Da ffwebmagazine del 27/10/09
Non solo pacchetto sicurezza, ma adesso si studi un pacchetto integrazione - sì integrazione, checché ne pensi la Maglie che oggi su Libero ha definito "tremenda" questa parola - perché se è vero che integrazione e sicurezza viaggiano su binari differenti ma intrecciati, è altrettanto vero che senza una condivisione dei valori di fondo di una società, non vi potrà essere una completa integrazione. Coincide l’analisi del presidente della Camera Gianfranco Fini, con le valutazioni della Cei in occasione della presentazione del dossier statistico 2009 sull’immigrazione di Caritas-Migrantes. E non potrebbe essere diversamente considerati gli interessanti dati che sono emersi, senza i quali si rischierebbe di avere un quadro della situazione monco, e facilmente confondibile.
Quasi quattro milioni e mezzo di immigrati regolari sul territorio italiano (sopra la media europea); lavoratori stranieri che rappresentano il 7% degli occupati complessivi incidendo sul Pil per il 10%; il 37% degli alunni nelle scuole italiane è nato qui; la metà degli immigrati è di religione cristiana; i matrimoni misti sono ormai un decimo del totale; solo nel 28% delle denunce penali sono implicati stranieri regolarmente presenti. Numeri che offrono certezze assolute: non è vero ad esempio che la criminalità è aumentata parallelamente all’incremento degli stranieri nel nostro paese; falso che tolgono lavoro ai giovani italiani, dal momento che producono il 10% del pil nazionale occupandosi anche di libera impresa (ben 190mila), dando così lavoro ad altre 200mila persone; falso che prendano in servizi più di quanto restituiscono in tasse, dal momento che a fronte del 2,5% di spese pubbliche verso lo straniero da parte dello stato, gli immigrati assicurano in termini di gettito ben il 5%.
Statistiche e analisi che devono essere consegnati all’opinione pubblica, se si vuole evitare da un lato che passi un messaggio fuorviante, con la sola conseguenza di alimentare spinte xenofobe, dall’altro che il legislatore tenda a ignorare quelle percentuali e quei ragionamenti, indispensabili per ricreare una vera cultura dell’accoglienza. A oggi, sei italiani su dieci sostengono la stretta dipendenza tra immigrazione e delinquenza. Nulla di più sbagliato. E compito delle istituzioni è quello di agevolare la comprensione del fenomeno immigrazione, dal momento che, come ha evidenziato monsignor Nozza, direttore di Migrantes, «è come se il mondo ci fosse entrato in casa e non sarebbe saggio sbarrare le porte».
Vediamoli allora questi numeri. Tre le chiavi di lettura, proposte da Franco Pittau, coordinatore del dossier Migrantes. La prima riguarda la visione degli immigrati da irregolari a regolari: due milioni sono i lavoratori che sostengono il sistema Italia, 500mila i figli delle seconde generazioni che studiano, si formano e che formeranno una famiglia, con seimila laureati ogni anno. La seconda è quella che da delinquenti porta a considerare gli immigrati dei lavoratori: basti pensare che oggi il numero delle denunce penali in Italia è pari a quello dell’inizio degli anni ’90, quando il fenomeno immigrazione ancora non era delle proporzioni di oggi. Notevole è stato il loro inserimento occupazionale, ma avrebbero bisogno di più tutela e nonostante l’annus horribilis della crisi ben 200mila sono titolari di un’impresa.
Infine, l’equazione “da clandestini a cittadini”, considerando l’individuo non solo per quello che fa come forza lavoro ma soprattutto per quello che pensa, quindi chi paga le tasse perché non dovrebbe avere il potere di rappresentanza, votando alle elezioni? Sarebbe necessaria un’impostazione legislativa più equilibrata, ammonisce monsignor Schettino, arcivescovo di Capua e neo presidente della commissione episcopale Immigrazione, “perché accettando la necessità dell’immigrazione, faremmo un’opera preventiva, raccogliendone sollecitazioni ed istanze, e chiedendoci dove va l’Italia? Con quale progetto culturale?”.
E ancora, con quale modello di lavoro perseguire tale scopo? Il presidente Fini ha posto l’accento su due punti nevralgici: l’apporto strategico dell’informazione e lo snaturamento delle singole culture da impedire. In primis i media ed il loro indubbio potere di influenzare le masse: «Non sia contro informante nei confronti dell’opinione pubblica - ha rilevato la terza carica dello Stato -. Perché se un marocchino scippa una signora leggiamo titoli che puntano sulla non italianità del malfattore, e se invece a commettere il reato è stato un italiano questo non avviene? Sarebbe opportuno pesare correttamente parole ed enfasi, per impedire che inneschino quella paura che non fa bene né agli italiani, né all’integrazione».
Il riferimento è all’integrazione vera, veritiera e non frutto di marchingegni come le unioni di convenienza, proprio per quel senso di appartenenza all’Italia che caratterizza, ad esempio, un bambino cresciuto sul nostro territorio, che magari la domenica va allo stadio, che parla il dialetto della città dove risiede, che gusta le pietanze locali e che vorrebbe contribuire alla crescita sociale tramite la sua professione: «Beh questo bambino non può vedersi chiudere la porta della cittadinanza». Non sarebbe saggio e non aiuterebbe quell’intima consapevolezza di essere italiano che già ha, dal momento che parla la nostra lingua e vive a trecentosessanta gradi la quotidianità nostrana.
Quindi no al modello di assimilazione proposto in Francia, ha proseguito il presidente Fini, «perché non servirebbe cancellare le singole culture», e no al multiculturalismo dei paesi britannici, il cosiddetto Londonistan, «perché si produrrebbero molteplici identità chiuse fra loro e non amalgamate con la realtà di riferimento». Due strade da evitare, quindi, e che offrono lo spunto per perseguire magari un modello italiano di integrazione, che favorisca il conseguimento della cittadinanza a chi ha compiuto un percorso di studi qui, certamente nel rispetto delle regole imposte dalla legge ma non ancorato esclusivamente ad una dimensione formale da caserma che mortifichi aspettative e soggettive aspirazioni.
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