Da Ffwebmagazine del 12/08/10
Diceva Marcuse che «il lavoro è la prassi specifica dell’esistenza umana nel mondo, con cui l’uomo diventa per sé ciò che egli è». Oggi assistiamo alla fine del valore sociale del lavoro? Se lo chiede, assieme ad altre interessanti questioni, Daniele Ranieri nel pamphlet Preferirei di no- Lavoro e condizioni di lavoro alle radici del XXI secolo. Il titolo riprende il detto dello scrivano Bartleby, nel racconto di Melville.
La debole governance globale dell’ultimo ventennio è alla base dello status quo. Crisi della democrazia e crisi del lavoro procedono quindi di pari passo. E negarlo sarebbe da sprovveduti. È altrettanto evidente che non si può abbozzare una soluzione al problema occupazionale senza riflettere sulla democrazia economica, sulle forme di partecipazione dei lavoratori. Ricordando Bruno Trentin, Ranieri dice che il lavoro è questione di identità e liberazione. Di conseguenza appare fondamentale «un diritto allo sguardo, cioè all’informazione, alla consultazione ed al controllo sull’oggetto del proprio lavoro, che ricomprende al proprio interno le dinamiche organizzative, il tempo delle singole attività, della formazione, sino al prodotto finale».
Nel libro vengono raffrontate vicende passate e presenti, modelli fordisti e quelli più attuali legati alla flessibilità delle risorse umane. Se il lavoro è una merce, il lavoratore è una persona integra, questo sarebbe utile tenerlo sempre a mente. La frase di Bartleby, «Preferirei di no», altro non è che il timore di trasformarsi in uno scarto produttivo, in una lettera morta. Ranieri riprende un’osservazione di Hannah Arendt, secondo cui pensieri e idee non sono solo autoriflessioni delle persone, ma la base delle relazioni umane. E la loro legittimazione è strettamente proporzionale alla diffusione da parte degli stessi uomini.
Quando tale processo, definito da Arendt di reificazione, viene stoppato o cassato, quell’idea resta come inespressa. Allo stesso modo, riflette l’autore, nel lavoro vi è l’apporto del lavoratore che, se viene a mancare, fa bloccare l’identificazione tra la persona e l’attività che svolge. Determinando di fatto un impoverimento sociale. Quello a cui si assiste quotidianamente nell’epoca della globalizzazione, della delocalizzazione, della elasticità dei rapporti e dei contratti.
Lecito chiedersi: che cosa rappresenta dunque il lavoro? Fonte di disparità e sofferenze? O realizzazione di un principio costituzionale? E’un’attività o una mera funzione Heideggeriana? E ancora: il lavoro serve per concretizzare un reddito o per formare una persona? Oggi continua ad essere il «principale contenitore dove concimare identità sociale, strutturando la propri esistenza». Il libro si dirama in due parti. Nella prima ci si affaccia in una panoramica sulla concezione del lavoro nelle differenti società: greca, romana, cristiana, medievale, luterana. E nella seconda si affrontano i nodi sociali che con il lavoro sono legati a doppia mandata, come la felicità, la realizzazione intima, la convivenza d’insieme.
Proprio Lutero scrisse che «la vita non è riposo, ma trasformazione del buono in meglio. Questo è il compito del lavoro che già in sé è grave». Esprimendo un distacco evidente dalla concezione ellenica che puntava invece più intrinsecamente sul senso di civilizzazione. Un’interessante fonte di riflessione si ritrova proprio nella considerazione che del lavoro aveva la società antica. Come l’uomo zoon politikòn di derivazione Aristotelica, sino alle differenze linguistiche tra latini, francesi, tedeschi che chiamavano il lavoro rispettivamente opus, travaille, werk. Diceva Aristotele che «non è possibile esercitare la virtù quando si fa la vita di un artigiano», in quanto egli non ha tempo libero, dipende dal suo lavoro e dai clienti. Tale condizione di dipendenza economica altrui non lo rende adatto alla piena cittadinanza ellenica. È utile ricordare, inoltre, che il termine economia, dal greco oikos (casa) e nomos (legge) fa riferimento al concetto di ambito familiare, quell’insieme di principi per la regolamentazione domestica. Ranieri conduce il lettore all’interno di un approfondimento irto di quesiti, che stimolano diagnosi precise.
Provando ad abbozzare una qualche risposta, si potrebbe perchè no riprendere il doppio principio ellenico citato. Quello che parte da un sentimento amministrativo familiare, per giungere ad un lavoro che non si risolva nel semplice strumento per ottenere un salario. Ma che, facendo tesoro anche dello spunto di Heidegger e della Costituzione italiana, così qualifichi il cittadino nella sua professione. Al di là di classificazioni più o meno ideologiche, Ranieri conclude con un inno alla lungimiranza. Perfino troppo facile sottolineare come il lavoro sia il frutto di una qualche programmazione a lunga gittata, priva della spasmodica attenzione al quotidiano. Slegata da logiche momentanee. E non per una non tanto velata tendenza al futuro, quanto per un’oggettiva logica razionale.
Lo stesso Gramsci, nei Quaderni, ammoniva che «prevedere non significa sapere quello che avverrà, ma fare in modo che avvenga, cioè predisporsi a progettare il futuro”. Anche il comico Groucho Marx aveva a cuore il futuro, quando sosteneva: «Per il futuro serve ricordare il passato, così almeno non ripeterai gli stessi errori: ne inventerai di nuovi». Due modi, diversi ma convergenti, di rimarcare che l’autoingannamento del presente, quello per intenderci dei paracocchi, della condizione ottusa dovuta alla contingenza, altro non fa se non disarmare gli interpreti. Spogliarli della forza necessaria a gridare «preferirei di sì», anziché mestamente «di no», come lo scrivano Bartleby nel raccolto di Melville.
Daniele Ranieri
Preferirei di no
Edizioni Ediesse 2009
160 pp. 10,00 euro
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