giovedì 25 febbraio 2010

Storie di migranti sui binari della speranza


Da Ffwebmagazine del 25/02/10

Perché si viaggia, si cambia, ci si imbarca in un’avventura nuova o diversa? Per il semplice gusto di farlo, o per cercare qualcosa che incida su modi di essere e di vivere. O inseguendo un futuro migliore, più ricco, con opportunità che mutano lo status quo delle cose e delle situazioni. Il riflesso di una valigia che si sposta, o il singolo sguardo di una persona che volta le spalle a un luogo e si proietta in un altro. «Dobbiamo andare e non fermarci finche`non siamo arrivati. Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare». Per citare quel Jack Kerouac che ha fatto del viaggio un simbolo generazionale.

Sono queste le sensazioni, le intenzioni e le realtà concrete. Totem di un cambio di passo, di una rivoluzione a trecensosessanta gradi nelle esistenze. Lo dice la storia, non solo quella recente. Cosa accadde, ad esempio, all’indomani della guerra di Troia? Tutti in viaggio verso nuovi lidi. Enea verso il Lazio, Ulisse in cerca di casa e degli affetti, Diomede che fondò alcune città nell’Italia meridionale, Filottete che diede i natali a Crotone, Idomeneo addirittura in Asia Minore. O si pensi agli eventi che precedettero il viaggio di Cristoforo Colombo in cerca delle Indie: la riunificazione delle corone di Aragona e Castiglia, la fine del conflitto di Granada e le preziose intermediazioni del duca di Medinaceli e del francescano Juan Perez, confessore di Isabella. Mollare gli ormeggi.

Esempi di spostamenti, piccoli e grandi, più interessanti o significativi, che possono aiutare chi ancora fatica a metabolizzare il concetto stesso di migrazione. Che il dizionario Garzanti indentifica con il «migrare; spostamento temporaneo o definitivo di gruppi etnici o sociali da una sede a un'altra: le migrazioni dei popoli antichi, dei barbari | spostamento periodico di alcune specie animali: le migrazioni delle anguille, degli uccelli, delle renne».

L’idea della migrazione prende corpo all’interno di una mostra itinerante, promossa dal Consiglio regionale della Puglia e dalle Ferrovie dello Stato, lungo dodici carrozze di un treno merci, a simboleggiare le storie di ieri, ma soprattutto le difficoltà di oggi. Partenza dalla stazione di Lecce, risalendo tutta la Puglia da Brindisi, Bari, Foggia, sino al capolinea naturale italiano, quella Torino dove moltissimi sono i pugliesi che negli anni si sono trasferiti.

Un flash back a ritroso, prima stazione il grande esodo verso il nuovo continente a inizio secolo. Circa nove milioni di cui il 70% meridionali che, dal 1890 al 1915, e certamente non in prima classe, salparono dai porti nostrani in cerca del sogno americano: un pensiero grandioso, con infiniti neuroni rivolti verso un mondo sconosciuto, dove tutto era diverso e non martoriato dalla fame e dalla guerra.

O la successiva spinta verso il nord Italia, dopo il 1945 con intere comunità meridionali trasferitesi in massa nelle città lombarde, piemontesi, venete o, in seguito, addirittura nei centri industriali tedeschi, svizzeri, francesi, belgi. Il dramma di Marcinelle, le vite italiane nelle miniere.
Una regione, la Puglia, da sempre crocevia di popoli e lingue. Il culto orientale di San Nicola, l’intensa presenza di Federico II di Svevia, le ramificazioni culturali e storiche dei greci, ancora oggi visibili ad occhio nudo in quella miscellanea di profumi e colori che è la Grecia Salentina.

Un contributo figurativo con ben trecento fotografie, di cui molte direttamente arrivate dal museo newyorkese di Ellis Island ed altre messe a disposizione dall’archivio della Fiat. Racconti, immagini, con il contributo di grandi fotografi e di video, grazie alla collaborazione di Teche Rai e dell`Istituto Luce. Assistiti dalle voci narranti di Michele Placido e Sergio Rubini, con mille coinvolgimenti per istituti scolastici, biblioteche cittadine, cineforum e anche per alcuni artisti albanesi, giunti in Italia in occasione dell`indimenticabile primo esodo nel 1991. Era un’estate afosa quando la nave Vlora varcò le acque del porto di Bari, portando un incredibile carico umano.

E allora vale la pena di prenderlo quel treno merci, per farsi coinvolgere da una sfilata multimediale di occhi, di corpi in pellegrinaggio, di speranze indirizzate al domani. Di delusioni e di successi insperati, di tradimenti e di conquiste.

Null’altro, se non ciò che effettivamente ha caratterizzato gli italiani nell’ultimo secolo. Fatti allo stato puro, che chi ancora ignora lo fa dolosamente, pompando fanatismo e ignoranza in una società che avrebbe invece bisogno di serenità e di maggiore conoscenza di cause ed effetti.

Perché questa è la lingua che parla la storia, il codice comunicativo che indentifica società in movimento, esigenze in trasformazione. Magari seguendo quel consiglio di Bruce Chatwin: «Dovremmo concedere alla natura un`istintiva voglia di spostarsi, un impulso al movimento nel senso piu`ampio. L`atto stesso del viaggiare contribuisce a creare una sensazione di benessere fisico e mentale».

martedì 16 febbraio 2010

Ecologia e modernità. Un esempio che arriva dalla Svezia


Da Ffwebmagazine del 16/02/10


«E gli dei tirarono a sorte», cantava Franco Battiato in Atlantide. «Si divisero il mondo: Zeus la Terra, Ade gli Inferi, Poseidon il continente sommerso. Apparve Atlantide. Immenso, isole e montagne, canali simili ad orbite celesti». Chissà quanto sopravvivrebbe oggi un’Atlantide alle mille insidie climatiche dei giorni moderni. O, al contrario, quanto il resto del mondo ne potrebbe beneficiare, in termini di qualità della vita e di investimento per il futuro umano.

In Svezia ci hanno pensato. Un quartiere prototipo, una concezione interamente ecologica ed ecosostenibile per far vivere una comunità di persone in simbiosi con l’ambiente e senza danneggiarlo. No, non è la trama del prossimo film in 3D, ma quanto accaduto realmente nel quartiere di Hammarby Sjostad, dove si è verificato, non per caso, un vero e proprio miracolo ecologico che, sebbene sia stato avviato con successo, vedrà il definitivo completamento solo nel 2017. Un fungo nato in una prateria già brillante esempio per la salvaguardia dell’ambiente, frutto di coraggiose innovazioni e lungimiranti programmazioni. Senza dubbi, senza timori del nuovo. Con la consapevolezza che solo moltiplicando le occasioni di sperimentazioni sarà possibile scegliere soluzioni e testare alternative.

Abitazioni con il 50% della superficie composto da finestre per sfruttare meglio la luce del sole, impedendo uno spreco di energia elettrica. Un luogo dove si ricicla tutto, grazie ai cassonetti per la raccolta dell’immondizia dislocati in ogni punto. Piccoli, di forma ovale, che ingurgitano i rifiuti di singole abitazioni o dei condomini, e li veicolano autonomamente all’interno di un sistema sotterraneo, che li divide per tipologia. Da lì vengono incanalati nel processo di riutilizzazione. In questo modo, gli abitanti possono produrre il 50% del fabbisogno energetico dai propri scarti, ovvero dal cibo, dalla carta dei quotidiani, dal materiale elettrico.

Insomma, da tutto, anche dalla fogna. Dalla fogna? Forse l’eventualità farebbe storcere il naso a qualcuno, ma il risultato è di alto livello. In pratica i residui fognari vengono raccolti, depurati biologicamente e impiegati per produrre elettricità o ad appannaggio delle esigenze agricole. Si può asserire tranquillamente che dalla fogna si ottiene il riscaldamento per le stagioni invernali. E non è una battuta di spirito. Ciò che invece dalla fogna sarà per forza di cose scartato, verrà fatto confluire nell’arcipelago di Stoccolma, dove è stato analizzato che le acque saranno molto meno dannose per l’ambiente. Nello specifico i liquidi più dannosi sono già bonificati per la metà.

Altro elemento recuperato è l’acqua piovana che, dai giardini, dalle terrazze e dai luoghi pubblici, è incamerata da un sistema comune denominato “Lod”, una sorta di tappeto che evita il processo di evaporazione. Senza dimenticare il fango da cui, a seguito di un procedimento di trasformazione, si ottiene biogas ecologico, da utilizzare per far muovere autobus, automobili e per riscaldare le mille stufe presenti nell’area. Innovativo anche il sistema dei trasporti: vi sono venticinque auto per l’intera popolazione, circa 450mila abitanti. Il car sharing è il futuro, ma solo per quei cittadini ancora affezionati alle quattro ruote, dal momento che la maggior parte preferisce i mezzi pubblici o spostarsi a piedi o in bici.

Inoltre in ogni appartamento è installato un sistema di tubature dalle quali transita, a seconda delle esigenze, acqua calda o fredda, per riscaldare o per raffreddare. È stato stimato che mentre a Stoccolma - altro esempio di virtuosismo ecologico - una persona usa in media duecento litri di acqua, ad Hammarby Sjostad ne usa solo centocinquanta, con l’obiettivo concreto di scendere a cento entro il 2017. E con la previsione di migliorare ancora.

Una vera filosofia di vita ecosostenibile, non solo figlia del progresso scientifico, ma espressione di una concezione nuova, che non ha altre alternative se non quella di investire su questo ramo “bio”. Modernità applicata alla quotidianità più spicciola. Un risultato a cui gli svedesi sono giunti dopo un lungo periodo di studi e di applicazioni, a cui l’Italia potrebbe rivolgere più di un pensierino. Tra cinque anni infatti Milano ospiterà l`Expo: e quale occasione migliore per tentare strade alternative o per dare libero sfogo alle proposte scientifiche o alle innovazioni per il futuro?

Questa, tra le altre cose, dovrebbe essere la spinta primaria dell`Expo, per dare luce e visibilità a quelle menti nostrane che scovano novità. Come accaduto all’italianissima Patrizia D’Adamo, ricercatrice dell’Istituto Telethon Dulbecco di Milano, fresca autrice di uno studio pubblicato sull’American Journal of Human Genetics, che ha scoperto il cromosoma X. Quello legato al ritardo mentale, causa dell`handicap più frequente fra i bambini.

Sforzi e proposte per allungare la vita non solo quantitativamente ma qualitativamente, per evitare che come conclude Battiato nella sua Atlantide, «In un giorno e una notte la distruzione avvenne. Tornò nell’acqua. Sparì Atlantide».

L`altalena dei contrari che non deve essere cannibalizzata

Da Barilive del 16/02/10

Rupture. Mescolanza. Grazie a cui due idee, diverse e lontanissime, sono contemporaneamente rappresentate. E’quello che ha fatto nel 1954 nella tela L’impero delle luci il pittore belga Renè Magritte, che denotava come questa compresenza di giorno e notte nutrisse al suo interno “la forza di sorprendere. Chiamo questa forza poesia”. Il dipinto mostra in alto un’immagine giornaliera del cielo con nuvole, supportate al centro esatto da un grande albero. In basso un paesaggio notturno frastagliato da piacevoli ombre. Un’arte che familiarizza con connubi paradossali, e che squarcia il rigido schema stancamente ingessato solo sul bianco e sul nero. Un esempio di arte figurativa che è riuscita ad andare ben al di là delle parole e di quella ratio umana che, spesso, fatica non poco a conciliare le difformità. Interpretandole erroneamente solo come un rischio di novità ed approcciandosi ad esse con una ingiustificata paura. Che ne pregiudica applicazioni future. Che chiude le porte agli altri, che sottolinea il diverso anziche`inglobarlo. Che separa anziche`unire.
I soggetti, le persone, gli uomini, le donne sono condizionati o condizionanti? Incarnano l’appartenenza ad un dispositivo che garantisce loro la direzione da prendere, o vagano autonomi? E’innegabile che la crescita di ognuno sia caratterizzata nel tempo da una formazione specifica, imperniata su condizionamenti di vario genere, ad esempio come quelli culturali, economici e legati al potere. Una dicotomia quindi intensa tra soggetto costituito e soggetto costituente. Già Claude Levi Strauss sosteneva che la sua storia di antropologo fosse effettivamente nata all’interno di un inventario di costrizioni mentali. Chiedendosi: cosa sono i miei apriori? Quali sono i miei occhiali con cui guardo l’altro? Che filtro ho nel rapporto con l’esterno? Il riferimento è all’analisi di quella globalità di procedimenti che hanno contribuito alla formazione.
Per dispositivo si intende quel complesso di variabili nelle cui viscere il singolo vive e si comporta. Dove reperisce le linee di applicazione della sua quotidianità. E’evidente che l’appartenenza ad un dispositivo influisce sulla direzione da prendere. Lo rimarcava Foucault quando asseriva che i dispositivi del potere, attraverso processi di selezione e interdizione, limitano di fatto il singolo e libero arbitrio dei discorsi, creando in questo modo una società disciplinare. Al contempo il potere può anche assolvere ad un’altra funzione, forse maggiormente propositiva: ovvero stimolare nuovi ambiti di verità e nuovi saperi. E ciò, attualizzato ai giorni nostri, potrebbe vedere nuova luce se reso ancor più slegato da quei dispositivi magari obsoleti o anacronistici. Che poi rappresenta la domanda che lo stesso Foucault si poneva tra gli anni settanta ed ottanta, quando si interrogava su quale spazio di libertà il soggetto potesse ritagliarsi.
Lo stesso Levi Strauss, scomparso a Parigi lo scorso ottobre, asseriva che non può esserci libertà se manca la consapevolezza dei suoi apriori. Ed è proprio all’interno di questi contenitori che può essere utile ripensare alla libertà nella diversità.
Secondo Mario Galzigna, filosofo e docente di epistemologia a Venezia, oltre alla sintesi disgiuntiva esiste anche una compresenza di contrari, come “un’altalena che rivendica il diritto delle differenze ad esistere senza essere cannibalizzate in quanto dialettiche singolari”. Il cui ruolo può essere quello di andare oltre quella consapevolezza di apriori e, perchè no, senza diventarne prigionieri, ma sfruttandole come uno slancio iperattivo. E allora sarebbe il caso di valorizzare attentamente quelle altalene di contrari, valutandole come un arricchimento, anche in considerazione del fatto che certo immobilismo non rappresenta una valida alternativa.
Ed è l’arte a poter rappresentare l’occasione per uno scambio di posizioni, l’inversione di poli, l’intreccio di direttrici.
Nel dipinto di Magritte è proprio il caso di dire che le immagini sono servite per interrogare il mondo. La sua tela interpreta proprio quel mistero della realtà che funge da stimolo. In quanto è un’opera che non offre a chi la ammira il solito e, per certi versi, effimero senso di appagamento verso concetti come la bellezza o il successo, ma innesca un’operazione diversa.
Perché provoca quel desiderio di ricerca, quella voglia irrefrenabile di scavare nei propri meandri, di sognare, magari cercando di recuperare quell’inconscio e quell’intimità smarrite, così come denunciato recentemente da Massimo Recalcati ne “L’uomo senza inconscio”. E concretizzarlo per il semplice motivo di andare oltre.
Per fare, come diceva Levi Strauss, quello che una mente scientifica dovrebbe applicare: più che dare risposte sensate, formulare domande sensate. Per aprirsi, attualizzarsi, contaminarsi. Sganciandosi da fantasmi del passato che strozzano le idee, comprimendole in gabbie velenose. E allontanando il rischio che si continui stupidamente a sostenere che rintanarsi in un qualche pertugio o ripararsi in una caletta, sia più conveniente che uscire in mare aperto e navigare.

domenica 14 febbraio 2010

CIPRO, DOPO LE PAROLE I FATTI


Da Mondo Greco del 14/02/10

All`indomani dell`ennesimo richiamo europeo sul caso Cipro, spetta adesso alla Turchia mettere in pratica quanto concordato. E senza vittimismi o fantomatici retropensieri di sorta. Nessuno in questa partita tifa ideologicamente per l`una o per l`altra fazione, semplicemente perche`non esistono squadre in campo, ma un popolo che ha necessita`di giustizia. La visita del vertice Onu sull`isola ha contribuito a che si discutesse ancora della questione, anche in termini maggiormente internazionali. Si sono svolti incontri, analisi, promesse e poi ? Lecito chiedersi : a quanto ammonta il contributo dell`aministrazione Obama, che nei primi giorni di vita aveva promesso sostegno e interesse al problema ? Quali le implicazioni della strategica partita che si sta giocando nel Mediterraneo in questi mesi, tra nuovi gasdotti, presunte svalutazioni dell`euro e massiccio ingresso cinese sui mercati ?(vedi l`acquisizione da parte cinese dei due piu`grandi moli containers al Pireo, per i prossimi 35 anni).
Sarebbe utile pero`affrontare la questione tenendo bene in mente alcuni elementi che si sono snodati negli ultimi mesi. I progressi istituzionali della Turchia si sono sviluppati in parte, dal momento che gli sforzi in una direzione democratica ed europea del premier Erdogan appaiono sistematicamente frenati dalla zavorra dei militari, che ad Ankara hanno ancora un peso specifico non indifferente. La mancata amissione del genocidio armeno, la pratica reativa alle minoranze, con il partito curdo misterosamente isolato da una qualche rappresentativita` parlamentare. E poi soprattutto in direzione dei diritti civili, con la donna non completamente emancipata, anche dal punto di vista legislativo. Con le liberta`religiose legate a doppia mandata ad una concezione forse troppo conservatrice. Con taluni vincoli dettati da certa dipendenza dell`informazione, che impedisce di fatto la completa europeizzazione della Turchia. Non bisogna dimenticare che una virata netta verso i lidi europei, non solo favorirebbe una completa maturazione del Paese, ma offrirebbe lo spunto anche per affrontare la questione cipriota con maggiore serenita`. Ma a patto che la comunita`internazionale lo voglia realmente. Magari rendendosi partecipe con proposte mirate e non con intenzioni senza dubbio apprezzabili ma, in concreto, anonime.
A cio`si aggiunga che tra settanta giorni terminera`il mandato di Memet Talat, presidente della Repubblica autoproclamata di Cipro Nord : per intenderci, la zona occupata militarmente dal 40mila soldati turchi che al momento e`riconosciuta solo dalla Turchia. Il timore e`che possa vincere il candidato del partito nazionalista turco-cipriota, che gia`si e`detto contrario ad un accordo, in quanto palesemente in contrasto con ogni velleita`riunificatrice. Si tratta di un movimento politico estremista che ha ottenuto un buon riscontro nelle scorse elezioni amministrative del 2009. Ovvio che, se dovesse riuscire ad esprimere un candidato alla presidenza, o se comunque dovesse ottenere numeri rilevanti, vi sarebbe il rischio concreto di vanificare i passi avanti compiuti sino a questo momento.
Al netto di approfondimenti e concessioni, e`ipotizzabile che ad oggi la prossima mossa spetti alla Turchia, in quanto dovrebbe mostrare di aver metabolizzato le richieste avanzate dal Parlamento Europeo con la necessaria buona volonta`. E questa rappresenta una ghiotta occasione per spazzare finalmente i dubbi di tenuta democratica che provengono, ad esempio dall`Eliseo o da talune fazioni pittoresche della politica italiana, che tra le altre cose, non sarebbe neanche il caso di citare.
Altro spunto sul quale riflettere e`quello riguardante l`informazione e la diffusione di notizie estremamente delicate. In questi giorni sui media italiani e`emerso che vi sarebbe stata una risposta favorevole cipriota ad una proposta di riunificazone turca, in quanto "l´apertura sarebbe venuta dalla parte greco-cipriota dell´ isola, anche sull´onda della necessità da parte di Atene di tagliare le spese militare in questo momento in cui la Grecia è sull´orlo del collasso economico".
Sarebbe quantomeno riduttivo bollare tale notizia con l`epiteto di fantasiosa, dal momento che non sembra esserci proprio alcun legame tra le due cose. Piu`edificante, invece, sarebbe coinvolgere i media su elementi maggiormente concreti, legati ai fatti, e non a ipotesi magari forzate, utili solo ad accendere i riflettori per qualche istante. Per poi far ripiombare l`isola di Cipro e la tragedia che l`ha colpita, nel piu`deleterio dei silenzi.

QUANDO LA FORZA DELLE IDEE E’ PIU’FORTE DI QUALSIASI PREGIUDIZIO

Da Barisera del 12/02/10

Chissà come si sentiva esattamente due anni fa il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, nei primissimi giorni di campagna elettorale. Era il gennaio del 2008 quando il popolo americano iniziò a trovarsi di fronte un simpatico ragazzo “abbronzato”, con la passione del basket e delle imprese impossibili. Convinto che al di là del muro vi fosse un mondo nuovo, tutto da costruire in nome della forza delle idee. Quella cavalcata vale la pena riviverla, alla luce delle difficoltà della politica di oggi, ma in chiave propositiva. Eh sì, perché il primo presidente nero degli Stati Uniti la sua battaglia l’ha già vinta e indipendentemente da come andrà a finire la tanto agognata riforma della sanità, comunque Barack H. Obama passerà alla storia per aver rifiutato lo status quo. Nel senso di una rivincita, di una rivalsa morale.
Riavvolgere la bobina di quella campagna elettorale, come fatto nel volume “Il sogno del Re, 3 gennaio-4 novembre 2008: la migliore campagna elettorale della storia” dall’avvocato Tommaso Di Gioia, è stimolante. Per carpirne sfumature e dettagli e, perché no, per valutare quanto la politica italiana sia drammaticamente ancora indietro, ferma all’età della pietra.
Il libro è un inno alla tattica politica, un approfondimento vissuto in prima persona dall’autore in quelle ore e tra quella folla, per annusare cosa significhino concetti come sagacia e tempismo. E messi in pratica non da un burocrate notabile o dal prodotto della buona società, ma dal figlio di un keniota, di un immigrato. Che dalle nostre parti sarebbe guardato con diffidenza, a cui si chiederebbe conto subito di qualcosa. E a cui nessuno verrebbe in mente di testare proposte e concetti.
Ma dall’altro lato dell’oceano, per fortuna, c’è ancora spazio per quelle rarissime rondini che troneggiano a primavera, e che vengono comunemente chiamate idee e che trovano ampia descrizione nel volume. Come le strategie elettorali di Obama, l’intuizione di investire di più nei distretti con delegati dispari o di puntare alla vittoria nei little States.
E poi la gestione della comunicazione, i rapporti con Nancy Pelosi e Howard Dean. Chissà che qualche candidato alle prossime elezioni regionali, colto da un’improvvisa lucidità, non decida di acquistarlo e magari tragga ispirazione per qualche strategia. Possibilmente vincente.

mercoledì 10 febbraio 2010

Ma troppa attenzione alle radici ci farà perdere di vista il futuro

Da Ffwebmagazine del 10/02/10

Ma non sarà che a forza di imbastire la salvaguardia delle identità di ieri, si stanno smarrendo energie per costruire quelle di domani? Sottovalutando, ad esempio, la forza propulsiva delle rete e dell’immenso contributo di idee che può fornire, in un’ottica che investa nell’immaginario?

Il dibattito, avviato in occasione dei festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia e sostenuto da un recente seminario Aspen, parte dalle condivisibili constatazioni di come l’intero patrimonio storico e culturale italiano si scontri sempre più frequentemente con una percezione non all’altezza, sia del quotidiano che della sua rappresentatività. Quasi fossimo in presenza di due blocchi che viaggiano su binari paralleli e che compongono una drammatica incongruenza. Un’Italia nota e ammirata per storia, arte, letteratura. E una mestamente preda di inconcludenze, collusioni, sprechi, ritardi atavici: un’Italia che, in una parola, sopravvive. Si pensi alla consapevolezza che, se è vero che il passaporto italiano è visto come un esclusivo biglietto da visita nel mondo, per altri versi altrettanto tangibile è la minuscola credibilità nazionale.

Una linea di analisi che transita dalla notevole omologazione del pensiero intellettuale, definito al limite dell’autocastrazione. Da ciò il paradigma di un paese con un glorioso passato, un presente strutturalmente povero ma, dato ancor più preoccupante, un futuro completamente immerso nell’incertezza. E che smorza sul nascere speranze e proposte innovative. Che guarda al web come una minaccia, non assimilando intimamente come esso rappresenti invece un’occasione, così come fatto da Obama o da Vendola. Di confronto, di apertura, di mondializzazione di menti: allacciate l’una all’altra per scontrarsi e quindi per produrre. Che non programma con una logica di lungimiranza, galleggiando sulle contingenze che gradualmente si presentano. E agendo, di conseguenza, in risposta alla prossima emergenza, senza anticiparla con visioni di ampio respiro.

Un paese che anziché attaccare, difende e si difende con tutti gli effettivi, ma lasciando inspiegabilmente la porta sguarnita. Appallottolato all’interno di contenitori vuoti e di soluzioni fantasma. Che fa di tutto per ignorare quell’invito rivolto nel 1846 da Proudhon a Marx, «non facciamoci capi di una nuova intolleranza, accogliamo e incoraggiamo tutte le proteste. Condanniamo tutte le esclusioni e tutti i misticismi ideologici».

Un paese che, assieme a certo substrato socio/culturale, sta scivolando indietro non di qualche anno ma sino all’età della pietra, dimostrando quasi di non essere interessato alle nuove sfide del terzo millennio, al contributo delle élite in chiave di concertazione, ad esempio, con il rapidissimo progresso scientifico, inimmaginabile solo dieci lustri fa. Accanto a questo scenario la risposta della politica, non solo è apparsa spesso deficitaria, ma addirittura controproducente.

Perché anziché interrogarsi sulla tipologia delle evoluzioni post moderne, complice quell’aria nebbiosa e di continua rissa che non aiuta, si è avvitata su se stessa in una sterile difesa di patrimoni del passato, di identità che nessuno mette in dubbio. Ma che difficilmente potranno contribuire a guardare il mondo con le lenti giuste. Adeguate a una visione inevitabilmente diversa e in continua evoluzione, sia per modalità che per spunti. Soprattutto da parte dei più giovani.

E poi le radici occorrono per metabolizzare il passato, approfondirlo e possibilmente carpirne il meglio con l’obiettivo di ripartire da questo, non per invocarlo a ogni decisione da prendere e poi, tafazzianamente o non prenderla o prenderla al contrario.

Perché allora non provare a reinventare la percezione culturale del paese? Anche attraverso la cosiddetta compresenza di contrari che, secondo Mario Galzigna, filosofo e docente di epistemologia a Venezia, è «un’altalena che rivendica il diritto delle differenze ad esistere senza essere cannibalizzate in quanto dialettiche singolari». Il cui ruolo può essere quello di andare oltre quella consapevolezza di apriori e, perché no, senza diventarne prigionieri, ma impiegandole come una sorta di slancio propositivo. Facendo del sostegno all’immaginario un nuovo filone di proposta culturale.

E allora sarebbe il caso di valorizzare attentamente quelle altalene di contrari, valutandole come un arricchimento, anche in considerazione del fatto che certo immobilismo non rappresenta una valida alternativa. Quindi raccogliendone i frutti solo potendo contare sulla piena consapevolezza delle radici laiche dell’identità culturale italiana. Passaggio delicatissimo, che consente di tuffarsi nei meandri di quella società civile, alcova delle coscienze, della maturazione umana. Dove si sanano contrasti, si produce nuova linfa per affrontare le evoluzioni che il domani, inevitabilmente, riserverà.

Ma davvero qualcuno ritiene ancora di potersi tappare le orecchie e ignorare i richiami che sta urlando il futuro? E a quale scopo? Per ritardare inesorabilmente la presa d’atto che il duemila è già iniziato da un decennio? E per far questo occorre investire, osare, alzare lo sguardo oltre il proprio ciglio e scrutare l’orizzonte, magari rileggendo le parole che Benedetto Croce scrisse in una lettera a Giovanni Laterza, «bisogna avere fiducia nell’avvenire e coraggio nel presente».

lunedì 8 febbraio 2010

GRECIA, LA SCONFITTA DELLA POLITICA



Da Mondogreco News del 02/02/10

“Entro nell’aula scolastica con lo stesso animo dello zolfataro che scende nelle oscure gallerie” scriveva Leonardo Sciascia quarant’anni fa. Chissà quale stato d’animo avrebbe oggi, lo scrittore di Racalmuto,nel vedere e nell’analizzare in che condizioni si trova la patria della filosofia, della medicina, della scienza, oltre che di Omero, di Alessandro Magno, di Leonida e di tanti altri personaggi che hanno fatto la storia.



Adesso che istituzioni e media internazionali hanno acceso un fascio di luce sui conti finanziari della Grecia, sarebbe fin troppo facile pontificare circa soluzioni e medicine per “l’ammalato grave” dell’Unione Europea. Ma sarebbe anche fin troppo facile scrollarsi di dosso precise responsabilità e oggettive mancanze da parte di chi quei conti avrebbe dovuto valutare con attenzione, evitando sprechi colossali e mistificazioni assurde. Reperire le cause del dissesto finanziario ellenico non è ad appannaggio solo di coloro che hanno conseguito un master alla London School of economics. Chi frequenta la Grecia o ne ha una cognizione tangibile anche media, negli anni si sarà senza dubbio accorto di una serie di fattori legati alla quotidianità, ma che l’intera classe politica, o ha colposamente sottaciuto, o ha deliberatamente sottovalutato.

Semplicemente la Grecia per un trentennio ha speso più di quanto ha prodotto. In una serie di ambiti, piccoli e grandi. Si prenda la scuola e l’università, dove il modello attuato oltre ad essere palesemente anacronistico, appare controproducente su due principali fattori: quello della strutturazione dell’offerta formativa e quello del conseguente livello professionale cognitivo. Gli studenti greci, oltre a recarsi a scuola al mattino, osservano la prassi di frequentare anche i doposcuola al pomeriggio. E non sporadicamente, come avviene anche in Italia, per preparare un esame di stato o un concorso. Ma abitualmente, con un aggravio di costi per le famiglie e anche per lo Stato, che comunque paga gli insegnanti di giorno, ma che poi alla fine non si sa per quale motivo, non offrono sufficiente preparazione tecnica agli studenti. Altrimenti non si spiegherebbe l’uso sistematico del doposcuola. Inoltre non esiste un criterio basato sul reddito familiare in virtù del quale ottenere libri di testo gratis: li hanno tutti, ricchi e poveri. A questo quadro sconsolante si aggiunge la logica perversa delle panellinie, gli esami di accesso alle Università. Chi non le supera è costretto a studiare all’estero, con altri fiumi di euro che fuoriescono dal sistema finanziario nazionale e con la famiglie che si indebitano. Niente di più deleterio. Nessuno ha proposto e realizzato in concreto, nell’ultimo decennio, la costruzione di nuove università, che consentano a tutti gli studenti greci di frequentarle in patria, oltre che rappresentare un’occasione di sviluppo occupazionale per le singole regioni. Poi ovviamente per chi lo desidera, nulla impedirebbe di accedere ad un master all’estero. Ma oggi tale opzione è consuetudine.

Altro dato sui cui riflettere: il rapporto tra lo Stato centrale e le singole amministrazioni locali. Si pensi ad esempio alla proliferazione di Comuni invisibili, anche al di sotto dei cinquecento abitanti, tutti dotati di sindaco, consiglieri comunali, in nome di un’autonomia senza perché e con costi aggiuntivi non indifferenti. In base a quale ragionamento politico-amministrativo si è proceduto a tale frammentazione delle singole istituzioni, senza invece operare una più saggia e funzionale razionalizzazione? Ancora, chi ha vigilato sui lavori effettuati in occasione delle Olimpiadi del 2004? La domanda, niente affatto retorica, è utile per capire chi e perché ha progettato impianti che oggi al 70% sono inutilizzati, con un aggravio di spese esorbitanti. E con ricadute in termini di tasse che i greci continueranno a pagare per quelle opere di cui oggi nessuno sente più parlare. Lavori pubblici e non solo: come non aprire una riflessione seria e ponderata sulla corruzione (che ha livelli da terzo mondo) e sul tema dell’inquinamento e delle energie sostenibili? In Grecia non si è incentivato l’utilizzo dei motori diesel, il cui carburante costa meno e produce anche meno tossine per l’ambiente. Alcuni centri cittadini, come Atene o Salonicco, sono addirittura interdetti alle auto a gasolio. Invece la maggior parte delle famiglie acquista auto anche di grossa cilindrata a benzina, quasi si muovessero per le Free Way americane. Lì dove le grandi marche storiche statunitensi stanno riconvertendo l’offerta con modelli economici e più piccoli, in partnership con la Fiat. Per non parlare delle alimentazioni a metano, che sarebbero un vero toccasana, anche per quegli agricoltori o per chi vive in montagna, costretti ad acquistare un agrotikò, dotato di quattro ruote motrici per via del fango e della neve. Che ad oggi si trova a fronteggiare costi elevatissimi per la manutenzione. E che spesso decide di non produrre più, chiudendo bottega.

Incongruenze, dilapidazioni di patrimoni, errori reiterati: il concetto di spreco è andato di moda per molti anni nell’Ellade. E su ampi versanti, dai rapporti con le gerarchie ecclesiastiche sui cui poca chiarezza anche finanziaria c’è stata, ai prodotti commerciali; senza contare le materie prime come l’acqua o il sole, o passando, con le dovute proporzioni, per la quantità di cibo finito al macero, sia da parte delle famiglie che da parte dei ristoranti e delle taverne. Sono alcuni esempi, riguardanti in primis lo Stato ma anche le piccole abitudini della società, che offrono un quadro di insieme della situazione. E che non potevano portare ad altro se non all’impoverimento del Paese. In tutti i sensi. Ma realmente qualcuno, tra politici, economisti o semplici cittadini, riteneva in cuor suo che uno Stato dove si pagavano pochissime tasse e dove non vi era un solo investimento per le future generazioni, avesse avuto qualche chanche di passare indenne lo tsunami finanziario del 2009?

Semplicemente in Grecia chi aveva il dovere, come un buon pater familias, di gestire la cosa pubblica e, perché no, indirizzare le abitudini dei privati, non solo non lo ha fatto, ma è diventato esso stesso parte di quel sistema verticale proiettato sull’oggi, come il detto “den pirasi” ci ricorda. Senza il benchè minimo sentore di cosa il domani potesse riservare. Sarebbe auspicabile, ma è evidente che apparirebbe come una mossa retorica e per certi versi utopistica, che la classe dirigente fosse azzerata in massa. Ma forse, anche dalle loro parti, qualcuno si starà accorgendo che è finito il tempo delle promesse e delle stagioni estive, tutte di caldo e di sole. E’arrivato purtroppo l’inverno sulla nostra madre Grecia, e sarà il caso di munirsi degli attrezzi idonei per spalare le centinaia di tonnellate di detriti che, ad oggi, affogano inesorabilmente il Paese.

domenica 7 febbraio 2010

BARACK, QUEI 10 MESI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO

Da Barilive del 07/02/10

D. Avvocato Di Gioia, perché quella 2008 può essere definita la migliore campagna elettorale della storia?
R. Perché ha innovato le strategie elettorali come mai prima: l’utilizzo sapiente di internet, il rapporto con i giovani, le modalità di raccolta fondi, l’acquisizione “mirata” di delegati nelle primarie, la decisione di far crollare le roccaforti repubblicane nelle presidenziali. Sono dinamiche che faranno storia e saranno studiate da tutti gli esperti di marketing elettorale.

D. Non un semplice uso della rete ma un vero e proprio social network.
R. Lì ogni giorno decine di migliaia di elettori o simpatizzanti dialogavano tra loro, scambiandosi notizie utili alla vittoria del senatore nero, organizzando incontri o manifestazioni di sostegno.

D. E la sintonia con i giovani?
R. Non ha avuto paura di perdere in autorevolezza. Ha ballato all’ “Ellen De Generes Show”, uno dei talk show più noti, ha ribadito di voler rappresentare il cambiamento, si è fatto accompagnare nei tour da alcune delle attrici più amate dai giovani, ha dimostrato di seguire lo sport e di praticarlo. Quanto ai fondi, per la prima volta dopo trent’anni, ha rinunciato a quelli federali perché i contributi dei cittadini comuni gli avrebbero garantito una maggiore dotazione economica. Il suo slogan è stato “Anche 10 $ possono fare la differenza” e, in tal modo, milioni di elettori hanno donato tramite il suo sito somme esigue che, però, nell’insieme gli hanno quasi fatto doppiare la raccolta fondi della Clinton (nelle primarie) e dei repubblicani (nelle presidenziali).

D. La frase di Obama “Non accetterò lo status quo come soluzione” sembra quasi la base per annunciare il manifesto della rivoluzione politica del secolo: quale è stata la sua più pregnante peculiarità?
R. La parola d’ordine della sua campagna elettorale è stata “Change”. Ha colto che negli ultimi otto anni l’attenzione dell’Amministrazione Bush si era rivolta essenzialmente ai conflitti esteri. In tutto questo tempo sono saltati alcuni meccanismi che consentono allo Stato di controllare e, in alcuni casi, di direzionare l’attività dei privati. Ciò ha comportato il proliferare di operazioni economico finanziarie sempre più “selvagge” nella ricerca del profitto, con le conseguenze gravissime che ancora oggi il mondo è chiamato ad affrontare. La promessa di cambiamento di Obama è quella di una maggiore attenzione ai bisogni reali della gente mediante un ruolo più pregnante dello Stato anche al fine di evitare i danni determinati dalla “deregulation”.

D. Oggi abbiamo l’immagine del capo della Casa Bianca in apparente difficoltà: troppe aspettative, o legittime difficoltà, dettate dalla portata epocale delle riforme in programma?
R. L’immagine quasi “da icona” cucitagli addosso dai media gli ha nociuto perché le aspettative sono andate oltre quello che la logica consiglierebbe. In politica, invece, occorre coniugare la poesia degli ideali con la prosa della realtà e questo richiede tempo e pazienza. Ma questo lo staff di Obama lo aveva preventivato: nel libro scrivo che il suo consulente più fidato, David Axelrod, subito dopo l’esito elettorale, aveva già messo in guardia dai facili entusiasmi, spiegando che l’America è ancora un Paese essenzialmente conservatore e che il cambiamento avrebbe richiesto un processo lungo.

D. “Il sogno del Re” è un docu-romanzo di circa 600 pagine ricco di dettagli e dati: come è nata l’idea e quale seguito potrebbe avere?
R. Ho voluto dare piena testimonianza ad una pagina importantissima della nostra Storia contemporanea. E se si vuol dare testimonianza alla Storia non si deve lesinare sui dettagli, perché sono proprio quelli che consentono di costruire un mosaico espressivo capace di fornire elementi di giudizio e analisi. Preciso che il mio non è un istant book ma si propone di essere un manuale di studio, infatti alcuni esperti che lo hanno visionato, hanno ritenuto di inserirlo come parte speciale nei corsi universitari delle Facoltà di Scienze Politiche.

D. “Re” Martin Luther King sarebbe soddisfatto di come si è concluso l’anno del primo presidente nero?
R. In un passaggio del celebre discorso del 28 agosto 1963 al Lincoln Memorial, King testualmente afferma: “Io ho un sogno, che un domani i miei figli neri non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Io ho un sogno, oggi!”. Il libro si chiude con l’affermazione che il sogno del “Re” si è realizzato il 4 novembre 2008, nel momento in cui gli USA hanno scelto un nero come proprio Presidente, giudicandolo non per il colore della pelle, ma per le qualità del carattere.

mercoledì 3 febbraio 2010

Ma l'Italia sa ancora sognare?


Da Ffwebmagazine del 03/02/10

Che succede al belpaese? Dove sono finiti i sogni della gente, i progetti dei giovani, le mete dei più saggi? O gli errori, i tentativi, i contrasti da cui - diceva Einaudi - nascono le idee? Nella lettera ai Romani, San Paolo scriveva «ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza».

Giorgio Armani in un'intervista al Corriere della Sera di qualche giorno fa ha riflettuto amaramente che «rispetto a Parigi e Londra, sembra che qui non succeda mai niente. Al limite i giovani si riversano sino a tardi in discoteca, non parlano, al massimo si tocchicchiano senza combinare granché. Non abbiamo la cultura del posto di ritrovo europeo». Denunciando una realtà fastidiosa, quasi amebica, fatta di menti che non si uniscono, proiettate solo all’oggi e drammaticamente prive di una qualche proposizione futura. Dove mancano appuntamenti di ampio respiro, che inneschino una sorta di concatenazione di freschezza.

Analogo filo conduttore che si ritrova, con spunti differenti, nelle parole dell’allenatore dell’Inter Josè Mourinho, quando dice che «in Italia è impossibile innovare, si può solo resistere». Riferendosi alla permanenza cronica dello status quo, senza che spinte modernizzatrici trovino sfogo. Anche nel calcio poche sono state le sperimentazioni, le innovazioni o le rivoluzioni: si pensi ad esempio alla volontà di non fermare le partite durante le festività natalizie, come accade in Inghilterra nella Premier League. O dotare le porte di sensori che garantiscano il gol quando la palla ha effettivamente varcato la fatidica linea bianca. Niente. Lo sport è solo uno degli ambiti in cui manca il coraggio di osare. Si pensi all’arte, dove una ventata di innovazione potrebbe essere rappresentata da musei di nuovo conio, concepiti come luoghi globali e aperti al cambiamento, anche per avvicinare altri fruitori. O all’editoria, con la rete che spalanca nuove opportunità.

Novità che non accadono, esperimenti che non si attuano. Un disagio respirato a più livelli, se è vero che Lucio Dalla, discutendo sull’appeal della sua Bologna, è arrivato a definirla «una città depressa, per la consapevolezza di non essere più la città di un tempo. Non si compiace più di quel che rappresenta nell’immaginario italiano: la città grassa, dotta, godereccia. Non è più capitale culturale, produce sempre meno idee e vive un senso quasi di panico». L’elemento sul quale riflettere non è solo il fatto che la città non sia più quella di un tempo, ma che fatica a produrre il nuovo. Dal momento che «non bisogna cercare di tornare all’origine - come predicava Alain de Benoist - perché non si può tornare indietro. Non bisogna fare un ritorno, ma un ricorso all’origine». Ovvero niente rimorsi romantici del tempo che fu, ma concentrare forze ed energie per costruire un’altra immagine, che sia base culturale, artistica, e anche politica, per la società di domani. E poi sforzandosi di abbattere il nuovo nemico del secolo in corso. Quella sensazione di panico che furoreggia dappertutto. Quasi che la paura si potesse combattere rintanandosi semplicemente e ingenuamente nella propria casa, come un cane che intimorito fa mestamente ritorno nella calda cuccia. Niente di più controproducente. Il timore va sconfitto osando. Il grigiore va spezzato colorandolo di mille spruzzi cromatici. Come l’arcobaleno, che troneggia al termine di un cupo temporale.

E in questo senso un apporto rilevante lo potranno dare, perché no, non solo le élites, ma soprattutto quella valanga di spiriti liberi e di neuroni in movimento che sono le idee. Nude e crude. Senza fronzoli, retropensieri, o illazioni di vario genere. Quelle che Lucio Dalla non vede più aggirarsi per le strade della sua città. Quelle che spaventano branchi di uomini e di donne in perenne stand by di fronte a una novità che scompagina. Quelle che Giorgio Armani magari vorrebbe implementare e incentivare, per fare dell’Italia un polo meno ingessato e più brioso e, quindi, definitivamente avanguardistico. Quelle, per intenderci, che hanno consentito ai cervelli di casa nostra di fare le scoperte che hanno fatto nelle università americane. O che hanno raccontato belle storie di modernità. Ma come ottenere nuova linfa se non tranciando quegli sguardi tristi, quelle iniziative forzate, quelle approssimazioni acidule, quei tentativi di spargere paure e sospetti? È da lì che bisognerebbe ri-partire, per reinventare contenitori differenti, non vuoti anche se graziosi e perfetti all’apparenza. Ma capaci di ospitare contenuti veri, in grado di creare un’altra volta emozioni, sogni, speranze.

Concetti che fanno venire alla mente le note di Franco Battiato in Un’altra vita: «Non servono più tranquillanti o terapie, ci vuole un’altra vita. Non servono più eccitanti o ideologie, ci vuole un’altra vita». Quanto dovrà aspettare il paese per aprire una nuova fase?