"Potete ingannare tutti per un po', potete ingannare qualcuno per sempre, ma non potrete ingannare tutti per sempre". (A. Lincoln)
domenica 15 novembre 2009
E se lo Stato non può, ci pensa il cittadino
Da Ffwebmagazine del 15/11/09
Dove non può lo Stato, arriva il cittadino, o i carabinieri in borghese. Singolare la sorte del capitano Ultimo, autore il 15 gennaio del 1993 dell’arresto di Totò Riina dopo un trentennio di latitanza indisturbata. Rimasto senza scorta, in pochi giorni ha visto centoventi volontari attivarsi con auto proprie e fuori dall’orario di servizio, per offrire protezione all’uomo che fu condannato a morte dai vertici della mafia all’indomani di quell’arresto storico. Singolare l’intera vicenda, perché si pone a conclusione di una serie di eventi irrituali. Nel 1992 Ultimo, all’anagrafe Sergio De Caprio, dette vita al Crimor, organismo combattente dei Ros che, quattro anni dopo aver messo le manette a Riina, venne soppresso. Fine di quegli uomini che per anni avevano fatto squadra, persone senza volto e senza nome, con nottate intere trascorse impegnati in appostamenti o a studiare movimenti e comportamenti, seguendo tracce e piste di indagini. Tutto finito. Uomini sostituiti, destinati ad altri incarichi.
Da quel momento iniziarono le anomalie: il trasferimento al nucleo operativo ecologico di Roma, l’indagine a suo carico per non aver effettuato la perquisizione del covo di Riina –assolto in seguito perché il fatto non costituisce reato – e tanti, troppi silenzi. Ultimo teme per la propria incolumità, e anche per quella dei familiari a lui vicini. Nonostante avesse inoltrato precisa richiesta ai suoi superiori di due auto veloci e di quattro agenti appartenenti al suo nucleo storico, ovvero le identiche modalità con le quali aveva lavorato – e con successo – sin da prima di quel giorno di inizio 1993. Ma niente, nessuna risposta positiva, anzi.
Qualcuno ha scelto di non considerare Ultimo un soggetto a rischio, anche se come raccontato da alcuni pentiti di mafia, fra cui Totò Cancemi, furono proprio i capi della cupola in prima persona – Provenzano, Bagarella, Ganci – sedici anni fa a firmare ufficialmente la sua condanna a morte senza appello. E non una semplice esecuzione. I particolari forniti dal collaboratore di giustizia illustrano anche le modalità con le quali sarebbe stata tolta la vita al capitano Ultimo: prima sequestrato e condotto in un luogo usato dalla mafia come prigione, poi torturato e infine ucciso, dandone notizia all’intero paese.
E la gravità del rito è da ritrovarsi in quel gesto che Ultimo compì, ovvero mettere faccia a terra Riina durante l’arresto. Un dettaglio che avrebbe aggravato la sua posizione agli occhi della mafia. Ma nonostante la testimonianza di alcuni pentiti e le oggettive ripercussioni sull’uomo che è entrato di diritto nella storia della guerra fra Stato e mafia, nessuno ha ritenuto opportuno garantire la sicurezza di quel carabiniere.
Cosa succede quando chi deve provvedere all’incolumità degli uomini dello Stato, non lo fa? Ecco che la molla civile, il senso dello Stato, finalmente gridano la propria presenza. Perché dove c’è bisogno di solidarietà, la fiammella della speranza non si spegne. È in quel momento che qualcosa si muove, il singolo fa la sua parte e ciascuno recita il proprio copione.
«Questi gesti uniscono, soprattutto in un momento particolare per l’Arma». Così il Cocer, sindacato dei carabinieri, ha preso posizione. Netta e chiara. Ultimo va protetto e se non lo si può fare in via ufficiale, con modi e tempi stabiliti da qualche superiore, nessun problema. Ci penseranno centoventi militari del nucleo scorte di Palermo. Ci penseranno quei militari, una volta chiuse le uniformi negli armadietti e depositata in garage l’auto di servizio. Ci penseranno i militari che ogni giorno ed in prima persona rischiano la vita. Propria e di mogli e figli. A volte con le volanti senza carburante, sacrificando feste e domeniche in famiglia. Confrontandosi con la dura realtà criminale della strada. Ci penseranno i militari che quel giorno del gennaio 1993 trionfavano suonando il clacson dell’auto che conduceva il capo dei capi in caserma. Sarà loro compito proteggere quello che era stato il “loro” capo e quello che quei clacson contribuì a farli suonare per le strade di Palermo. Con centinaia di persone che ai bordi della strada applaudivano.
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