mercoledì 28 marzo 2012

Cento anni dopo, a lezione dalle futuriste

Sesso debole o controfaccia “dorato” della medaglia maschile? Ircocervo di emozioni e intuizioni, o soggetto secondario a cui però fare riferimento quando “si mette male”? Ricorre quest'anno il centenario del Manifesto della Donna futurista, pubblicato da Valentine de Saint-Point nel 1912, che sosteneva la completa emancipazione della donna. L’occasione per ragionare (finalmente) a mente libera di donne e femminismo in un paese dove il velinismo ha fatto scuola, che appare ancora maschilista e poco propenso a lasciare il giusto spazio a chi invece meriterebbe altri e alti palcoscenici. Ma andiamo per gradi. La rivista Italia futurista ospitò gli scritti di diverse donne, poetesse e scrittrici, come Benedetta Cappa, moglie di Marinetti. Alcune donne reagirono con veemenza e Valentine de Saint-Point pubblicò nel 1912 il "Manifesto della Donna futurista" a cui seguì l’anno successivo il "Manifesto futurista della Lussuria", che rivendicava il valore positivo del piacere e della sensualità, contestando le migliaia di ipocrisie della morale tradizionale. I Manifesti di Valentine de Saint-Pont furono pubblicati dai futuristi, non solo per merito di quel prestigio che l'autrice custodiva in sé, (tra le altre cose era nipote di Victor Hugo), quanto perché, provenendo da una mente femminile, quell'elogio della lussuria appariva così carico di forza propulsiva e anticonformismo. Particolari che si possono apprezzare anche nel volume Il Manifesto della donna futurista, di Valentine de Saint-Point Valentine (2006- Editore Il Nuovo Melangolo-collana Nugae) che racchiude ben sei scritti di Valentine. Il primo è proprio il Manifesto, con la postfazione di Jean-Paul Morel. Quel risveglio di inizio secolo, così ben tradotto in pagine e azioni dalla penna francese, condusse a quella che venne epitetata come il modello di donna nuova. Che deve fare i conti con pulsioni fino a quel momento quasi del tutto sconosciute, come l’inquietudine, il tentativo di essere protagoniste, intervenendo in pubblico. E anche tramite stili di vita moralmente trasgressivi. All’interno si può apprezzare anche un passaggio sulla tematica “Amore e lussuria”, oltre al progetto di un Teatro della donna e due scritti sulla "metacoria". Quello spunto, oggi centenario, potrebbe rappresentare la molla per l’Italia e la sua politica ferma all’anno zero. Che si interroga ancora se e quando abbandonarsi alla modernità, che ha bisogno delle quote rosa per decretare la parità, che impiega il sopracciglio preventivo di fronte a interlocutrici che, come unico difetto, hanno quello di non essere vecchi mammalucchi figli di un regime passato e del passato, che troppo spesso preferisce il reggicalze ai curricula. Ma qualcosa sta cambiando. Si scopre che il Capo dello Stato, che giovanotto non è, nel tracciare le future linee del Quirinale auspica un successore donna, dimostrando più futurismo di molti altri, nati politicamente ben dopo la prima repubblica. Segno che “le donne” biancorosseverdi (quelle brave) sono pronte al grande salto. In verità presenze “pesanti” non mancano nell’esecutivo Monti. Si va dalla coriacea Elsa Fornero (le lacrime dell’esordio non ingannino) alla guida di un dicastero delicatissimo come il welfare, alla Cancellieri al Viminale, passando per la statura della Severino alla Giustizia. Ma fuori da palazzo Chigi ci sono, ad esempio, Anna Finocchiaro capogruppo al Senato del Pd, Emma Marcegaglia appena terminato il mandato a viale dell’Astronomia, Patrizia Micucci managing director delle divisione italiana di Lehman Brothers, Emma Bonino, già Commissario Onu, espertissima di Medio Oriente, attualmente vicepresidente del Senato, Giuliana Paoletti, fondatrice di Image Building, società di pubbliche relazioni. Ciò che manca, al momento, è il coraggio di scegliere “rosa”. Eppur qualcosa si muove… Fonte: il futurista quotidiano del 29/03/12 Twitter@FDepalo

martedì 27 marzo 2012

Inascoltato perché vedeva lontano. Il ricordo di Andreatta

Rigore di bilancio e lotta a sprechi e debito, in quanto ipoteca che grava sulle future generazioni. A cinque anni dalla scomparsa di Nino Andreatta serve focalizzare l´attenzione su quei due punti del suo pensiero, tremendamente attuali nell´Italia che si adopera (in colposo ritardo) per combattere la crisi. In quanto elaborati in tempi non sospetti, quando dello spread si discuteva solo a Piazza Affari e gli allarmismi non erano diffusi, al pari della paura di fallire. Ma, proprio per questo, una mente lungimirante come la sua alzò un dito per richiamare all´ordine. Ovvero quell´integrazione (quasi come un cordone ombelicale che non si può tagliare) tra conti in ordine e buona politica, quella con la P maiuscola, che non si interroga tanto sull´oggi ma getta le basi per i decenni futuri; che investe a lunga scadenza e in larghezza di vedute, non solo nel proprio orticello elettorale; che fa il passo solo se coperto a sufficienza, senza creare voragini e buchi da ripianare a fatica. E lo fa immaginando scenari, prevedendo criticità. Richiami che, purtroppo, non sono stati raccolti a sufficienza dalle classi dirigenti di allora. L´anticonservatorismo di Andreatta (fondatore di Arel) era stato avversato proprio da chi, nelle sue intuizioni, vedeva a forte rischio rendite di posizione e privilegi costituiti nel tempo. In quanto la vulgata maggiormente diffusa era che lo stato potesse assumere le vesti di una mucca da mungere all´infinito, senza limiti materiali e temporali. E invece un bel giorno l´intero sistema-paese si è destato dal torpore e si è accorto di essere giunto al capolinea, dove tutto non sarà più come prima. Per questo il ricordo di Andreatta potrebbe rappresentare l´occasione non per le consuete e a volte troppo stucchevoli celebrazioni passatiste, quanto per evitare di riservare ad altri lo stesso trattamento toccato a lui che, nei fatti, aveva previsto i guai di oggi. Molte delle sue battaglie sono ritornate di estrema attualità. Anzi, nell´anno zero della politica italiana dovrebbero essere prese come spunto da tutti. Dai professori: per continuare con fiducia, costanza e un pizzico di irriverenza il percorso avviato con il "Salva-Italia", portando fino in fondo non solo le liberalizzazioni e le riforme, ma una complessiva rigenerazione del Paese. Dai partiti: per evolversi finalmente in chiave moderna e di trasparenza, perseguendo serietà nei bilanci e nei rapporti con l´elettorato, e con il tessuto imprenditoriale, evitando contiguità e connivenze. Dagli elettori: affinché riprendano quel controllo democratico sottratto loro dal Porcellum, ma nella piena consapevolezza che non sarà più sufficiente delegare in bianco alla politica, ma elevare la società civile a interlocutore qualificato e dotato della propria peculiarità. Dalle élite: perché, mai come in questo caso, comprendano che è giunta l´ora di "sporcarsi le mani" per il bene del paese, tessendo più filo e facendolo alla luce del sole. Abbandonando soprattutto il "calduccio delle proprie cucce ideologiche" e rimescolando competenze e convinzioni. Per dare risposte a un Paese che, in fondo, chiede solo il dovuto. Twitter@FDepalo Fonte: Formiche del 27/03/12

lunedì 26 marzo 2012

L’Europa? O è Mediterranea o non è. Sì al piano marshall

Quando si parla di piano Marshall per la zona euromediterranea l’interrogativo non è tanto sul sì o sul no verso una simile iniziativa. Da stolti non prendere atto di come a quel disagio non si possa che rispondere con l’arma della solidarietà, senza se e senza ma. La domanda piuttosto è: chi lo fa? E come? Ovvero non sarà sufficiente immettere miliardi di euro, ma ancor più strategico sarà definire priorità e soprattutto attori protagonisti di questo spettacolo. Nella convinzione che potrebbe trasformarsi in un grande evento, perché no, proprio uno spettacolo: rinvigorire il Mediterraneo, sostenere lo sviluppo di quel grande megafono di diritti che sono state un anno fa le piazza nordafricane, come l’occasione per affrontare a viso aperto la crisi non solo economica ma soprattutto strutturale del vecchio continente. Ecco il nodo. Perché l’Europa, o e Mediterranea, o non è. Non c’è scampo per il vecchio continente. A metà strada tra l’eterna vocazione geopolitica (finora solo sulla carta) di molo messo lì in quel grande lago salato, naturale crocevia tra Africa e Oriente; o un vera protagonista, fino in fondo. E grazie a una condotta corroborata da politiche attive e non dettate sempre da altro e da altri. Quale dunque la carta di identità che l’Unione dovrebbe sfoggiare? Umile ma determinata, collaborativa ma non genuflessa alla superpotenza di turno, protesa al dialogo inter-sociale ma conscia della propria storia e del proprio bagaglio di cultura, sin qui poco sfruttato. Per questo un piano Marshall dedicato all’intera area euro mediterranea (con l’Italia al centro, anche grazie alla straordinaria vetrina dell’Expo di Milano 2015) potrebbe rappresentare la vera occasione di riscatto dell’Europa. Con il belpaese a recitare l’intrigante ruolo di grand chief, una sorta di canale di Panama che colleghi idealmente Bruxelles al nordafrica, agli avamposti che si affacciano sulla sponda mediorientale, dove si stanno consumando grandi cambiamenti epocali. Dove la scure dello spread e il rischio default in Grecia vanno ammortizzati non lasciando il popolo ellenico solo, con Israele che va sostenuta nel combattere i rigurgiti antisemiti, con i rapporti iraniani da riequilibrare chiedendo conto a Brasile e Turchia della “sponda nucleare” con Teheran, stemperando i focolai conflittuali, tentando la via della mediazione come fatto anni fa da Bill Clinton a Camp David. E portando in dono un ramoscello di ulivo, non solo titoli di stato da rimborsare o interessi alle stelle da pretendere. Twitter@FDepalo (Al tema sarà dedicato uno speciale sul primo numero del futurista mensile) Fonte. il futurista del 26/03/12

sabato 24 marzo 2012

Quando la libertà si fa donna: Anselmi e San Suu Kyi

La peggiore forma di patriottismo, ha scritto Curzio Malaparte, è quella di «chiudere gli occhi davanti alla realtà, e di spalancare la bocca e gli inni in ipocriti elogi, che a null’altro servono se non a nascondere a sé e agli altri i mali vivi e reali». E invece il disagio va urlato, esternato senza remore, i fatti raccontati, i diritti pretesi. Costi quel che costi. In occasione degli 85 anni di Tina Anselmi e alla vigilia delle elezioni politiche in Birmania, a cui parteciperà anche la Lega nazionale Democratica di Aung San Suu Kyi, ecco un interessante volume a cura di Giuseppe Amari e Anna Vinci: Le notti della democrazia (Ediesse editore). Che racconta in parallelo l’esperienza di due grandi donne, Aung San Suu Kyi e Tina Anselmi. La quali, in tempi e circostanze diverse, hanno proiettato il loro sforzo umano e professionale per l’avanzamento civile e democratico dei propri paesi. Si tratta di pagine impregnate di una vera e propria “affinità elettiva” tra due donne che possono essere definite a tutti gli effetti «erasmiane», per usare un termine tanto caro a Ralph Dahrendorf rivolto agli intellettuali e alle persone che hanno «il coraggio della libertà nella solitudine, la capacità di convivere con le contraddizioni, la facoltà di coniugare osservazione e impegno, la passione della ragione».

In apertura il volume presenta una sorta di grande affresco del processo democratico, partendo dall’analisi multidisciplinare del Piano di rinascita di Licio Gelli. L’azione di Tina Anselmi, che era a vertice della Commissione di inchiesta parlamentare sulla Loggia deviata, fu determinante per la difesa della democrazia italiana da uno degli attacchi più insidiosi mossi dal dopoguerra. Anche in politica attiva la sua figura si distinse come ministro del Lavoro e della Sanità sotto il quale fu varato il Servizio sanitario nazionale. Evidenziando al contempo una doppia direttrice, una dimensione marcatamente femminile di resistenza accanto a una di promozione democratica. Su queste basi poggia il parallelismo con la storia di un’altra donna, di altra generazione, fede, cultura, nazionalità: Aung San Suu Kyi che, sotto le note derive di un regime come quello della Birmania, ha rinunciato alla propria libertà personale per dedicarsi a quella generale del suo popolo. Nel volume ampio spazio è dato a testimonianze, inedite in Italia, dei suoi compagni.

E mettendo a confronto vite, ideali e lotte democratiche con quelli di Tina Anselmi, vessillo della Resistenza. Un doppio binario umano che si fa donna, con due volti distanti materialmente, per fasi, snodi e modalità. Ma accomunate da un sottile filo rosso che prende il nome di tenacia, di attaccamento ai diritti: in una sola parola, a quella straordinaria dose di ossigeno che si chiama libertà. Ma nella consapevolezza che non è mai un punto arrivo, non un risultato raggiunto fine a se stesso, da impacchettare e conservare nella vetrina di un museo, buono forse da (far) ammirare. Ma deve essere germoglio da innaffiare quotidianamente, pungolo continuo da inseguire in un moto perpetuo. Perché la libertà non è mai uno stato definitivo, ammoniva Wayne La Pierre, bensì «come l’elettricità la si deve continuare e generare, oppure finisce che le luci si spengono».

Fonte: il futurista quotidiano del 24/03/12

venerdì 23 marzo 2012

Dalla e Guerra, dall'Italia dei poeti a quella dei reality

Ha scritto Andrea Camilleri che poesia e cultura sono l´allargamento della capacità di capire il mondo, "quindi di capire la politica che fai. La ricchezza della cultura è la ricchezza della politica". In quanto espressione colorita e diretta dell´anima di un Paese, dei suoi meandri più intimi e celati ai più. Che, grazie a quell´esternazione poetica, vengono "accarezzati" da mani e versi esperti, per poter essere veicolati al grande pubblico e omaggiare, perché no, il bello. In un mese il belpaese ha perso due poeti: dopo Lucio Dalla è scomparso Torino Guerra, poeta del set cinematografico.

Definito da Elsa Morante "Omero della civiltà contadina", Guerra ha prestato la propria "poesia" a registi del calibro di Antonioni, Damiani, Petri, Rosi, De Sica, Taviani, Fellini, Anghelopoulos, Tarkovskij, Wenders. Portando in giro, come un prezioso vessillo, il suo dialetto come una sorta di passepartout che scoperchia mondi lontani e li unisce idealmente perché accomunati proprio dall´arte. Ma Guerra è stato anche sinonimo di passione: per la sua storia, con l´esperienza nei lager, a cui fa da contraltare quella gaiezza sorniona tipica della terra dove ha scelto di ritirarsi prima dell´ultimo respiro.

Un dato che risalta se solo si fa mente locale a un altro elemento distintivo pregnante, come la carovana russa che giungeva in pellegrinaggio a Pennabili, il borgo a metà strada tra la sua Romagna e le Marche dove Guerra amava rifugiarsi. Quel chiasso, quel contesto migrante di una comunità in cammino (in omaggio a due dei suoi luoghi preferiti, come Georgia e Armenia) segna il confine materiale con la sua esperienza durante il nazismo. Con la conseguente verve poetica che negli anni è riuscito a trasmigrare nel cinema.

Ma la dipartita di due personaggi di questo calibro offre l´occasione per ragionare su come un paese che si impoverisce dei suoi più noti poeti, faccia poi fatica a concedere spazi e palcoscenici all´arte e alla cultura, rannicchiandosi invece su modelli deleteri e fasulli. Come l´Italia dei reality, dove un gruppo di disperati rincorre granchi e litiga per un cocco, o i talk show urlati e con rissa incorporata, che hanno di fatto monopolizzato l´offerta televisiva. Producendo quell´ebetismo delle menti pericoloso per un tessuto sociale fragile come quello italiano. In quanto addormenta neuroni e scatti in avanti, spegne le iniziative e le intuizioni, uniforma tutto come si fa con una livella sulla falsa riga di modelli "commerciali" pronti e mangiati. Impedendo reazioni e pungoli "altri", non proponendo cliché degni e invece seconde o terze scelte dannose.

Ha osservato Luigino Bruni che un ospedale, una scuola, un museo (bisognerebbe aggiungere anche una televisione e magari un Paese intero) sono imprese civili, poiché il loro scopo non è fare soldi ma curare i malati, educare e formare, promuovere la cultura artistica, pur operando nel mercato. Da stolti pretendere che contenitori e modelli vengano proposti come dogmi alti e null´altro, ma è altrettanto inaccettabile che mentre vanno via due giganti come Dalla e Guerra, si festeggi il ritorno da un´isola di un paio di improbabili personaggi in cerca d´autore. Termometro beffardo di un Paese che deve aspirare a ben altro.

Fonte: Formiche del 23/03/12

giovedì 22 marzo 2012

La crisi greca e le candele di Kavafis

I giorni futuri, scriveva Kavafis, stanno avanti a noi come una fila di candele accese, dorate, calde e vivide. Chissà cosa direbbe il celebre poeta osservando come la malapolitica ha ridotto l’Ellade di oggi. Forse l'accosterebbe a una fila di candele già spente, con la cera raggrumata e quindi inutilizzabile, oppure a un impercettibile focolaio ancora acceso, ultima speranza di risalita. Perché il sottile filo che unisce (per quanto?) i vari lembi di un paese fratturato dalla crisi si chiama orgoglio. Raccontare cosa accade nella Grecia a un passo dal default non è solo esercizio di cronaca spicciola e cruda, per via di storie che sembravano lontane nel tempo, che invece stanno di nuovo facendo capolino in questo pezzo di Europa dimenticato. Ma è guardarsi dentro, guardare alla culla della civiltà per certificare il fallimento politico, anche di burocrati continentali che dell’Europa non hanno fatto ciò che giganti come Altiero Spinelli immaginavano.

Il piano della troika non ha sortito solo gli effetti da ragionieri diffusi dai media, ma riverberi sociali devastanti di cui poco si tiene conto. Molti cittadini, per lo più anziani, si rifugiano in zone rurali, come quelle di Creta o delle montagne in Fthiotida e Tessaglia. Perché la vita costa meno, non ci sono palazzi con i condomini alle stelle, si vive (o si cerca di farlo) di quello che si produce. Interi nuclei familiari scelgono di emigrare più a est dell’Ue, alcuni addirittura in Svezia o in Australia. Molti immigrati albanesi, che in Grecia lavoravano nei cantieri edili o come braccianti agricoli, fanno ritorno in patria. Un cambio di passo schizofrenico nell’era della globalizzazione, un’azione da macchina del tempo che nessun Solone dell’economia, e men che meno qualche sociologo di grido, ha neanche lontanamente previsto. Senza contare le fibrillazioni sociali che toccano chi di questa crisi sta pagando il conto. A Komotini, nel nord del paese, un sessantaduenne disoccupato (licenziato otto mesi fa dalla fabbrica in cui lavorava) ha preso in ostaggio due persone nella speranza di riottenere quell’impiego, per poi rilasciarli e costituirsi alla polizia. Poco prima, in preda a un raptus, aveva aperto il fuoco con un fucile ferendo due concittadini. La disperazione per una vita che vedeva frantumarsi in modo lento e inesorabile. Scene da film scoloriti e vecchi di decenni, quando il digitale non c’era ma si faceva largo, deleteria, l’illusione che il benessere fosse per tutti.

Far fallire incontrollatamente oggi la Grecia, secondo l'Institute of International Finance (Iif), la lobby delle principali banche del mondo, costerebbe oltre mille miliardi di euro. Con ripercussioni disastrose per l’intera area euro-mediterranea, e soprattutto per le banche tedesche e francesi ancora esposte, quindi fortemente interessate al varo, obtorto collo, di quelle misure votate dal parlamento ateniese. Che garantiranno altri prestiti, con tassi di interesse altissimi. Certo, in un momento in cui moltissimi greci sono al di sotto della soglia di povertà, con il ceto medio che sta sprofondando verso il basso, con il crollo dei consumi e con investimenti che nei fatti non ci saranno, stride voltare lo sguardo alla cultura.

Se il paese si chiama Grecia, però, non si può ignorare il rischio di depauperamento dell’immenso patrimonio socioculturale mondiale che, sotto i colpi della crisi, sta subendo un duro attacco. È il caso di numerosi scavi che, in mancanza di fondi, si bloccano e i cacciatori di tesori trafugano preziosi reperti. Il quotidiano “Ta Nea” riferisce che vicino Pella, l’antica capitale della Macedonia, gli archeologi hanno trovato il terreno martoriato di buche: segno che i tombaroli sono in azione indisturbati, in una zona particolarmente ricca di testimonianze rilevanti come le maschere funerarie d’oro poste a decorazione delle tombe dei nobili macedoni. Un altro segno della crisi, dove tutto sembra implodere verso il caos, un magma in cui le previsioni non sono rosee e la luce in fondo al tunnel non si vede. Ma, proprio per questo, come dimostrano millenni di storia ellenica, tutto fa credere che qualcosa (di buono) potrebbe accadere. E le fila delle candele di Kavafis si vedranno finalmente di nuovo accese.

Fonte: Rivista Il Mulino del 15/03/12

La politica a lezione da Moro: l’uomo torni al centro

«Di contro a sconcertanti e, forse, transitorie esperienze c'è quello che solo vale ed al quale bisogna inchinarsi, un modo nuovo di essere nella condizione umana. È l’affermazione di ogni persona, in ogni condizione sociale, dalla scuola al lavoro, in ogni luogo del nostro Paese, in ogni lontana e sconosciuta regione del mondo; è l’emergere di una legge di solidarietà, di eguaglianza, di rispetto di gran lunga più seria e cogente che non sia mai apparsa nel corso della storia. E, insieme con tutto questo ed anzi proprio per questo, si affaccia sulla scena del mondo l’idea che, al di là del cinismo opportunistico, ma, che dico, al di là della stessa prudenza e dello stesso realismo, una legge morale, tutta intera, senza compromessi, abbia infine a valere e dominare la politica, perché essa non sia ingiusta e neppure tiepida e tardiva, ma intensamente umana». È uno stralcio del discorso che Aldo Moro tenne in occasione del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, il 21 novembre 1968. Dove il primato della persona emergeva alto e imponente, per via di quel collante chiamato solidarietà sociale. Che al suo interno, come uno scrigno tutto da scoprire, custodisce un doppio tesoro. Da un lato l’essere umani, con la dignità del singolo essere pensante e che diventa cittadino attivo grazie al suo stato di zoon politikon di aristotelica memoria. Con le conseguenti valige di diritti che in quel frangente appaiono, come d’incanto, dinanzi agli occhi del soggetto. Ma l’uomo da solo non è sufficiente, ne occorrono altri per creare la comunità, quell’agorà all’interno della quale strutturare un meccanismo virtuoso di anelli che si intrecciano e, di conseguenza, traggono forza da quell’unione. A trentaquattro anni dal rapimento e dalla strage di via Fani, è utile riflettere su quegli spunti, anche alla luce di due volumi, Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana di Paolo Acanfora e L’eredità politica di Aldo Moro di Pietro Panzarino. Per sottolineare la straordinaria attualità delle sue intuizioni, dove l’uomo è vero fulcro della rinascita morale della politica e del suo paese. Nettare di cui chi si occupa a tempo pieno della cosa pubblica non può non nutrirsi. Un'intelligenza politica raffinata, il cui pregio è stato quello di interpretare a fondo gli accadimenti, dandone una lettura lucida e lungimirante, anche troppo, per “quei” tempi. La legge di solidarietà a cui si rifà in quel discorso sia il totem a cui la politica deve ispirarsi per rinnovarsi. Nella consapevolezza che quando si usano termini come “società civile” o “vicinanza alla gente” si intende, in soldoni, proprio questo. Ovvero la politica che si fa umana, che si spoglia della supponenza materiale che la distanzia sideralmente dalla percezione reale delle cose e della vita quotidiana che investe i cittadini-elettori. Che lascia nel dimenticatoio quel vocabolario ancestrale e polveroso che nessuno, al di fuori degli addetti ai lavori, alla fine riesce a tradurre in frasi di senso compiuto.
Cosa resta allora di quel rigurgito di violenza di ieri, con il blitz contro Moro e la sua scorta, e con il tragico epilogo di un’epoca? Le lezioni del professore universitario, i suoi scritti proclamati in occasione di riunioni politiche, gli interventi nelle commissioni parlamentari, quel fare mansueto ma non per questo privo di intensità. E in un momento in cui si ragiona, da un lato a colpi di spread e dall’altro di polemiche di bassissima leva, ricordare qualche spunto di Moro non può che suonare come una sveglia alle coscienze e alle menti del paese che, a volte, rischiano di assopirsi.

Fonte: il futurista quotidiano del 17/03/12

giovedì 15 marzo 2012

Menti aperte e idee libere per dire "mai più" a B.

Quanto è ancora barbara la società italiana del post-berlusconismo? Quanto quell’impeto sociale, così profondamente anticulturale, comportamentale, è ancora preponderante nell’intimità di un paese e dei suoi cittadini? Una figura, quella del barbaro, che è in qualche modo parte integrante di tutte le società. Da sempre le epoche diverse e frastagliate sono state attraversate da orde di barbari, in devastazione continua. Che sono arrivati, hanno fatto razzìe di ogni genere, hanno condizionato il sito in questione, nei costumi, nei mores. E sono ripartiti per proseguire quel lavoro distruttivo altrove. Ma lasciando nel luogo triturato da tanta follia la consapevolezza di quello che è stato. Cosa è accaduto? Nulla, è la storia. Pura e dura. Cruenta, con ramificazioni a raffica che si insinuano carsicamente nei meandri sociali di un paese. Con le conseguenze che solo il tempo potrà ammorbidire. L’onda del berlusconismo si è assiepata, inizialmente silenziosa, agli angoli delle strade, nei mercati rionali, nelle conversazioni condominiali. Inducendo tutti e tutto a credere in un cambiamento tanto effimero quanto supportato da media invasivi e da messaggi subliminali. Per poi tramutarsi in barbarie, di quelle che come Attila passano, stravolgono e non fanno cescere più l’erba. E adesso? Un interessante occasione di riflessione potrebbe essere nell’ultimo pamphlet di Alberto Abruzzese, Il crepuscolo dei barbari, che punta a scartavetrare lo scontato che c’è sull’idea di barbarie. La figura del barbaro, scrive il sociologo, è il fantasma del nostro tempo. Tra l’altro Abruzzese è stato tra i primi a spiegare il successo politico di Silvio Berlusconi come risultato di una mutazione (irreversibile?) antropologica della vita quotidiana. Quel cambiamento è coinciso con un terremoto negli atteggiamenti collettivi, in quella sorta di pianificazione da “Drive in” che ha invaso gli strati sociali. Prima del Cav pochi erano gli esponenti politici intenti a ostentare, come se dovessero piazzare il prodotto giusto, lavatrice o aspirapolvere che fosse. L’ostentazione e la rissa hanno preso il sopravvento. Fino a ieri democristiani e comunisti discutevano animatamente, mentre da un quindicennio a questa parte lo scambio di vedute politiche si è tramutato in rissa. Senza parlare poi delle relative trasposizioni nei salotti televisivi, diventati saloni da bar trash, più che contenitori dove fare analisi o ragionare nel merito di fatti ed azioni. La domanda è: quella deriva barbara si è tanto radicalizzata da essere diventata essa stessa dna caratteristico e preponderante della società italiana? Ovvero: nonostante l’uscita di scena ufficiale di Silvio Berlusconi dalla politica attiva, esiste il rischio che in molte parti d’Italia rimanga quella patina appiccicosa che prende il nome di berlusconismo? «È difficile dire come - scrive Abruzzese - ma certo è necessario guardare in modo diverso dal passato il montare della barbarie dentro e fuori di noi, la tempesta di cui il barbaro sembra essere la ragione motrice». Quella tempesta oggi in apparenza sembra lontana, ma al di là di meno barzellette e meno gaffes, resta l’amaro in bocca per una pratica che stenta a essere completamente scacciata: l’umiliazione di un mancato dibattito, il sentenziare apriorisicamente contro tutto e tutti, la sensazione di avere in tasca la verità a tutti i costi, la voglia di “ricattare” la politica con la P maiuscola per questioni private, la pratica del sopracciglio preventivo da esibire contro l’avversario, il riempirsi le tasche di promesse da buontemponi e di cesarismi onnipotenti. Come spurgare allora i residui di berlusonismo che si scorgono sui baveri dei passanti, o nelle riunioni di condominio? Iniziando dalle proprie menti e sforzandosi di tenerle accese, sempre e comunque.
Twitter@FDepalo

Fonte: Il futurista quotidiano del 16/03/12

Coraggio, serve più Europa

Coraggio. E un pizzico di qualità in più nella scelta della classe dirigente. Non serve altro alla governance europea per sedere in prima fila al tavolo dei dossier che contano. Non fosse altro per la statura del vecchio continente che, nonostante acciacchi e contingenza economica grave, non deve smarrire la strada maestra che la porti a essere interlocutore e non spettatore del panorama mondiale.

"Tendiamo a credere di non poter fare molto per cambiare il modo in cui vanno o sono fatte andare le cose", ha scritto Bauman in Modernità liquida e non sbaglia. Proprio raffrontando quell'osservazione alle dinamiche offerte dall'attualità (si veda la gaffe della Ashton sul caso marò) ci si accorge come il dovere di stimolare al meglio non debba venir meno, anche per chiarire un punto non secondario all'interno del dibattito sull'Ue: chiedere più Europa, avanzare rilievi al modus operandi, sforzarsi di rimodulare l'infrastruttura politica, sociale e culturale continentale non significa tifare per l'antieuropeismo. Anzi. Quello spirito critico, che magari si rifà agli spunti originari di giganti continentali come Spinelli, Rossi, d'Estaing sia punto di partenza per nuove proposte e per evitare gli errori commessi sino a oggi.

Anche per chi forse dovrebbe mettere in discussione condotte e azioni che non hanno prodotti i risultati auspicati. Cosa impedisce al continente di sedere in pianta stabile al tavolo "triangolare" di un G3 con Cina e Usa? Come ridisegnare in maniera univoca le strategie geopolitiche nel continente africano, dove i cinesi hanno anticipato tutti chiudendo importanti accordi per lo sfruttmento di materie prime? In che misura contemplare una normativa efficace e attenta ai diritti umani sui fenomeni migratori? E, rivolto ai singoli stati (come le quote latte insegnano) come impedire contrasti evidenti con le disposizioni dell'Unione? Sono alcuni dei nodi che la classe dirigente europea dovrà impegnarsi ad affrontare e risolvere, possibilmente in maniera efficace e in tempi brevi.

In un momento in cui un quotidiano come Le Monde sponsorizza il "professor" Monti alla guida dell'eurogruppo (Juncker ha già annunciato l'addio al termine del suo mandato, che scade a luglio), non si può non interrogarsi sul bisogno di giganti, proprio nella cabina di comando della macchina europea. Ma non per un senso di rivalsa nei confronti delle altre superpotenze, bensì per amministrare con sagacia e lungimiranza paesi che hanno ancora molto da dire, nonostante i declassamenti delle agenzie di rating e le pressioni mediorientrali.

A volte sembra che l'Unione non sia tale e i suoi interpreti suonino ognuno uno spartito con regole disomogenee. Ferma restando la necessaria compartecipazione di visioni e di esperienza differenti, perché in quanto tali utili ad arrichire la proposta politica dell'Ue, sarebbe opportuno soprattutto su dossier caldi come la politica estera mostrare un piglio deciso e unitario. E un sistema di regolamentazioni che non mortifichi i più deboli, come è ancora oggi la percezione dell'euro, non proprio la stessa ad Amburgo e a Canicattì. Non può esistere una libertà illimitata, ammoniva Giovanni Paolo II. Nel senso che, nel rispetto delle peculiarità dei singoli, non può mancare una sorta di rete protettiva, che assicuri uguaglianza di fronte alle leggi e alle opportunità di crescita. Solo in questo modo sarà possibile realizzare il sogno dei padri fondatori chiamato Stati Uniti d'Europa. Contrariamente sarà solo ordinaria (e noiosa) amministrazione.

Twitter@FDepalo

Fonte: Formiche del 14/03/12

lunedì 12 marzo 2012

La Lezione di Lucio? La chance ai giovani

Le future generazioni. La locuzione è entrata prepotentemente nell’immaginario collettivo, a volte come indice programmatico, altre, meno nobilmente, come specchietto per le allodole da giocarsi in comizi o promesse. Ma il tema è serio e sempre attuale. Nell’antichità Socrate intendeva l’approccio ai più giovani come la volontà di verificare se un ideale educativo nascondesse invece la bieca intenzione di addormentare le coscienze critiche. E offriva a quei giovani l’occasione di non farsi incantare grazie al bagaglio della conoscenza: da corroborare con studi e intuizioni, ragionamenti e controtesi, dubbi e domande. La grandezza dei personaggi non è tale solo nella proposta professionale che il curriculum di ognuno custodisce, ma una percentuale deriva anche da ciò che umanamente sanno trasmettere. E soprattutto in quale momento esplicarlo. Quante storie artistiche in passato hanno avuto inizio con la scoperta di un’attrice per strada come negli anni della dolce vita romana, o in occasione di un’audizione improvvisata in un garage con complessi di giovani e in cerca d’autore? Tante e molte sono anche finite bene. Grazie, magari, a quell’input, al “sì” strappato proprio sul filo da uno che conta, che ha scelto di dare la famosa e tanto auspicata opportunità.

Lucio Dalla non sarà ricordato solo in riferimento alla musica e alla particolarità delle sue composizioni, alla cultura che ha accarezzato, agli strumenti che ha inforcato con padronanza, come un giocoliere fa con i propri birilli. Ma più di qualcuno ne apprezzerà le fattezze per l’esempio e il sostegno che ha dato in concreto a chi chiedeva udienza o un attimo del suo tempo. Senza farsi prendere da retorica o da falsi miti, è utile ricordare che Dalla ha fatto quello che tutti i sessantenni ricchi, famosi e arrivati dovrebbero fare: dare una chance, se possibile più di una, ai giovani talenti. Dispensare consigli, dare un tetto a chi come lui in avvio di carriera non l’ha avuto. Offrire loro una possibilità reale che, un secondo dopo, i virgulti dovranno sapersi giocare grazie alle potenzialità da mettere a frutto con sudore e determinazione. Senza regali o “autostrade” spalancate a priori, come il caso dei corsi di politica per vallette e starlette in via dell’Umiltà. Bensì quel “la” iniziale, anche come immagine formativa, umana ma seria.
Questo Lucio Dalla faceva, quando frequentava la solita osteria bolognese, e qualche giovane musicista gli si presentava per proporsi. Così, semplicemente. Anche per impedire la fuga dei cervelli, o per evitare che poi qualcuno sia tentato nel cercare la ribalta altrove e con altri mezzi. Perché tutti siamo stati e siamo ancora giovani. E a quelli che verranno non andrà tolta “quella” chance.

Fonte: il futurista settimanale n.39

venerdì 9 marzo 2012

Lo "schifo" e l'occasione di rinascita

"Lentamente muore chi non capovolge il tavolo", scrive Pablo Neruda. Perché avvinghiato a consuetudini e status quo, sordo a innovazioni e sperimentazioni, affezionato a una coperta di Linus putrida e che non pone quesiti scomodi. Come osservato dal costituzionalista Michele Ainis in un fondo sul Corriere della Sera, "per ricucire il nostro tessuto connettivo serve un'opera di pacificazione nazionale, ma è un'impresa impossibile se non vengono al più presto riattivati i canali di comunicazione tra società politica e società civile". Per questo la doppia crisi attualmente in atto, esistenziale dei contenitori politici e quella delle infrastrutture economiche del paese e del continente, possono rappresentare l'occasione di rinascita: perseguado il reincanto la politica, facendola grande e allontanandola da una visione di emergenza, nella consapevolezza che i conflitti sono di fatto un´occasione di arricchimento se realizzati in maniera costruttiva e non per sollevare polveroni al fine di "distrarre" da altre esigenze.

Serve una sfida dunque, come quella di cui parla ad esempio il ministro Francesco Profumo quando a proposito di Smart City, usa non a caso la locuzione "sfida culturale da cui nascerà una società nuova". É la stretta interconnessione tra società, cultura e politica (e solo quella) che potrà consegnare al paese il pass per la terza Repubblica, di cui da troppi anni ormai si invoca l'inizio, pur non avendone chiari i contorni. Serve uno scatto di reni da parte di tutte le componenti: una classe dirigente all'altezza, non aureferenziale, capace di rinnovarsi senza populismi di sorta; una spinta più coraggiosa da parte delle élite, ma non intese come autocelebrazione di idee o proposte, bensì come servizio da rendere alla collettività; e una maggiore maturazione della società civile, senza incorrere nell'errore di delegare a priori la gestione della cosa pubblica per poi un attimo dopo dolersene, ma partecipazione attiva e qualitativa. Nella consapevolezza che, per proseguire il ragionamento di Ainis, un processo democratico inceppato "diventa un gioco a somma zero: ci rimettono tutti i giocatori".

Contrariamente si correrebbe il rischio di rimanere imprigionati in quello "schifo". Dove quel termine esprime il dato antropologico di chi non si mette mai in discussione, di chi ha una paura folle di navigare in mare aperto. Di chi teme di perdere rendite di potere decennali, di chi mai si specchia perché poi vedrebbe la realtà dei fatti e dei comportamenti. Schifo è quando si è sordi ai richiami del paese, insensibili alle mille e più riforme che andranno fatte e rifatte. Schifo è l'immobilismo conservatore di chi non cambia pelle, non si evolve. E resta piccolo piccolo in un paese che invece avrebbe bisogno di giganti.

Twitter@FDePalo

Fonte: Formiche.it di oggi

martedì 6 marzo 2012

Europa senz'anima

Sussidiarietà continentale: cosa resta della lezione di Altiero Spinelli e Giscard d´Estaing? Non è solo la burocrazia pachidermica a schiacciare il continente, quanto l´immagine che si staglia, brutta e a volte grossolana, all´orizzonte. Quella di un gigante di argilla che ha perso la bussola, come il caso Grecia dimostra ampiamente. Che ascolta solo i richiami franco germanici, ignorando il grido di dolore del "Mezzogiorno continentale".

Un interessante volume di Giorgio Napolitano, "Altiero Spineli e l´Europa", (Il Mulino 2007), ripercorre idee e battaglie dell´europeista italiano su cui ci sarebbe molto da riflettere, certamente molto più di quanto oggi non facciano coloro che di Europa si occupano, sia come osservatori che come addetti ai lavori. La lezione di Spinelli verteva innanzitutto sul senso comunitario custodito nel proprio io, prima ancora che su un timbro burocratico o su una banconota uguale per tutti gli stati membri. E offriva un metodo specifico: non affidarsi a uno schema univoco e solo a quello, ma confrontarsi creativamente con la realtà seguendo la spinta evolutiva. Spronare a risollevarsi dopo ogni debacle, contando su quella sussidiarietà che in occasione della crisi greca non si è vista. Come ebbe a scrivere il Capo dello Stato in quel pamphlet "si può imparare da Altiero Spinelli a essere uomini e donne di alti pensieri e di forte, indomabile volontà di azioni".

Il contributo di Giscard d´Estaing fu programmaticamente intenso: da un suo impulso nel 1976 il Parlamento europeo venne eletto a suffragio universale. Spinse non poco per istituire il Consiglio d´Europa, nell´ottica di un´unificazione monetaria. E con Helmut Schmidt si fece promotore in prima persona dell´Ecu. Ma l´intenzione ad agire da Unione in questi anni è purtroppo mancata. Come se all´indomani di quei primi sforzi in chiave continentale ci si fosse (pericolosamente) addormentati. E nonostante le trentasei agenzie comunitarie, oltre a fiotti di dipendenti e funzionari: era questa l´Europa sognata da Spinelli e d´Estaing?Evidentemente no. Sono mancate le visioni proiettate al futuro, la capacità di intrecciare partnership strategiche, anche una classe dirigente all´altezza, come dimostra il fatto che la Cina è riuscita prima dell´Europa a proiettarsi in Africa. O come dimostra il timido approccio all´area a sud del Mediterraneo.

Oggi accade che paradossalmente a Bruxelles si profondano più energie per definire il diametro delle reti da pesca, piuttosto che su lungimiranti strategie politiche, che consentano all´Unione di parlare finalmente una lingua comune e con una voce sola, immaginando una sorta di G3 con Cina e Usa. È come se l´Europa di oggi non avesse un´anima, come se il vecchio continente, che ha dato i natali al nuovo, fosse popolato da sterminate componenti, ognuna indaffarata ad irrobustire la propria posizione. E mortificando invece la visione complessiva che il grande sforzo europeista del dopoguerra mise in un´incubatrice. Un rischio che non si può più continuare a correre.

Fonte: Formiche.it di oggi

lunedì 5 marzo 2012

Questo grosso, grasso pasticciaccio (non solo) greco

BOMBA. Titolava così qualche giorno fa un quotidiano greco, uno di quelli che ha avuto il coraggio di chiamare per nome il piano della troika. Perché il maxiprestito concesso alla Grecia non segna la fine del tunnel, anzi ne aprirà certamente un altro. Più lungo e torbido per via dei riverberi sociali che già stanno toccando la gente comune, non i Rockfeller dell’Acropoli o i super ricchi che da tempo hanno messo al sicuro i propri capitali. Ma i dieci milioni di greci, tra lavoratori, studenti, disoccupati, che un bel giorno si sono svegliati dal letargo e hanno visto il risultato di politiche scellerate e di dinamiche più grandi di loro. Il futurista per l’occasione ospita contributi di esperti greci che vivono da anni in Italia, per scartavetrare quella patina di qualunquismo che si è abbattuta sulla crisi, con fiumi di inchiostro già stampato con troppe certezze. E che invece sarebbe opportuno frastagliare di qualche domanda e interrogativi niente affatto innocenti. Per capire qualcosa in più di questo grosso, grasso pasticcio non solo greco…

Fonte: Il futurista settimanale del 08/03/2012