Da Ffwebmagazine del 25/09/09
Ricercare una pace giusta, definita “win win”, in cui entrambe le parti risultino vittoriose, nella consapevolezza che dove non arriva il braccio dei governi può invece arrivare la voce della gente e lo sforzo delle organizzazioni non governative. È la ricetta proposta nel libro Ostacoli alla pace di Jeff Halper, ebreo americano oggi a capo del Comitato israeliano contro la demolizione delle case palestinesi (Icahd), che non usa giri di parole per analizzare il conflitto mediorientale. Originario del Minnesota, vive in Israele da circa quarant’anni, dove ha insegnato all’università Ben Gurion del Negev. Il suo impegno, come lui stesso precisa, è sul campo e non dietro una scrivania: «Icahd ha lo scopo di denunciare e condannare le demolizioni delle abitazioni palestinesi. E lo fa perseguendo convergenze e sinergie, due termini che in questi anni di barricate credo siano molto importanti».
Urbanista e antropologo, si chiede se sia ancora possibile uno stato palestinese, dopo anni di continua espansione degli insediamenti, senza dimenticare la costruzione delle autostrade riservate e l’innalzamento di un imponente muro. «Una delle soluzioni al problema, oltre ovviamente il cambio radicale della politica israeliana, potrebbe essere una conoscenza diretta del problema case, senza un bagaglio ideologico precostituito alle spalle, che avrebbe la sola conseguenza di far smarrire una certa lucidità di analisi». Nel volume però non analizza esclusivamente la nota questione delle abitazioni e dei bulldozer israeliani impegnati nel rimuovere fisicamente i palestinesi dai territori, ma si sforza di ragionare in prospettiva, sì in termini di geopolitica, ma soprattutto legato alla vita quotidiana di migliaia di famiglie, avendo come «presupposto irrinunciabile la non violenza, l’unica risposta che veramente ha futuro».
Il principio che Halper caldeggia è che senza una casa non si può pensare ad un domani, quindi «chi intenzionalmente demolisce quella casa deve chiarire perché lo fa, se per attuare una pulizia etnica o meno». Ma la presenza sulla scena di leader politici più incisivi e meno votati ad un certo no preventivo, potrebbe innescare quel meccanismo di dialogo reale che fino ad oggi si è visto sporadicamente? «Purtroppo la leadership palestinese è molto debole - risponde - ma tali divisioni sono figlie delle scelte di Israele, che già nel 1948 ricercava nei villaggi i capi delle comunità. Quelli che oggi sono rimasti in vita si trovano in carcere ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti». E dall’altro lato? Dal versante dei bulldozer? E proprio tutto sbagliato? Halper riflette e risponde: «Non c’è al mondo un’altra situazione di occupazione come questa, con una situazione di fatto che dura da due generazioni, in violazione di diritti umani e civili».
Ottimismo fu però sparso in occasione del primo discorso di Barack Obama, quando in Egitto disse “fermiamo lo scontro di civiltà”, parole che secondo Halper, ospite a Roma della Fondazione Basso, fino ad oggi non hanno avuto un seguito concreto. «Siamo delusi verso la nuova amministrazione americana. Al momento non ci sono indicazioni di alcun tipo di ammorbidimento da parte di Israele - prosegue -. Obama se volesse risultare più incisivo, dovrebbe forzare Israele e convincerlo a fare un passo indietro, ma per farlo dovrebbe avere dalla sua parte l’intero Congresso. Ma paradossalmente credo che avrà maggiori difficoltà a persuadere Nancy Pelosi che Bibi Netanyau».
Nell’estate del 2008 Halper è stato l’unico israeliano presente in occasione della spedizione di Free Gaza Movement, che per la prima volta è riuscita ad infrangere il blocco navale imposto alla striscia da Israele. «Questo è un esempio concreto di cosa intendo quando parlo delle persone e del contributo che possono offrire. Quando i governi tardano nel riuscire a dimostrare di voler realmente tutelare popoli e genti, beh una risposta può venire proprio da chi si impegna in quella che definirei una diplomazia civile».
Il riferimento è anche ad una chirurgica campagna di boicottaggio che Halper ha avviato contro prodotti di una compagnia israeliana che esportava beni agricoli dai territori palestinesi in Europa e che pochi giorni fa a Savona lo ha visto protagonista con un gruppo di portuali: «Per noi è stata una piccola vittoria riuscire a bloccare quei beni, ma soprattutto significa che i movimenti possono fare molto. Mi riferisco anche ai portuali sudafricani, che non fanno attraccare navi israeliane, o alla Caterpillar, in procinto di vendere bulldozer a Israele, con i quali poi avrebbero raso al suolo gli insediamenti».
La lunga barba bianca fa da sfondo alle parole di questo individuo, fra l’altro cittadino onorario di Gaza, che alterna analisi fredde e inequivocabili, a sincere aperture semi diplomatiche. Certo, forse non sarà sufficiente un libro a chiudere decenni di sangue e morte, ma se da quelle pagine anziché proclami di guerra e vendetta venissero mani aperte e testimonianze di pace, magari l’incontro di queste ore tra Obamab, Abbas e Netanyau potrebbe segnare un punto di svolta.
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