule.

Ma perché chi vive in Italia sceglie di scrivere anche in lingua italiana? La risposta la offre lo scrittore brasiliano Julio Monteiro: la volontà nasce dall’empatia, da un sussulto amoroso, da un fortissimo richiamo di affetto. E allora lasciarsi andare alla migrazione e non solo geografica, ovvero da un Paese all’altro, da una cultura all’altra. Ma, perché no, anche da una lingua all’altra, saltando su alfabeti differenti, grazie alla tecnologia della Rete, che oggi consente il viaggio transculturale con tutti gli Stati (o quasi) in una sorta di Giro del mondo in ottanta secondi su internet. Anche perché, come rifletteva Mozart, «se non si viaggia si resta dei poveretti». Dentro.

Il sogno di Rimbaud era quello di un linguaggio universale. Quello stesso linguaggio che l’Italia possiede nel proprio dna, come la storia degli ultimi duemila anni dimostra. Lo ha rammentato il sociologo Mario Morcellini sul Secolo d’Italia qualche giorno fa: l’accoglienza nel nostro paese è un tratto culturale condiviso, dal momento che proprio «l’identità italiana è stata strutturata sullo scambio continuo» tra culture e visioni assolutamente difformi tra loro. Una sorta di «parassitismo delle culture», metabolizzando il quale si giunge alla conclusione che la diversità è «un valore e non un punto di crisi».

Vengono in mente le parole di Francis Bacon, «se un uomo è gentile con uno straniero, mostra di essere cittadino del mondo, e il cuor suo non è un’isola, staccata dalle altre, ma un continente che le riunisce». E quel collante, ancora piuttosto debole in alcune fasce sociali, tra cui quella politica, potrebbe trovare giovamento e crescita proprio grazie a decine di poesie, sgorgate da cuori italiani e non, ma che importa, frutto di emozioni forti. Paure, amori, speranze, delusioni, trionfi: sensazioni che sono esistite e che sono conservate, non gelosamente, nelle anime di quegli individui. E che, anziché trincerarle dietro l’egoismo conservativo del ricordi, le hanno affidate a voci e versi, perché «ognuno di noi oggi è un nomade».

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