lunedì 11 giugno 2012

Grecia, un voto contro la dittatura tecnocratica


Che stato è un paese che aumenta del 10% il prezzo del souvlaki, (il piatto nazionale, come in Italia la pizza) e lascia praticamente illibate le multinazionali e i patrimoni stipati in Svizzera che ammontano a 600 miliardi di euro (il doppio del debito attuale)? La Grecia del quasi default, che taglia (grazie al memorandum della troika) il 20% a pensioni e salari, si affaccia alle nuove elezioni con una macroscopica contraddizione, interna e esterna. La prima è data dai due partiti che hanno firmato il piano salva Ellade, i conservatori di Nea Dimokratia e i socialisti del Pasok. Che, oggi, pur aprendo alla possibilità di migliorare quel piano, non hanno ancora spiegato agli elettori perché lo hanno accettato a quelle condizioni, capestri per il ceto medio e per i meno abbienti, ininfluente per i paperoni dell’Acropoli che si arricchiscono ulteriormente alle spalle dei dieci milioni di greci costretti a un radicale cambio di vita. E dal di fuori la mancata comunicazione su cosa è realmente accaduto al paese di Socrate e Pericle, come mai nessuno, ad esempio, indaga sui duemila miliardi che dal’Egeo si dirigono verso i paradisi fiscali di mezzo mondo, perché la Chiesa non ha mai pagato un centesimo di tasse (i sacerdoti non ricevono lo stipendio dalla Curia, ma dallo stato), perché i beni sequestrati a chi commette reati contro la pubblica amministrazione non vengono immessi nell’erario, come mai nessuno ha controllato dove andavano e come venivano spesi i fondi europei. Con il risultato che, nell’anno della paventata tragedia del calendario Maya, nel Mare Nostrum sta andando in scena la vera la crisi del secolo, peggio di una guerra o di un’epidemia: perché a rischiare è un continente intero chiamato a un bivio, rinnovarsi o morire.

Unione europea, ultima chiamata. Le elezioni a cui la Grecia è chiamata il prossimo 17 giugno hanno una doppia valenza: da un lato tentare di salvare ciò che resta di un’unione che, tale, è solo sulla carta e nella geografia delle grandi banche; e dall’altro impedire che la frusta europea che si è abbattuta su una popolazione intera, ad eccezione delle multinazionali del petrolio e delle finanza, possa lasciare sul campo morti e feriti. E soprattutto un paese che il giorno dopo la fine del piano della troika sarà “svendibile” in quanto senza più un grammo di energia propria. Al centro dell’Egeo la speranza di cambiamento al momento si dice abbia un solo nome: quell’Alexis Tsipras a capo di una coalizione di sinistra radicale che non solo ha messo sul tavolo un programma altamente innovativo, politico ed economico (pubblico registro per gli appalti, trasparenza finanche nei conti della Banca nazionale della Grecia, industrializzazione del paese, salvaguardia di prodotti nazionali, tassazione delle rendite finanziarie). Ma che sta basando la sua campagna elettorale su un semplice ragionamento: come si fa a ridare fiducia alla stessa classe dirigente che ha prodotto l’attuale debito della Grecia? Che ha impiegato dieci anni per costruire l’unica arteria stradale che collega il paese da nord a sud? Che solo dopo trent’anni si è accorta della presenza di gas metano nell’Egeo? Che ha consentito praticamente a tutti di aggirare leggi e regolamenti grazie a mancati controlli? Che ha acquistato dalla Germania un sottomarino che pendeva a destra? Che ha speso per le Olimpiadi del 2004 più di quanto avrebbe incassato se ne avesse organizzate cinque edizioni di seguito? Che non ha fatto luce su scandali come le tangenti del colosso tedesco Siemens? Che ha favorito il più alto tasso di corruzione dei paesi Ocse?

Ecco la tragedia “greca”: una politica che per anni si è basata sull’illusione effimera del tutto possibile per tutti, che non ha investito in infrastrutture e tessuti industriali, che ha consentito ai ricchi di diventare sempre più ricchi e agli altri di giungere a questo punto: a un passo dall’Ade. Uno scenario delicatissimo sul quale si staglia un altro elemento: il voto di “pancia”, verso l’onda xenofoba di Alba dorata, il partito nazionalista che dopo 40 anni per la prima volta ha fatto ingresso in parlamento. Quel 7% conquistato un mese fa la dice lunga sullo stato d’animo degli elettori: stufi di promesse, di contingenze irrisolte. Che si sommano al 40% di astenuti: non solo record europeo, ma segnale allarmante di uno sfascio a un passo.

Con, a fare da contorno, prima il premier italiano che si dice ottimista (“Gli eurobond diverranno una realtà e la Grecia manterrà la moneta unica”). E, nelle stesse ore in cui Monti rilascia quell’intervista al quotidiano ellenico To Vima, la “doccia fredda” della Bild, secondo cui “per la Grecia è ormai tempo di abbandonare l'euro”. E aggiunge: “Qualcuno tra i leader dell'eurozona dovrebbe finalmente dire ai greci la verità – scrive Blome - questo nuovo inizio può essere raggiunto con un primo passo radicale e questo significa lasciare l'euro”. Oppure, aggiungiamo, che a farla franca non siano sempre e solo i soliti noti, protetti da un sistema in cancrena, con vergognose mercificazioni umane e di anime. Che chiedono solo il dovuto: vivere in una democrazia che non assuma le sembianze di una dittatura tecnocratica.

Fonte: Gli Altri settimanale del l’8/6/2012
Twitter@FDepalo

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