giovedì 5 agosto 2010

Largo ai giovani sì, ma non si riducano a sudditi


Da Ffwebmagazine del 05/08/10

Scriveva Pablo Neruda raccontando Valparaìso: «Nel momento più disordinato della nostra giovinezza, salivamo all’improvviso, sempre all’alba, sempre senza aver dormito, sempre senza un centesimo in tasca, in un vagone di terza classe. Eravamo poeti o pittori di poco più, o poco meno, di vent’anni, provvisti di una forte carica di pazzia irriflessiva che voleva esprimersi, allargarsi, esplodere». Quella pazzia era il sano propellente per nuove avventure, per raggiungere mete e obiettivi, per arrampicarsi sulla scala socio-professionale. Insomma, per realizzare sogni ed ambizioni.

Accade però, che quando alcuni giovani accusano difficoltà e strozzature di spazi e di azione, siano preda prima della paura di non farcela e poi del feudatario di turno. Il quale li attira nel suo regno ammaliandoli con le bellezze, gli agi, le facilitazioni. Sirene di vacuità. Eliminando dal loro cammino crepe e deviazioni, liquidando le determinanti cadute- perché cadere è utile e fortifica- a semplici perdite di equilibrio. Per giungere dritti al compimento finale, ma di fatto sfornando sudditi che all’indomani del “regalo” avranno come per magia smarrito quella deriva di indipendenza. Sudditi inermi, tanto per non dimenticare il dettato di Louis D. Brandeis, ovvero che essi rappresentano «la più grande minaccia alla libertà» .

I sudditi sono quelli che scartano la gestazione, la maturazione, per correre subito al prodotto finito. Esprimono insofferenza verso l’attesa, giustificata dall’iperpropensione ad arrivare in fretta al risultato. Non si preoccupano del mid term, perché sottolineano la stretta connessione tra desiderio iniziale ed effettivo compimento. Ha scritto Baltasar Graciàn y Morales che «ci sono individui composti unicamente di facciata, come case non finite per mancanza di quattrini. Hanno l’ingresso degno di un grande palazzo, ma le stanze interne paragonabili a squallide capanne». Quelle case sono i nuovi sudditi della post modernità, risultato di una società catapultata solo sulla meta, che non investe nulla nel percorso necessario per raggiungerla. Che si concentra su piccole porzioni di sé, tralasciando tutto il resto.

Il rischio, sempre più serio, è che alla fine le qualità scelgano di ingrassare altrove, lasciando sul campo i sudditi. Ma possibile che non ci renda conto di come, proseguendo con tale deriva di annientamento delle menti green, si otterrà un Paese svuotato di emozioni, di nuove leve, di idee scintillanti e produttive. E’come se alla vigilia di una competizione sportiva, uno degli atleti partisse con cento chili di zavorra in più rispetto agli avversari. Diventando amara consuetudine. E’la fotografia di ciò che accade e che in pochi denunciano con forza.

Come Paolo Macchiarini, autore pochi giorni fa di una vera e propria impresa: è stato il primo medico al mondo ad aver effettuato in un nosocomio fiorentino un doppio trapianto di trachea con l’ausilio di cellule staminali. Ma anziché rappresentare, questo storico evento, un trampolino di definitiva affermazione, ha invece segnato la fuga dell’ennesimo cervello nostrano, destinazione Stoccolma. Dopo aver già vagliato personalmente, all’indomani della laurea, le realtà statunitensi, inglesi, spagnole. E che gli ha fatto dire di arrabbiarsi perché l’Italia è sì un contenitore di “divini creatori”, vanificati però da un sistema che semplicemente non funziona come dovrebbe. Anziché privilegiare i migliori li costringe alla migrazione professionale, accomunati da un triste destino anche sociale. In qualche maniera, rifiutati dalla patria di tante eccellenze.

Neruda prosegue il suo racconto su Valparaìso con la visita alla residenza di Novoa, una specie di capanna con due stanze. Mentre i suoi amici ben presto si addormentarono sul pavimento, stesi sui giornali della giornata, il giovane Pablo faticava a prendere sonno. Poi fu preda di una sensazione strana e travolgente, «una fragranza montuosa, di prateria, di vegetazioni che erano cresciute con la mia infanzia». Lo riconciliarono col sonno, nient’altro erano se non piante secche e lisce, «rami puntuti e rotondi: tutto l’arsenale salutare del nostro predicatore vegetariano».

Forse sarebbe interessante rivalutare l’arsenale culturale della formazione, investire non solo nella cultura scolastica e universitaria, ma soprattutto lavorare sul concetto di indipendenza. Sul passaggio determinante che produce personalità staccate dai desiderata dei feudatari. Per tornare a fare spazio ai giovani, alle eccellenze, alle menti. Ma che il “largo ai giovani” non si tramuti in “largo ai sudditi”, evitando di produrre mediocrità industriali.

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