mercoledì 30 settembre 2009

Marramao: «Ora bisogna reincantare la politica»

Da Ffwebmagazine del 30/09/09

«Mettiamo da parte le scenografie mediatiche della felicità, perché la televisione non è l’unica piazza d’Italia. Solo così saremo in grado di reincantare la politica, facendola grande e allontanandola da una visione di emergenza, nella consapevolezza che i conflitti e la polemica rappresentano un’occasione di arricchimento». È la diagnosi del professor Giacomo Marramao, filosofo e autore di numerose pubblicazioni sui filoni del marxismo italiano ed europeo. Attualmente insegna filosofia politica all’Università degli Studi Roma Tre, dirige la Fondazione Basso-Issoco ed è membro del College International de Philosophie di Parigi.

D. L’uomo postmoderno dispone di strumenti senza dubbio all’avanguardia: la tecnica nella sanità, la democrazia nelle istituzioni, la libertà nelle scelte. Crede che paradossalmente tali traguardi siano anche dei limiti?
R. Ha ragione Vittorio Possenti, che di professione fa lo scienziato, quando afferma nel suo libro L’uomo postmoderno, che le tecnologie vanno accolte come un fatto inevitabile, ma pongono nuovi dilemmi. Sostengo da sempre che con le biotecnologie per la prima volta l’umanità è entrata nella dimensione vera e propria dell’etica. Quest’ultima non c’era quando la natura era uno status immodificabile, rispetto al quale potevamo solo architettare degli artifici, senza apportare sostanziali cambiamenti. Oggi invece possiamo contare su mezzi che incidono profondamente non soltanto sul mondo esterno, ma anche sulla natura interna. Credo non sia retorico affermare che l’umanità ha appena varcato una soglia in cui bene e male dipenderanno dalla nostra libera scelta.

D. Libera scelta che però ci carica di responsabilità?
R. Senza dubbio responsabilità nuove, ma questa è anche la nuova dimensione etica. Essa si manifesta nel momento in cui abbiamo un ventaglio di possibilità tutte alla nostra portata. Lo dico da non credente in quanto non ho la grazia della fede, ma non ritengo che le religioni siano l’oppio dei popoli. Come in passato esse hanno prodotto fenomeni di aberrazione, e oggi possiamo dirlo serenamente, lo stesso hanno fatto i pensieri secolaristi estremi che intendevano espungere dall’orizzonte l’ignoto e l’imponderabile. E i regimi che nel ventesimo secolo hanno voluto fare questo, hanno creato orrori non minori dei roghi creati da patologie religiose.

D. La formazione delle tribù, per citare le riflessioni di Michael Maffesoli, hanno posto un problema reale nella postmodenità: crede che oltre le forme di aggregazione, sia utile analizzare anche la qualità di tali gruppi?
R. Credo che Maffesoli abbia colto un aspetto ignorato dai comunitaristi americani, i quali hanno puntato molto sulla proliferazione nello scenario postmoderno, che io preferisco chiamarlo della ipermodernità, un’epoca che porta al diapason. Non dimentichiamo che il postmoderno filosofico ha coinciso con la profezia della fine dei grandi racconti e non mi pare oggi che tali grandi racconti siano finiti. Cadute le ideologie ci troviamo dinanzi al grande racconto della globalizzazione, alla bioetica e al futuro dell’umanità, al conflitto tra visione umanistica e ipertecnologica, che conduce alle ideologie del postumano. Senza dimenticare il grande racconto delle religioni universali che si scontrano nello scenario globale. Sicuramente i comunitaristi hanno visto nell’ottica postmoderna nella nostra epoca globale un proliferare di comunità differenziate dal punto di vista etico-culturale. Invece Maffessoli sostiene che non sia l’etica a differenziare le tribù ma l’estetica. Basti vedere le comunità giovanili di trend, a volte trans territoriali, con simboli veicolati dalle tecnologie. Quindi la visione di Maffessoli credo sia molto utile per comprendere certe dinamiche di oggi, che non comprenderemmo se leggessimo la differenziazione del mondo globalizzato come processo unicamente indotto dalla morale normativa.

D. Nel suo volume Frammento e sistema, dialogato con Bolaffi, cura il passaggio dal sistema-mondo al conflitto-mondo: quanto è lontana invece una convivenza-mondo?
R. Transita da un’analisi disincantata degli elementi di conflitto. Dobbiamo passare attraverso il purgatorio del conflitto, come ho scritto in due altri volumi Passaggio a occidente e La passione del presente. Non dobbiamo avere timore del conflitto a patto che esso non sia mortale. Non deve essere più improntato sulla logica amico-nemico, ma deve invece produrre fattori di apertura e di innovazione. Credo che oggi sia fondamentale ripensare alla dimensione di un’umanità in grado di ricostituirsi al di là dell’orizzonte rappresentato dagli stati nazionali. Ovviamente questo non vuol dire che, nei grandi aggregati post nazionali , non giochino un ruolo le culture e le storie nazionali. Anzi, direi che noi italiani intanto potremo essere veramente europei, solo se valorizzeremo la nostra storia, la nostra lingua, un po’come fanno i francesi e i tedeschi. La nostra meravigliosa lingua, non a caso in un paese come gli Stati Uniti attrae sempre più cittadini, desiderosi di apprenderla. Mentre molti cittadini italiani vorrebbero disimpararla facendo finta di parlare dialetto, che per alcuni di loro sarebbe una lingua inventata.

D. Analisi disincantata dei conflitti, ma non solo.
R. La parola d’ordine della mia riflessione degli ultimi anni è avere il coraggio di reincantare la politica. Ha bisogno di produrre un orizzonte di senso individuale e collettivo, di mobilitare le passioni e non soltanto di creare una sorta di scenografia mediatica della felicità pret a porter.

D. Quanto influiscono sulle felicità dei singoli le carenze educative e l’emulazione di modelli fasulli e illusori?
R. Noi non siamo qualcosa, ma diventiamo sempre qualcosa. Non c’è un essere umani ma vi è un divenire umani. Come non c’è un essere colti, ma vi è un divenire colti. Purtroppo abbiamo dimenticato l’importanza della formazione e dell’educazione, di uno strumento basilare come la scuola e per questo spesso i ragazzi arrivano all’università senza certe coordinate fondamentali di orientamento. Dovremmo pensare alla formazione come un qualcosa non limitato nel tempo, ma permanente. Le forme più pericolose di analfabetismo sono quelle di ritorno, che il nostro paese conosce: presenti un po’ovunque nello scenario politico. Si registra anche un imbarbarimento della sfera pubblica dovuta al fatto che, anche senza voler demonizzare la televisione, essa non può ergersi a unica piazza d’Italia. Troppo spesso ci dimentichiamo che l’Italia ha insegnato al mondo la modernità attraverso la pluralità delle culture, le centinaia di piazza di cui la nostra storia nazionale può vantarsi, storia travagliata ma storia grande. Abbiamo insegnato la grande cultura alla modernità, proprio perché avevamo una civiltà fatta di strade e di piazze in cui narrative forme di vita diverse si incrociavano. Credo che dovremmo alimentare forme plurali di associazioni di incontro.

D. Come ovviare a questa situazione contingente di perenne emergenza, a tutti i livelli, politico, sociale, di rapporti umani, che sovente produce riflessioni e pensieri dal fiato corto?
R. Penso sia giunto il tempo di ripensare profondamente i criteri di selezione delle elites che, come nell’ambito del sapere e della scienza, devono essere improntate più alle capacità che non alle fedeltà. Produrre idee e creare dimensioni nuove del vivere: cultura e filosofia sono un modo di porre i problemi, la politica un modo di risolverli. Qui abbiamo anche la chiave di una nuova alleanza tra i saperi e la politica, ma deve essere il ritorno alla “grande” politica il nodo da sciogliere. Parlo di un re incantamento, una politica che sia in grado di parlare anche simbolicamente ai singoli ed alle collettività, in grado di suscitare passione, di spingere i cittadini a reperire nuove forme di relazione. Capace di stimolare le generazioni ad instaurare un nuovo rapporto, perché uno dei drammi del nostro paese, che è causa della perenne emergenza, è che si è interrotto il rapporto tra le fasce sociali. Da un lato vedo la nostra generazione, formatasi nella seconda metà degli anni ’60, con il fatidico 1968. Esso non è stato una rottura del filo tra generazioni, ma la conferma che un rapporto intergenerazionale, polemico, esisteva. La polemica e il conflitto sono un modo di avere rapporti e di arricchirsi. Oggi invece vige un sistema dell’indifferenza, un’incomunicabilità tra le generazioni che pone problemi molto seri.

D. Far tornare a comunicare le generazioni per…
R. Per poter uscire dall’epoca delle passioni tristi, del futuro chiuso, imparando a teorizzare una grande politica che si traduca in progetti ariosi. In Italia abbiamo avuto un deficit di progettualità innegabile. La mia generazione, a partire dalla fine degli anni ’70, ha teorizzato la critica del progetto. Ricordo battaglie che ho condotto personalmente con Massimo Cacciari ed altri amici. Tal critica era sacrosanta in quanto il progetto in questione era ideologico. La critica del progetto ideologico non significa appiattimento della politica, disincanto cinico, piuttosto rilanciare un’idea di segno nuovo. E quando riusciremo a farlo potremo dire alla politica europea, benvenuta nel ventunesimo secolo. Fino questo momento la politica europea, e non solo quella italiana, non ci è riuscita. Mi auguro di riuscire a superare questo stallo, questa miseria del nostro presente, per poter indicare all’Europa e al mondo le linee di una certa politica. D’altronde lo abbiamo fatto con successo all’epoca di Machiavelli, nell’800 con grandi pensatori, nel 1960 con la capacità di costituire un grande laboratorio politico seppur conflittuale. Dobbiamo ricominciare a fare innovazione e sperimentazione politica, e lo dobbiamo fare per il futuro. Di tutti.

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