lunedì 9 novembre 2009

Don Ciotti: «La lotta alle mafie riguarda tutti i buoni cittadini»



Da Ffwebmagazine del 09/11/09

«Incontrare le paure e le fatiche degli altri, così è possibile abbattere pregiudizi, confrontarsi con il diverso e lavorare per mediare i conflitti». La riflessione di don Luigi Ciotti - da anni in prima fila nella lotta alla criminalità con la sua associazione Libera - non vuol essere solo un consiglio o una rimostranza su atteggiamenti sbagliati, ma uno sprone per le coscienze ad aprirsi e a far conoscere le positività che ci sono e che spesso non fanno rumore.

D. «Sono felice di spendere la mia vita per saldare la terra con il cielo» ha detto recentemente: come procede quest'opera di ricongiungimento?
R. Sono un sacerdote chiamato alla testimonianza cristiana e alla responsabilità civile. Credo che la parola di Dio sia utile a tutti anche per rimettersi in gioco costruendo percorsi di legalità, giustizia e libertà. Mi viene in mente il documento della Chiesa italiana Educare alla legalità del 1991, dove si afferma che non è possibile inseguire soltanto i grandi principi o i massimi sistemi, ma serve entrare nella storia portando il proprio contributo.

D. La mafia è cambiata, spara di meno e fa più affari: si è modificata anche la metodologia dello Stato?
R. Nel documentario Malitalia, storie di mafiosi, eroi e cacciatori di Enrico Fierro e Laura Aprati, con testimonianze dirette di magistrati, investigatori e forze dell'ordine di grande valore, si scorgono coraggio, impegno, grande intelligenza. Ma anche una lettura nuova: personaggi forse meno noti che però agiscono con notevole profondità nei singoli contesti. A dimostrazione che, da un lato, si sta facendo tanto, non c'è giorno infatti che non si abbia notizia di risultati pratici con dati interessanti. Dall'altro, vi è una trasformazione rapidissima delle organizzazioni criminali, che utilizzano strumenti differenti per penetrare nella società. Parlo di una generazione nuova che si è strutturata, come emerge da segnali chiari.

D. E le antenne della società civile?
R. Preferirei denominarle della società responsabile, perché il termine società civile oggi è un po' come l'acqua bagnata. Il singolo individuo deve fare la sua parte, ma di concerto e non da solo. Anche il nostro osservatorio Libera, con scuole, università, migliaia di altre realtà territoriali, percepisce che vi è un cambiamento in atto. È vero che non c'è al momento una guerra di mafia, ma è altrettanto vero che ogni giorno c'è comunque qualche morto e abbiamo tanti morti vivi. Mi riferisco a persone che vivono ma sono vittime di tale violenza, come usura, racket, lavoro nero, tratta di esseri umani, ecomafie. E allora è necessario che tale morso sia interfacci con l'accelerazione della risposta, prevedendo ruoli determinanti per la società civile e responsabile, per il mondo della scuola, per le istituzioni e i media.

D. Come crede si sia evoluto nell'ultimo decennio l'approccio al fenomeno mafia da parte dei più giovani, diciamo dalla strage di Capaci in poi?
R. È stata fondamentale la componente educativa della scuola e dell'università. Aveva ragione Nino Caponnetto che considerava Falcone e Borsellino come suoi figli. Era il capo di quella procura e aveva costruito quella squadra e quel pool. Per questo in seguito non esitò a dire che la mafia temeva in realtà più la scuola che la giustizia. L'istruzione infatti indebolirebbe dalle fondamenta la cultura mafiosa. Libera ha portato avanti protocolli di intesa con il 70% degli atenei italiani. Significa che vi è una maggiore presa di coscienza e sete di conoscenza sul fenomeno. Ma i progetti non sono sufficienti, rispetto all'immensità di ciò che andrebbe fatto. In base a quella corresponsabilità che poi alla fine ci chiama in causa, è necessario fare di più, non solo con coerenza ma anche con umiltà. Quella che in Italia troppo spesso è venuta meno è la continuità. Se all'indomani di vicende drammatiche ci sono state risposte di grande valore, in seguito nel tempo tutto si è perso.

D. Da un lato il carcere duro per i mafiosi, dall'altro maggiore dignità per impedire altri casi Cucchi: su quali basi strutturare un nuovo sistema carcerario?
R. Cresce lo Stato penale e diminuisce quello sociale nel nostro paese, in nome della sicurezza e dell'orientamento alla paura da parte di molte persone. Sia chiaro, il diritto alla sicurezza è legittimo, ma si rischiano delle semplificazioni e una demagogia un po' razzista. Il diverso viene visto, infatti, quasi con un rifiuto e cresce anche una certa paura fasulla. Mi rendo conto del pregiudizio: per questo dobbiamo essere capaci di incontrare tali paure, confrontandoci con chi non la pensa come noi, di incrociare la fatica degli altri, lavorando per la mediazione dei conflitti. Ci vorrebbe una mobilitazione che andasse incontro a chiunque, perché ciascuno di noi non può ritenere di aver ragione risolvendo le questioni dall'alto delle proprie sicurezze. Sarebbe utile tenere conto proprio delle insicurezze di tutti, delle fragilità, di ciò che l'altro ha vissuto, ha letto, ha visto, ha percepito. È il nodo della prossimità, che considero la prima dimensione della giustizia. Aveva ragione don Bosco quando ai suoi ragazzi diceva, a metà dell'800, che non bastava essere buoni cristiani, ma serviva essere anche buoni cittadini.

D. In occasione degli stati generali dell'antimafia, ha detto: «Dobbiamo capire se abbiamo rispettato gli impegni presi». Quali sono le novità sull'autorità unica contro il riciclaggio e il testo unico della legislazione antimafia?
R. Due cose che ancora non ci sono, purtroppo, e che chiediamo vengano approntate. Noi siamo una piccola realtà, ma l'articolo 4 della Costituzione, che ci ricorda l'importanza del contributo dei singoli cittadini nella dimensione materiale e spirituale, credo vada preso come un invito a non delegare. Due sono gli atteggiamenti di fondo rilevanti. Prima sconfiggere il peccato del sapere, ovvero la grave mancanza di profondità. Abbiamo necessità di un sapere che scenda nelle viscere, dal momento che oggi tutto è un sentito dire, spesso semplificato, facilmente etichettabile. Serve, invece, conoscenza, approfondimento per mettere la gente in grado di poter contare su strumenti critici per orientarsi e superare le fatiche. E per cercare la verità. In secondo luogo, dovremmo prendere cognizione che tale cambiamento ha bisogno dello sforzo di ciascuno di noi. Non dimentichiamo che viviamo in prima persona questa spina nella carne della presenza criminale. Un sorta di legalità sostenibile perseguita da chi confonde lecito e illecito.

D. Negli ultimi mesi non sono mancate operazioni sul territorio, come arresti e sequestri. Ma accanto alla repressione, cosa in concreto lo Stato dovrebbe fare quanto a prevenzione ed educazione alla legalità?
R. Non usciremo mai da questa impasse se non investiremo nella grande progettualità educativa, nella dimensione della grande sfida culturale. E poi il lavoro e le politiche sociali, un'attenzione vera alle vittime e ai testimoni. Occorre una visione di lungo respiro e di continuità. Ricordiamoci anche delle tante piccole cose positive che vengono fatte, ma che non fanno chiasso e che invece meriterebbero attenzione. Facciamo conoscere questa positività.

D. Non aiuta, però, il fatto che un Comune del nostro paese abbia deciso di togliere una targa intitolata alla memoria di Peppino Impastato, non crede?
R. Mi è dispiaciuto molto, ma la risposta migliore è venuta dalla congregazione del sacerdote con cui il sindaco avrebbe voluto sostituire la targa di Peppino. Loro hanno detto di no, preferendo il nome che c'era prima. Un atto di grande delicatezza.

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