mercoledì 23 settembre 2009

Il Pil e la felicità: basta con la religione dei numeri

Da Ffwebmagazine del 22/09/09

Andare oltre il prodotto interno lordo, comunemente detto Pil, puntando a un benessere che non sia drogato dai numeri. Eh sì, i numeri, proprio quelle cifre che se da un lato non mentono circa valori oggettivi e sintomi matematici, dall’altro rischiano di fuorviare certe valutazioni che, per forza di cose, hanno l’obbligo di essere condotte non solo con l’ausilio del pallottoliere. Due gli spunti degli ultimi giorni che fanno tornare di attualità la questione. Il primo: l’Unione Europea ha annunciato di voler inserire nel nucleo di valutazione del pil anche un indice ambientale, per accertare i progressi effettuati sulle direttrici del risparmio energetico, dell’ecosostenibilità e della riduzione di gas nocivi. Lo scopo è raggiungere la consapevolezza che il pil non è più sufficiente a misurare il progresso reale di uno stato, dal momento che il fattore ecologico influisce ormai quasi quanto quello economico. E, accanto a esso, un gruppo di altri tre fattori: l’equità sociale, la giustizia internazionale e il più ampio raggiungimento della felicità individuale.

Il secondo: il presidente francese Nicolas Sarkozy ha ammonito pochi giorni fa «basta con la religione delle cifre», presentando un rapporto redatto sulla misura delle performance economiche e del progresso sociale, curato da un gruppo di esperti con a capo Joseph Stiglitz, l’economista che riscontra apprezzamenti da più versanti politici. Ha riunito attorno a questo studio venticinque tecnici di spessore mondiale, come il Nobel Amartya Sen, il francese Jean-Paul Fitoussi e l’italiano Enrico Giovannini (presidente dell’Istat). Tutti concordano nel sostenere che al fine di valutare il benessere materiale, occorre approfondire l’analisi su redditi e consumi, piuttosto che sulla produzione. Questo non significa che il pil d’un tratto sia diventato inattendibile o palesemente fasullo: forse non sempre la sua lettura è stata utilizzata correttamente, e per questo necessita di essere integrato con valutazioni soggettive rivolte ai cittadini e ai nuclei familiari. In tale direzione, ci si dovrebbe accertare delle ineguaglianze delle singole qualità della vita, ovvero di come le une abbiano ripercussioni sulle altre. Il tutto corredato da due appendici, circa la sostenibilità del benessere e la quantificazione delle pressioni ambientali.

Il dato sul quale riflettere è che, per rimanere all’esempio di casa nostra, l’Italia è al dodicesimo posto in Europa per il pil, ma perde tre posizioni se oltre al dato economico si prendono in considerazione altri fattori, come il verde, la salute, l’istruzione, l’educazione, la partecipazione democratica. In poche parole la vivibilità dei cittadini. Lecito chiedersi, a questo punto, quale sia la reale fotografia di un paese. Quella legata esclusivamente ai numeri? O quella figlia di una visione più ariosa che contempli elementi sociali? Preferendo la seconda, appare utile rammentare che il pil è un valore appositamente pensato per attribuire un andamento all’economia di mercato, e non per segnare inequivocabilmente il raggiungimento di quell’ampio ed articolato concetto che è il benessere sociale. Innegabile che esso si intersechi con il concetto di sviluppo sostenibile, che il World Commission for Enviroment and Development definisce come lo sviluppo capace di soddisfare le esigenze dei cittadini, senza per questo sacrificare la possibilità per le generazioni successive di fare altrettanto.

Essendo l’uomo un soggetto economico, ecco che la finanza etica, giustamente negli ultimi tempi rammentata e celebrata, è proprio quella che riesce a immaginare la persona un momento prima del capitale, soprattutto in riferimento alla macrocrisi economica dell’ultimo anno, con intense sacche di conseguenze e ripercussioni su abitudini e stili di vita, destinati a certa modifica. Etica, istituzioni e cittadini dunque uniti sotto il comun denominatore della vivibilità, che non è direttamente proporzionale allo sviluppo industriale. È sufficiente spostare lo sguardo sulle regioni italiane maggiormente sviluppate, come Lombardia e Veneto. Senza dubbio le più ricche: si pensi che nella provincia di Vicenza c’è una delle più alte concentrazioni europee di aeroporti privati, a testimoniare una briosa attività imprenditoriale. Ma è un valore che non va di pari passo con la vivibilità, se invece Toscana e Marche dispongono magari di fatturati più bassi, ma certamente risultano più adatte ad una vita quotidiana che si definisca “piacevole”.

«Nessun sistema si rivela veramente buono se non è sorretto da uno stato etico» diceva Ezra Pound nel suo ABC dell’economia, dove il nodo da sciogliere era quello esistente tra etica dello stato e interessi finanziari. Spetta dunque allo stato, in conclusione, contribuire ad accrescere quel valore che si intende, a ragione, affiancare al pil per due motivazioni. Una di merito. Nascere, formarsi, crescere i propri figli in un luogo più “consono”, moltiplica il tasso di felicità degli individui e, a seguito di una serie di fattori oggettivi ma anche emozionali, li mette nelle condizioni di migliorare la propria situazione con ripercussioni dirette anche sull’economia. L’altra di metodo. Uno stato che investa a lunga gittata sul tenore di vita dei cittadini, e ovviamente non solo con riferimento alla busta paga, mostra una maturità inevitabilmente destinata a tutelare anche le future generazioni. Il tutto con la consapevolezza che l’ecosostenibilità di scelte e valutazioni non può che condurre ad un’eco-economia. Dove il prefisso “eco” abbraccia in termini di qualità non solo l’oggi, ma soprattutto il domani.

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