giovedì 7 giugno 2012

Diritti, doveri, solitudini e partecipazioni. Cosa resta delle “altre” schiavitù nel mondo?

Finché il colore della pelle di un uomo non avrà più valore del colore dei suoi occhi, finché i diritti umani fondamentali non saranno ugualmente garantiti a tutti; fino a quel giorno il sogno di una pace duratura, la cittadinanza del mondo e le regole della mora¬le internazionale resteranno solo una fuggevole illusione, perseguita e mai conseguita». Sono le parole pronunciate nel 1963 dal sovrano etiope Haile Selassie I in un discorso nel palazzo di vetro dell’Onu. Diritti, colori, morfologie, etnie. E ancora: doveri, convivenza, regole, comunioni. Pietre che ancora oggi, dopo mille e più progressi sociali, sono in parte irrisolti e desiderosi di buone nuove per eliminare le schiavitù, fisiche e mentali, che esistono nei mondi. Il sette giugno di 150 anni fa Stati Uniti e il Regno Unito giunsero a un accordo per la soppressione della tratta degli schiavi, anche se in assoluto il primo paese a proibirla fu la Repubblica Serenissima di Venezia nel 960 d.C. La prima breccia nel muro della schiavitù porta la firma di sette proposte di legge presentate da William Wilberforce dal 1792, mentre il 25 marzo 1807 fu approvato lo Slave Trade Act, che diede il “la” al vero processo di eliminazione graduale della schiavitù. A cui aderirono successivamente anche il Portogallo con un trattato del 28 luglio 1817 e la Spagna il 23 ottobre 1817. Un risultato figlio di mille traversìe. Ma alla luce di quell’anniversario, cosa rimane oggi nelle “altre” schiavitù dei continenti?

Schiavo, nell’era della post modernità e della globalizzazione galoppante, fa rima con cittadino passivo. Quello che subisce senza battere ciglia le imposizioni di un sistema malato e deleterio. Quello che non vede riconosciuti i propri diritti, ma che deve piegare la testa di fronte ai giganti che tramortiscono tutto dovunque passano. Quello che non può eleggere il proprio parlamentare, quello che deve cercarsi una cricca per sperare di fare carriera. Schiavo oggi è chi non può esercitare completamente la propria libertà. Quindi chi è fuorviato nella composizione di una pubblica opinione da media inveritieri e invasivi, chi non ha maturato la consapevolezza di dover confutare le tesi, ascoltando attentamente le antitesi. E giungere così alla soluzione del problema in questione.

 Schiavo è chi non ha accesso alla rete e ai social network a certe latitudini del globo dove i quattrini si spendono solo in armamenti e approvvigionamenti energetici, mortificando l’elemento umano. Deprezzandolo e inquadrandolo in un bieco alveare produttivo, come quei bimbi che cuciono palloni da calcio per pochi spiccioli al giorno. Schiave sono quelle mamme che non possono tentare altre vie per avere un figlio, perché alcune leggi lo impediscono in Italia: e innescando un meccanismo di reazioni a catena assurde, non solo medico-scientifiche, ma soprattutto sociali ed emozionali. 

Schiavi sono quegli individui che non possono scegliere come farla finita, perché lo stato ha deciso di essere etico fino in fondo con tanti saluti all’autodeterminazione dell’individuo. Schiave sono quelle coppie che temono di passeggiare in alcune strade d’Europa, perché l’ombra del razzismo giudica i gusti sessuali dei singoli; un vento che spira da nord a sud, passando (nel belpaese) per un fazzoletto di terra che non esiste. E dove qualche imbecille con la pochette verde nel taschino ha deciso di piazzare una bandiera di uno stato che c’è solo nei cda delle municipalizzate. 

Schiavo è quel cittadino nato in Algeria che lavora regolarmente in Italia e non può vedere in mano al figlio generato qui una carta di identità di questo paese. Perché quel paese continua a essere a sua volta schiavo. Di se stesso, del suo immobilismo e di un futuro che si rifiuta di abbracciare.
 
Fonte: il futurista quotidiano del 7/6/12
Twitter@FDepalo

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