venerdì 23 ottobre 2009

Augé: «Facciamo muovere le frontiere dell'ignoto»


Da Ffwebmagazine del 22/10/09

Marc Augé, etnologo e antropologo francese, è colui che ha coniato il termine "ideo-logic" per descrivere l'oggetto della sua ricerca, inquadrata come una logica interna alla rappresentazione che la società offre di se stessa. Nato a Poitiers nel 1935, è stato direttore della École des hautes études en sciences sociales a Parigi e direttore fino al 1970 dell'Ufficio della ricerca scientifica e tecnica d'oltremare (Orstom - ora Istituto di Ricerche per lo Sviluppo). Convinto dell’inutilità di concentrarsi su modelli preesistenti, sostiene che la politica dovrebbe prediligere lo sviluppo scientifico, basato sull’educazione, da cui partire e su cui investire. La sua proposta? «Facciamo muovere le frontiere dell’ignoto, così la politica diventa nobile».

D. Una sua definizione è che “il mondo è un’immensa città”. Ma come mai i cittadini, pur dotati di strumenti innovativi, faticano a comunicare fra loro, incrementando di fatto un’oggettiva e deleteria solitudine?
R. In realtà, tutte le città sono unite fisicamente, ma al tempo stesso ciascuna di esse sta subendo un decentramento perché i centri storici non sono più abitati. Non sono più i luoghi del lavoro, ma solo sedi di visita per i turisti. Il che fa sì che la città sia in un certo senso fuori di se stessa.

D. Quasi fosse snaturata del suo ruolo originario?
R. Non è più la stessa di prima, mi riferisco alle grandi tendenze. Da qui un sentimento di solitudine. In un posto come Parigi, ad esempio, i lavoratori trascorrono molto tempo nei mezzi di trasporto, come bus o metro, in un pendolarismo che li conduce da un punto all’altro della metropoli. Ed è un fenomeno generale.

D. Quale il rischio si corre nel “non luogo”, quello spazio “multi utilizzo”, solcato da soggetti che alla fine non si incontrano fra loro, ma transitano frettolosamente?
R. Lo sperimentiamo tutti i giorni, quando andiamo all’aeroporto, o aspettiamo il bus. Al tempo stesso tutto questo corrisponde a un cambiamento di scala. Disponiamo di immagini del mondo intero, siamo consapevoli del movimento dell’orizzonte, che si è mosso ed è cambiato. Se volessimo essere ottimisti potremmo pensare che in ognuno di questi spazi è possibile incontrare qualcuno, come nei romanzi del Medioevo dove improvvisamente nella foresta ci si imbatteva in un personaggio.

D. È proponibile riempire questi “non luoghi” dal punto di vista relazionale e culturale, attraverso, per esempio, mostre permanenti negli aeroporti, o agorà artistiche negli autogrill?
R. Sì, certamente contribuirebbe molto a riorganizzare i luoghi di incontro o di riferimento degli spazi che in passato non avevano tale vocazione. Penso ai grandi supermercati, dove viene fatta anche animazione. La distinzione luogo-non luogo non è empirica in assoluto, in quanto non è la stessa cosa lavorare in un aeroporto con il proprio personale tran tran quotidiano, fatto di colleghi e ritmi di lavoro, e transitarvi semplicemente allo scopo di partire. Ma sono due binari verso uno stesso viaggio.

D. Ha detto che linguaggio ed esperienza sono divise da un gap, apparentemente insuperabile: qual è il primo passo per farli relazionare in modo maggiormente produttivo?
R. Il solo modo per riunificare l’esperienza umana è l’educazione. Purtroppo, il dramma che viviamo ai giorni nostri è che non solo i più ricchi tra i ricchi hanno un reale scarto con i più poveri tra i poveri, ma anche chi è più vicino alla conoscenza è molto distante da coloro che sono analfabeti.

D. Ha senso allora, come propone Michel Maffesoli, tornare alla dimensione organica, dove il senso comune è il bene supremo, lontano anni luce dall’individuo che pensi da monocefalo?
R. Lui ha teorizzato un significato della parola "tribù" che mi ha lasciato sempre perplesso. Penso che il problema sia di sviluppare un individuo che sia sovrano, per queste ragioni pongo l’accento sull’educazione. Certo sono consapevole che l'educazione, l'istruzione, così come io la immagino sia ancora un’utopia.

D. Propone di investire le élite degli intellettuali di una maggiore responsabilità?
R. Non solo degli intellettualmente dotati. Direi che c’è una responsabilità enorme anche dei politici. Quello di cui avremmo bisogno è una vera e propria rivoluzione da questo punto di vista.

D. Di tipo culturale?
R. Non culturale, su quel fronte abbiamo già dato. Parlo di una rivoluzione nel senso che se si attribuisce la priorità assoluta a sviluppare l’educazione ciò richiederebbe delle somme straordinarie. È concepibile, per esempio, nelle zone più disagiate immaginare un’insegnante per soli cinque alunni? Se si modificassero le priorità, dando all’educazione una veste più rilevante, si avrebbero oggettivamente delle notevoli ricadute sociali. Per rivoluzione, nel senso letterale del termine, intendo un mutamento del senso delle cose.

D. A proposito di educazione, che cosa pensa della proposta di prevedere nelle scuole italiane l’insegnamento facoltativo e alternativo della religione islamica?
R. Tutto dipende da cosa si persegue: Non solo l'islamismo, quindi, ma la religione, in senso lato, che faccia parte dei programmi di storia. Per il resto, mi considero assolutamente laico e credo che l’insegnamento religioso faccia parte dell’ambito privato.

D. Come valuta dall’esterno la realtà italiana? Quale logica interna alla rappresentazione che la nostra società offre di sé riesce a percepire?
R. C’è molto da fare non solo da voi ma in tutte le realtà. In un progetto a lungo termine credo che sia la gioventù a essere più interessante per progettare il mondo di domani.

D. Su quali presupposti dunque favorire un reincantamento della politica, elevandola a valore grande in un’ottica di visione lungimirante e di bene comune?
R. Evidentemente tale sollevamento della politica dovrebbe provenire da chi fa la politica, e non solo. Penso che sarebbe utile che tutti facessero politica, e che al suo interno ci fossero delle finalità.

D. Si riferisce a una politica che parta dal basso per elevarsi?
R. Innanzitutto che definisca i propri obiettivi. Quando mi riferisco all’educazione penso a una misura palesemente politica. Con la mondializzazione della globalità e, quindi, anche della società e della politica, quest’ultima dovrebbe darsi delle mete nobili, come la conoscenza dell’universo, la scienza. E in questo dovrebbe soprattutto pensare a quale sia il metodo migliore per ottenere il bene comune. Forse bisognerebbe rinunciare a partire, come si è molto spesso fatto, da modelli preesistenti. Cercando di imitare ciò che fanno gli scienziati, ovvero far muovere le frontiere dell’ignoto. Penso che per la gestione tra gli uomini potremmo fare la stessa cosa, migliorando l’esistenzialismo politico.

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