Da Ffwebmagazine del 04/10/09
Luciano Violante, magistrato ed esponente di spicco non solo di Pci, Pds e Ulivo ma anche istituzionale in quanto già presidente della Camera e al vertice della commissione antimafia, va dritto al punto della questione, conversando sul suo ultimo libro Magistrati, appena uscito per Einaudi. Maggiore attenzione alle interpretazioni delle leggi e distanze certe e severe tra sistema giudiziario e mezzi di informazione.
D. Quale ruolo dovrebbe avere la magistratura all’interno di questo nuovo sistema politico?
R. Stiamo assistendo a un cambio di ruolo da parte della magistratura, dal vecchio modello continentale del giudice puro applicatore della legge e del giudice che la interpreta, a un modello più vicino a quello statunitense, con un giudice dei diritti, che sindaca anche la validità del provvedimento. Quest’ultimo si mostra più libero rispetto a quello dell’Europa continentale. Da questo punto di vista credo che il giudice italiano debba tener conto in modo assolutamente vincolante del peso che hanno le interpretazioni della legge.
D. Si riferisce alla interpretazioni e alle decisioni della Cassazione, ad esempio?
R. Nel libro sostengo che la stabilità dell’interpretazione delle norme è requisito essenziale per la competitività del paese. In assenza di regole certe gli imprenditori poi vanno a investire altrove, per dirne una. Non vi è quindi un problema di legge ma di interpretazione. Il secondo dato poi è quello di impegnarsi a tenere il più distante possibile giustizia e mezzi di informazione. Si sono verificati casi di intrecci troppo stretti nella storia repubblicana tra media e inchieste. Anzi, mentre nel passato i giornali facevano le inchieste e su quelle i giudici celebravano i processi, oggi accade esattamente il contrario.
D. Chi e perché, secondo la sua opinione, si è lasciato attrarre dalle luci scintillanti di questa sorta di moralismo giuridico?
R. Ci sono stati momenti di alta tensione all’epoca di Mani pulite, ma penso anche ad altri casi in cui la magistratura ha fatto molto di positivo. A un certo punto però, quando la politica delega alla magistratura non l’applicazione delle norme nei confronti dei singoli casi, come può essere il corrotto o il mafioso o il terrorista, ma le conferisce il compito di combattere la corruzione o la mafia o il terrorismo, in quel preciso istante carica la magistratura di una responsabilità politica e morale. Ma dal punto di vista istituzionale chi è venuto meno ai suoi compiti è stato la politica, delegando alla magistratura la risoluzione di un problema.
D. È in quest’ottica che ha riportato nel libro alcune espressioni di Borrelli?
R. È un uomo che stimo moltissimo, ha detto che si voleva spargere sale e tagliare le mani, ovvero un compito di politica generale che intanto la magistratura si accolla o tende ad accollarsi in quanto la politica non svolge il proprio mestiere. Mentre altri paesi hanno avuto una reazione precisa e ferma, sia Francia che Gran Bretagna, contro le corruzioni quando queste sono emerse, in Italia no. Da noi purtroppo l’istinto delle dimissioni per responsabilità politiche mi pare che non sia particolarmente affinato, tranne sporadiche eccezioni. Se da un lato è innegabile che si siano verificati degli eccessi, dall’altro la risposta è stata un po’nevrotica.
D. Come ricomporre oggi un quadro d’insieme che sia il quanto più possibile armonico?
R. Proprio nel libro io denuncio una reazione scomposta, più rivolta alla tutela delle posizioni dei singoli che a quella del sistema giudiziario. La politica in Italia non si è data regole morali, e tutto ciò che si può giuridicamente fare è lecito anche moralmente: però in questo modo si attribuisce al diritto un peso eccessivo all’interno della società. Faccio un esempio concreto, anche se forse farà sorridere qualcuno: ritengo particolarmente importante il fatto che il Parlamento italiano, così come in altri paesi, si doti di un comitato etico che valuti i comportamenti immorali. L’etica non deve certo pretendere di essere la misura di tutto, ma mi auguro che trovi il suo spazio, all’interno del quale stigmatizzare atteggiamenti sbagliati. In questo modo si consentirà anche al diritto di rientrare nei ranghi.
D. Ma a volte c’è un uso immorale della questione morale?
R. Accade che i parametri etici vengano utilizzati al puro fine della lotta politica. Ciò è profondamente sbagliato.
D. Magistrati che rispettino l’autonomia della politica, quindi, senza vestirsi con l’abito del moralizzatore. Questo libro nasce quindici anni fa?
R. Avevo alcuni appunti sul rischio di un governo dei giudici che ho segnalato nel 1993, ma contrariamente a quello che in genere si pensa di parte del mondo politico e dell’informazione, io sono sempre stato un osservatore abbastanza severo delle deformazioni dell’ambito giudiziario, conoscendolo con qualche approfondimento. A me pare che oggi sia emersa una duplice necessità. Da parte della magistratura di caricarsi di una responsabilità di tipo nazionale, salvaguardando tutti i principi di unità. Da parte della politica di dotarsi di regole morali. Senza dimenticare che anche l’avvocatura dovrebbe fare una riflessione sul ruolo che riveste, perché opera assieme alla magistratura, quindi non può essere che tutto il bene o tutto il male si trovino solo da una parte.
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