da FFwebmagazine del 29/04/09
Arriva da Varsavia la conferma del premier sul voto al referendum del 21 giugno, che vorrebbe modificare in chiave riformista la seconda parte della Costituzione: Silvio Berlusconi barrerà la casella del “sì”. Il coro di supporto alla consultazione aveva già raccolto il consenso di molti esponenti del Pdl. Da sempre in prima linea sul fronte referendario anche la Fondazione Farefuturo, con il suo presidente Gianfranco Fini (firmatario della prima ora) e il segretario generale Adolfo Urso.
Come ha dichiarato Giovanni Guzzetta, che del referendum è il promotore assieme a Mario Segni, «il referendum avvantaggia chi ha più capacità di aggregare consenso: oggi l’uno, domani l’altro. È la regola della democrazia dell’alternanza: sono gli elettori a decidere. Chi corre corre per vincere, e chi vince crea un governo stabile. Chi sbaglia o non convince la volta successiva va a casa. E oggi anche l’Italia questo tipo di democrazia se la può permettere».
La scelta del presidente del Consiglio si è articolata sulla considerazione che il quesito concede il premio di maggioranza al partito più forte. Tre i quesiti che gli elettori si troveranno di fronte nella cabina elettorale. Il primo e il secondo quesito sanciscono il no alle coalizioni. Nello specifico si vorrebbe abrogare per Camera e Senato la disciplina che consente il collegamento fra liste. In caso di vittoria del sì, il premio di maggioranza si attribuirebbe solo alla singola lista che ha ottenuto il maggior numero di seggi, e non alla coalizione di liste. Il terzo quesito prevede l’impossibilità delle candidature multiple, ovvero si prevede di eliminare la possibile candidatura in più circoscrizioni, sia Camera che Senato. Un doppio risultato che, come ha più volte ribadito anche Adolfo Urso, serve a salvaguardare il bipolarismo nel nostro paese, contribuendo a una spinta innovativa e modernizzatrice che non potrà che avere benefici in Italia.
Nei giorni scorsi lo stesso Guzzetta era intervenuto pubblicamente per dissipare i dubbi di costituzionalità (bollati come «sciocchezze da bocciatura all’esame di Diritto costituzionale. Non lo dico solo io ma cinque diversi presidenti emeriti della Corte costituzionale») e, soprattutto in merito alla consultazione, sostenendo che «questo è un referendum abrogativo, noi non inventiamo nulla. Non siamo stati noi ad abrogare il maggioritario voluto e votato dagli italiani. Il premio di maggioranza c’è già nel porcellum. L’effetto maggiore del referendum sarebbe colpire il potere di ricatto dei piccoli partiti. E poi soprattutto rimediare allo scandalo del parlamento di nominati, abrogando le candidature multiple».
Questo referendum è un tema quanto mai determinante per la futura composizione delle istituzioni governative del paese. Perché, parafrasando un altro passaggio del discorso del presidente Fini alla nuova Fiera di Roma «non può esserci contraddizione, né in termini culturali, né in termini istituzionali, tra democrazia intesa come diritto del popolo di far sentire la propria voce attraverso i propri rappresentanti e una democrazia capace di governare, non soltanto di discutere, non soltanto di analizzare, ma capace di decidere». E dal referendum del 21 giugno quella stessa democrazia governante potrebbe trarre indubbio giovamento.
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