lunedì 19 ottobre 2009

Goffredo Fofi: «No alla cultura che non fa pensare»


Dal Secolo d'Italia del 14/10/09


«Intrattenere per non far pensare, questa è l’ambizione palese o nascosta di un intero sistema». Il maestro Goffredo Fofi, saggista, critico letterario, d’arte e cinematografico, direttore della rivista Lo straniero e firma di Internazionale, Film Tv e L’Espresso, definito da Wikipedia «scrittore libero, maestro senza cattedra, da sempre senza salario e senza pensione», affronta a viso aperto quella che è considerata una vera piaga sociale. Ovvero l’involuzione di una certa cultura che nel nostro paese vive fasi alterne e l’intuizione su come foraggiare slanci di idee e ricchezza di contenuti, con due punti fermi: la costituzione e il volontarismo etico.

D. È plausibile, così come avviene ormai da tempo in molti paesi, riflettere su una cultura più libera, che parta dal basso, non necessariamente ancorata al cappio dei finanziamenti pubblici?
R. Io ho sempre avuto molta fiducia nel “fai da te”, e non mi ci sono trovato male. Le riviste che ho fatto, per esempio, sono sempre state poverissime – ho avuto a volte un minimo sostegno editoriale, di piccoli editori convinti, e in due casi un ricco amico di amici che mi ha dato qualche lira quando ero in difficoltà. Ma queste cose non erano decisive: le riviste sarebbero andate avanti anche senza di loro, poiché si basavano su quella che Capitini chiamava “persuasione” di chi le faceva, redattori e collaboratori e diffusori. Sono la prova vivente che si possono fare “le nozze coi fichi secchi”.

D. Ha detto che la cultura è diventata uno spettacolo che serve ormai per manipolare le coscienze invece che liberarle: quale la medicina per questa cultura così ammalata?
R. Nella tradizione italiana c’erano una volta il mecenatismo di ricchi con qualche senso di colpa o qualche snobismo che finanziavano persone o gruppi di intellettuali determinati (e a volte mettevano in gioco i loro denari per far loro le cose, da editore-intellettuale), ma credo che sia scomparso del tutto, se non nelle forme molto ambigue (e a volte losche) degli “sponsor” e delle banche. Restano l’assistenzialismo, una delle piaghe d’Italia, e oggi le figure dominanti dei mediatori, in tutti i campi, dalla politica al cinema, dalle case editrici ai festival e feste e saloni… E anche nei campi non culturali. Perché la cultura è diventata un nuovo oppio del popolo: intrattenere per non far pensare, questa è l’ambizione palese o nascosta di un intero sistema (sì: sistema nell’accezione di una volta, marcusiana). Come uscirne? Non ci sono ricette, ci sono volontà e rigore morale, una forma di saggezza che non esclude il dialogo (anche con le istituzioni, benché la mia esperienza e di altri sia disastrosa: si spende 100 per ottenere 10, e il 90 per cento del denaro va ai funzionari e ai mediatori…) ma spesso con risultati pessimi: se ne esce sempre disillusi. La mediazione è sempre politica, e spesso ti senti dire: a te non do una lira perché hai parlato male del mio assessore o del mio partito, come se i soldi non fossero dello Stato e ottenuti dal lavoro di tutti, ma fossero proprio loro, come se li avessero guadagnati personalmente! E a ogni cambio elettorale si ricomincia daccapo. Credo nella Costituzione, che dice sia dovere dello Stato assistere i poveri e i meritevoli, ma non mi pare che siano in molti ad applicarla. Credo anche nel “volontarismo etico”, anche se di pochi, e nella dimostrazione concreta che è possibile fare anche senza quelle mediazioni.

D. Potranno essere le minoranze, citate nel suo La vocazione minoritaria a rappresentare una soluzione avanguardistica alle manchevolezze della cultura di oggi?
R. Credo proprio di sì, anche se un personaggio di Malraux dice in uno dei suoi romanzi asiatici che in ogni minoranza c’è una maggioranza di imbecilli! Ma non sempre, non sempre, almeno nelle minoranze che ho frequentato… E non si tratta di avanguardie, ma semplicemente di un modello di “ben fare” che sa resistere alla corruzione dei tempi, perché è vero che molte minoranze si sono lasciate ricondurre alla logica dominante di piccoli privilegi in cambio del non dar fastidio, o di oliare i meccanismi, mentre lo scopo di quelle serie sarebbe di mettere zucchero negli ingranaggi, i bastoni tra le ruote, nello stesso tempo che di sperimentare e proporre modelli altri, più sani. La mia preoccupazione maggiore è vedere come anche i piccoli gruppi autonomi siano stati conquistati dall’autoconsolazione: sono bravo, sono onesto, mi diverto a fare cose che mi piacciono con quattro amici, trovo anche chi mi dà un po’ di soldi per farle, e tanto mi basta. Per dirla in breve: credo che oggi tutto ciò che consola sia new age e menzogna, e che ha dignità soltanto chi sa guardare in faccia la realtà, ne studia i meccanismi generali e locali e individua i modi giusti per modificarla nel senso dell’assunzione di responsabilità di ciascuno nei confronti della collettività (e oggi questo è come dire nel futuro dell’uomo!). Quest’azione rimanda, per me e per la mia formazione nonviolenta, alla necessità della disobbedienza civile come forma di lotta da privilegiare su tutte le altre.

D. Crede sia possibile pensare con più decisione a un ruolo formativo per le letture, al fine di dare nuovo slancio alle sorti culturali nostrane?
R. Non credo che la situazione italiana sia così disastrosa: abbiamo ancora molti grandi o buoni artisti, in cinema, letteratura, teatro, fumetto e altro, e anche saggisti più seri e meno “di spettacolo” di altri. Ma il contesto in cui si muovono è più difficile di un tempo: la cultura è diventata uno strumento fondamentale per la gestione del potere, la “comunicazione” vi uccide l’arte e la creatività e la diversità, e la “comunicazione” è uno strumento fondamentale per la manipolazione del consenso, è stordente o addormentante al pari della televisione e di tanti altri media, e i ricatti della società dello spettacolo (che sono anche economici) pesano molto nella capacità di pensare e creare. Ma per esempio nel campo delle lettere siamo messi meglio di altri paesi, dove la mercificazione della cultura è più avanzata e più perfezionata che da noi. Una lettura che mi ha preso molto, fatta proprio in questi giorni, mi conferma che c’è chi pensa e ragiona e fa romanzo all’altezza dei compiti che la letteratura dovrebbe avere oggi e proprio oggi, qui e proprio qui, è Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia, un romanzo Einaudi che, anche se non perfetto, racconta e spiega ottimamente gli anni Ottanta, che sono stati quelli della grande mutazione e della sconfitta delle utopie, nel mondo e da noi. E penso anche ai romanzi di Walter Siti, che raccontano ottimamente la mutazione avvenuta: la “plebeizzazione” delle classi alte e medie e la piccolo-borghesizzazione, nel nome del consumo e dell’apparenza, dei proletari e sottoproletari.

D. Ha scelto di raccontare personaggi minoritari che pur trovandosi in minoranza, cercano di proporre alternative: perché oggi chi ragiona sul cambiamento si trova quasi in una terra straniera?
R. Lottare per la liberazione di tutti, commisurando con molto rigore i fini e i mezzi (non si lava con l’acqua sporca, si diceva un tempo parlando dei comunisti, ma vale anche per altri, anche oggi…) ma non accettando i ricatti e l’ipocrisia del potere e delle ideologie e dei modelli che propaga. Pensando con la propria testa e in gruppo, non facendosi soffocare e stordire dal rumore con cui ci si assedia, non lasciandoci anestetizzare.

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