giovedì 10 settembre 2009

OBAMA, SOGNO E COLORE CONTRO LO STATUS QUO

da FFwebmagazine del 10|09|09

People are strange when you’re a stranger, cantava Jim Morrison con i suoi Doors quarant’anni fa. Ma chi è davvero strano, o diverso, o differente e quanto importa che lo sia realmente? Perché non pensare che l’omologazione è monotona, noiosa, piatta, di contro alla briosa, accattivante e spumeggiante multiformità? Se domandassimo a un bambino cosa preferirebbe, tra un lenzuolo monocolore e uno variopinto che gli ricordi le sfumature dell’arcobaleno, senza dubbio (con certezza del 200%) nessuno opterebbe per il primo. Ed è facile comprendere il perché. Quanti uomini nella propria vita hanno indossato abito, cravatta, camicia, calze e scarpe del medesimo colore? Nemmeno Tony Renis o Julio Iglesias in qualche simpatica esibizione, perché non ne risalterebbe le peculiarità, non si innescherebbe quel meccanismo ottico e visivo che offre piacere e bellezza.

Faces look ugly when you’re alone, continua Morrison, ovvero la solitudine rende diffidenti e circospetti. Induce a immaginare gli scenari peggiori appartenenti a chi ci sta di fronte, senza scavare nelle anime e nelle intenzioni. Una persona timorosa e accigliata ha meno probabilità di una sorridente e ben disposta, nel valutare fatti e circostanze, o semplicemente nell’aprire la porta di casa al postino o al vicino che chiede un po’di zucchero. E magari invitarlo a cena perché si è appena trasferito e nella zona non conosce nessuno.

E ancora, When you’re strange, faces come out of the rain, When you’re strange, No one remembers your name, visi che spuntano dalla pioggia e di cui nessuno conosce il nome. Ecco, dovremmo iniziare a tagliare quella pioggia con fendenti ben assestati, per andare dritti al nocciolo. Superare i banchi di nebbia, scavalcare gli steccati come una vecchia pubblicità di un olio consigliava. E non per dirigerci masochisticamente verso un oblio indefinito, ma magari per raggiungere obiettivi comuni con alcuni compagni di viaggio. Unire le forze, come la nazionale italiana di calcio ha fatto ieri sera per ottenere la qualificazione mondiale. Non c’è uno solo che vada boriosamente per la sua strada così sicuro di vincere in solitario (tranne il nostro Giovanni Soldini), perché come diceva Platone: «Siamo tutti intorno al mare come ranocchie attorno a uno stagno», e a nulla servirebbe impedire agli altri di godere di quelle acque. A volte le note musicali dicono più di tanti programmi e di tanti pamphlet, per usare un termine di uso diffuso negli ultimi tempi.

Al di là dell’oceano, c’è un simpatico ragazzo (perché è ancora e per fortuna un simpatico ragazzo), dalla pelle diversa, che sorride, che è ben disposto con amici e nemici, che gioca scanzonatamente a basket, che è venuto fuori dalla pioggia senza paura di bagnarsi. Barack Obama ieri nel suo messaggio alle Camere ha lanciato tre inviti: « È il momento di unire le idee migliori dei due partiti»; «Se venite con proposte serie, la mia porta rimarrà aperta»; «Non accetterò lo status quo come soluzione». Non servirebbe altro per scrivere il manifesto della rivoluzione politica del secolo.

Gli Stati Uniti come è noto sono a un bivio. Uno dei punti nodali del programma dell’attuale inquilino della Casa Bianca è estendere la copertura sanitaria ai circa quarantacinque milioni di cittadini americani che al momento non ce l’hanno. Diverse le opzioni possibili, si va dalla polizza sanitaria amministrata direttamente dal governo o a una che sia gestita da altri soggetti, come cooperative no profit. Ecco, proprio sui dettagli del piano, Obama ha detto di non considerarsi arroccato sulle proprie posizioni. Insomma, “parliamone”, ma a patto che si vada avanti contro lo status quo delle cose.

C’è un problema, grave, che si chiama salute. Non è, per dirla tutta, riconducibile ai pur rispettabili indici del Pil, o delle esportazioni, o delle minacce nucleari dello squilibrato di turno. No, qui si tratta della pietra filosofale della vita delle persone comuni, quelle che lavorano dalla mattina alla sera, quelle stesse che tirano avanti per garantire ai propri figli un’istruzione possibilmente superiore alla loro, quelle che si sforzano di migliorare e non hanno tali disponibilità finanziarie da potersi permettere un’assicurazione privata. È forse una colpa negli Usa tanto progrediti e liberali non essere ricchi?

Ed ecco che un bel giorno l’abbronzato più illustre del pianeta, che parlando alle scolaresche ha detto «Cari ragazzi, studiate e non fatevi infinocchiare dalle carriere facili propinatevi dalla tv», questo figlio di un keniota, quindi un immigrato che dalle nostre parti sarebbe stato magari accusato di disturbo alla quiete pubblica e a cui sarebbe stata chiusa la kebabberia, si mette in testa di sfondare, contando sul proprio bagaglio culturale e sul sogno di cambiare: quello stesso sogno che dalle nostre parti , fino a oggi, non sembra essere in programma.

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