lunedì 2 novembre 2009

Se la televisione non smette di urlare

Da Ffwebmagazine del 02/11/09

È più facile perdere le staffe e replicare a muso duro a provocazioni e insinuazioni, o incassare con stile e ribattere con sobrietà, forti delle proprie ragioni? Ovviamente è preferibile la prima ipotesi, perché è notevolmente più complesso reprimere nervi e slanci polemici. Ma è veramente quella la soluzione migliore che confeziona un buon servizio? I salotti televisivi pullulano ormai di urlatori di professione, di specializzandi nell’interruzione coatta e nel ciondolare la testa in segno di disapprovazione. Tecnica scientifica per annullare l’interlocutore di turno, ma anche pericolosa deriva che svilisce il contenitore televisivo.

Perché non provare a ragionare su dove si spinge un approfondimento che non è più tale, ma si è trasformato solo in un’arena, dove tra leoni e gladiatori, il malcapitato telespettatore non ha la più pallida idea di cosa accada? Dando un’occhiata al prodotto finale, ecco che appare magicamente una fotografia della situazione, con tanto di indice di gradimento da parte dei cittadini, e non solo degli addetti ai lavori.
Succede, ad esempio, che in alcuni talk show domenicali, temi impegnativi e dalla valenza decisamente alta, vengano sviliti da schiamazzi e invettive senza che il moderatore di turno si sogni minimamente di estrarre un cartellino giallo o rosso, per ammonire o per espellere. Si dirà: mica vorrete limitare la libera espressione? Niente affatto, dal momento che come sosteneva Benedetto Croce, «la libertà al singolare esiste soltanto nelle libertà al plurale».

Quindi, ben vengano idee e ragionamenti diversi, ma non per questo inneschino il caos a cui spesso si assiste, con quell’assurdo botta e risposta accigliato, con quegli indici puntati - che fa tanto inquisizione e roghi del passato -, con quegli sguardi più affilati di mille sciabole. Basterebbe, e sarebbe opportuno, regolare forme ed esposizioni, non per un buonismo bacchettone ma per elevare il tasso qualitativo e soprattutto per educare. Sì, educare. Quella parola in disuso, che in pochi ormai rammentano tra coloro che hanno la responsabilità di informare e al tempo stesso di offrire un servizio anche culturale. Non si dimentichi che la televisione, per quanto in questi anni deficitaria e gravemente ammalata, è comunque un vettore di educazione, perché veicola fatti, commenti, analisi, opinioni, tesi e contro tesi, deduzioni e controdeduzioni. E non dovrebbe concentrarsi con tutta questa veemenza sulla mera propaganda. Uno scenario che sarebbe utile fosse metabolizzato a tutti i livelli, dai conduttori agli ospiti che intervengono per accrescere il dibattito, ma che purtroppo finiscono a volte per svolgere un’operazione praticamente opposta.

Rappresenta, certo, una bella prova di resistenza non lasciarsi andare a reazioni isteriche e minacciose, come ad esempio fatto da Giovanni Floris nella scorsa puntata di Ballarò quando, in diretta telefonica con il presidente del Consiglio, il conduttore ha imboccato la strada della placida ironia per smorzare i toni della questione. O come amava fare Enzo Biagi nel suo Il Fatto serale su Raiuno, quando preferiva smussare gli angoli piuttosto che incrementarne le spigolature, o come ha scelto di fare Milena Gabanelli su Report, quando offre la parola a dati, immagini e carte giudiziarie, anziché scendere nel ring delle accuse a priori. Tre richiami che scandiscono un modo di informare e di produrre opinioni che non cozza con il buon gusto, con la deontologia, con un certo stile limpido e corretto, sì corretto. Per quale ragione inseguire allora a tutti i costi quello che si potrebbe definire come il festival del limbo mediatico? Una sorta di zona non grigia, ma al tempo stesso drammaticamente rossa, dove il colore è direttamente proporzionale a un’immagine di aspro conflitto, dove il rosso sta per fuoco appiccato, per acque contaminate, per sfoghi cutanei.

Lo si dichiari, dunque. Se si sceglie questa strada per un mero fine pubblicitario, per finire il giorno dopo su tutti i giornali, che lo si professi apertamente. Ma senza, a questo punto, nascondersi dietro il penoso velo del ruolo informativo, educativo e spirituale, o del servizio pubblico o dell'intento di “un esperimento televisivo”. Recuperino una dimensione educativa, dunque, non solo la televisione ma, più in profondità, quei contenitori di analisi e valutazioni, che contribuiscono non poco alla formazione dell’opinione pubblica. Un’opinione pubblica che, invece, oggi viene pericolosamente contaminata da suoni sinistri di scontri, da spade che si incrociano, da sopracciglia alzate preventivamente. E che invece andrebbe non ammaestrata, ma semplicemente educata al confronto civile, a quella cosa che si chiama informazione corretta e, ovviamente, al diritto di replica.

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