venerdì 22 giugno 2012

«Qualcuno ha fatto il falco solo per guadagnarci. Adesso ripartiamo da cittadinanza e diritti civili»

Ma non sarà che qualcuno nel partito «ha fatto il falco solo perché da quello scatto in avanti c’era da guadagnare qualcosa?» Se lo chiede il deputato di Fli Enzo Raisi.
Il vero scandalo in Fli è l’apertura contenutistica e anti ideologica (come il gay pride) o l’appoggio al governatore Lombardo?
Certamente la posizione del partito in Sicilia mi sembra incoerente con molte delle battaglie portate avanti in questi anni, a cominciare da quella sulla legalità. In più qualcuno ha posto sul tavolo la questione dell’appoggio a Monti di cui magari qualche scelta si potrà anche discutere. Ma il sostegno al governo in questa fase è cosa da responsabili. Così inseguiremo le riforme, non abbandonando il premier. Se Fli volesse portare avanti veramente uno sforzo costruttivo dovrebbe pungolare a fare di più, non di fuggire e lasciarlo solo.
Quindi nessuna bivalenza decisionale?
Affatto. Mi viene in mente il caso sardo, dove Fli appoggia Cappellacci, uomo di Berlusconi. Tutto ciò sconcerta, se non altro perché Fli ha scelto di non stare al governo col Pdl. E poi in alcune realtà locali...
C’è il rischio che chi vuole dialogare con tutti in virtù di un’evoluzione politica e ideologica debba poi scontrarsi con chi, alla fine, vorrebbe An in sedicesimi?
Quel voto, aennino o missino, che qualcuno va ancora cercando, semplicemente non esiste più in virtù di una serie di cambiamenti, anche storici. Oggi vi è un grande bacino di voti e di elettori alla ricerca di un punto di riferimento che non si vogliono ade¬guare ai vecchi partiti non riconoscendosi più in quella guida. Interloquire con questa società civile significa non ridursi ad inseguire piccole battaglie politiche, magari d’annata. Un partito diventa partito di governo quando riesce a rappresentare le esigenze sociali della gente.
Fli lo ha fatto?
Solo nel momento della sua nascita, quando ha fatto qualcosa contro le singole corporazioni ma per una visione comune e di ampio respiro. Rinchiudere all’interno della pentola un confronto costruttivo di idee non è cosa buona e giusta, soprattutto se poi si aspetta che arrivi qualcuno a togliere quelle castagne dal fuoco. Alla fine si rischia che tutto scoppi. Penso a quei custodi dello statalismo piuttosto che della libera economia, scopro che dei giovani non interessa più a nessuno. Un panorama che mi lascia interdetto.
Il cambiamento, prima tanto invocato poi, nei fatti, fa paura: perché?
Non ho elementi per certificarlo. Ma certo resto perplesso quando qualcuno, che una volta si considerava falco, lo faceva perché c’era qualcosa da guadagnarci da quello scatto in avanti. Inutile tornare indietro nel tempo, ci si farebbe solo del male.
Emblematico il caso di Lo Monaco, in Sardegna, epurato dal coordinatore Artizzu per la sua adesione al gay pride: i diritti civili sono ancora un tabù allora?
Conosco il caso sardo per le posizioni ufficiali che ho letto. Al di là delle due versioni, quando ho visto che Artizzu si è schierato così decisamente contro le coppie di fatto, ho capito che non c’era sintonia fra i due. Trovo straordinario in senso negativo il fatto che, dalla sera alla mattina, un coordinatore regionale decida di alterare la propria classe dirigente.
Come impedire che i passi in avanti compiuti sino a oggi possano essere vanificati da “sindrome da strapuntino” e paura del mare aperto?
Ho grande speranza che Fli possa recuperare la sua vocazione iniziale. Come? Andando a rivedere gli spunti che Fini ha pubblicamente espresso sin dall’inizio su tutti i temi all’ordine del giorno (e non) della politica. Come la cittadinanza agli immigrati e i diritti civili. Forse qualcuno se ne è dimenticato.


Fonte: il futurista quotidiano del 22/6/12

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giovedì 21 giugno 2012

Grecia, Samaras premier. Condurrà il paese a nuovi sacrifici

Ha ricevuto la benedizione ufficiale dell’Arkipiscopos di Atene il nuovo premier greco: è Antonis Samaras, leader del partito conservatore di Nea Dimokratia, uscito vincitore delle urne di domenica scorsa e a capo di un esecutivo di salute pubblica per evitare la bancarotta della Grecia, dare attuazione al memorandum della troika e tranquillizzare i mercati (anche la Deutsche Bank ha detto che ormai “ragiona” come se la Grecia fosse già fuori dall’eurozona). Decisivo l’appoggio del democratico Fotis Kouvelis, a capo del partito di centrosinistra Dimar (i socialdemocratici fuoriusciti dalla Syryza) che con il suo 6,26% conferirà appoggio esterno al governo greco. La lista dei ministri è quasi pronta. Ma il nuovo governo greco non potrà – come sia Samaras sia Venizelos avevano promesso agli elettori al foto finish della campagna elettorale – rinegoziare il memorandum della troika: ma attuarlo da subito, con tutto ciò che esso comporta, ovvero la sollevazione popolare di chi, con mutui a tassi variabili, nuclei familiari in cassa integrazione, passerà da una vita normale alla soglia della semi povertà, come i dati dell’istituto di statistica ellenico dimostrano, con il record europeo di bambini sottopeso ad Atene.

Quindi entro settembre altri 150mila dipendenti pubblici verranno licenziati, le pensioni minime continueranno ad esibire i parametri attuali da Terzo mondo, non ci sarà alcun piano Marshall per la ripresa economica e per una minima reindustrializzazione del paese, e i paperoni dell’Acropoli non saranno intaccati da alcuna misura (come la patrimoniale sui redditi superiori a 300mila euro proposta da Tsipras). Per questo il leader del Pasok Venizelos, già a urne ancora calde, aveva invocato un governissimo con tutti, Syriza compresa, che si “sporcasse” le mani e si prendesse carico di spiegare ai cittadini come muterà la loro quotidianità. Perché nei fatti il piano di Bce, Ue e Fmi se da un lato conferirà alle casse dello Stato la liquidità necessaria per andare avanti, dall’altro potrebbe dare il definitivo colpo di grazia a un paese in ginocchio.

Dai corridoi della sede di Nea Dimokratia infatti, la soddisfazione post-elettorale è stata solo apparente. Perché la patata bollente che “Mister Tentenna” Samaras (così come lo chiamano per la sua proverbiale capacità di non decidere) ha in mano potrebbe bruciare tutto il circondario, compromettendone anche le future chanches politiche oltre che la stabilità stessa dell’eurozona: nessuno sa infatti quanto durerà questo governo, se sarà in grado di assicurare almeno un triennio di stabilità senza rischi di scivolate improvvise. Tsipras, leader della Syriza (la “sinistra-sinistra”) dal canto suo ha annunciato che resterà all’opposizione perché contro il memorandum, e perché avrebbe voluto imboccare un’altra strada rispetto all’accettazione coatta dei diktat europei o rispetto all’uscita dall’eurozona: quella rinegoziazione del piano che, così come stanno le cose oggi, ovvero con questo governo pro-troika, non ci potrà essere. Lo ha anche ribadito il presidente dell’eurogruppo Jean-Claude Juncker: “Non si possono apportare modifiche sostanziali al programma di aiuti alla Grecia e non ci possono essere nuove negoziazioni”.

Tornando a Kouvelis, il segretario del Dimar ha incontrato Venizelos più volte, gettando le basi per le procedure accelerate. L’accordo “a tre” è stato chiuso per un governo a lungo termine con durata almeno fino al 2014, anche se Venizelos parlava di 2017. Le iniziali perplessità del Dimar erano frutto della cosiddetta “sindrome Karatzaferis” dal nome del leader del partito nazionalista del Laos (fuori dal parlamento per aver raccolto solo l’1,58%). Ovvero la disposizione a sostenere il governo, non con i politici, ma con personalità della più vasta area possibile.

Ma ci sarebbero da tenere d’occhio anche quei ceppi dei tre partiti (possibili futuri franchi tiratori) che non vedono di buon occhio la partecipazione a un governo con così tante responsabilità e con alte probabilità di un fallimento politico ed elettorale, oltre che finanziario. Non dimentichiamo che, come molti analisti hanno rilevato, l’allarme in Grecia da rosso è diventato, momentaneamente, arancione. E potrebbe presto tornare su quel colore che segna il pericolo, visto il sesto anno di recessione consecutivo e una politica che al di là di denari immessi nelle casse dello stato (fisiologicamente bucate da sprechi e corruzione diffusa) non sta al momento tentando di tappare quei buchi.

Pare che al vertice notturno del Pasok abbia partecipato anche l’ex primo ministro Papandreou assieme a membri dell’esecutivo a top manager (tra cui K. Skandalidis, Loverdos, Anna Diamantopoulou, Gennimata Fofi, P. Efthymiou, M. Androulakis, Mich Chrysochoidis) trasmettendo lo stato d’animo di Samaras: ovvero dare più spazio possibile ai tecnici. Sia perché più competenti dei politici, sia perché ci metterebbero la faccia proprio al posto della casta ellenica. Quella che ha prodotto la situazione attuale (prossimo bilancio in rosso di 11 miliardi e rotti) e che è la stessa che ora vorrebbe tentare di risolverla.

Fonte: Il Fatto Quotidiano.it del 20/6/12

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mercoledì 20 giugno 2012

Atene: i nuovi poveri

Che succede a un paese che taglia stipendi, pensioni, indennità, servizi e di contro aumenta l´iva al 23%, porta la benzina a due euro al litro e rende perfino la spesa settimanale una "roba da ricchi"? Che le sacche di povertà diventano lenzuolate infinite, che il ceto medio viene drammaticamente schiacciato sotto il peso di misure che incidono finanche su beni di prima necessità come il pane o il latte, che il numero dei senzatetto aumenta al pari di quello dei bambini sottopeso (dati Ocse). Nella Grecia che cerca di trovare la quadra di un governo presentabile e dignitoso (la tredicesima fatica di Ercole, per intenderci) oggi c´è stato un fatto che fotografa alla perfezione l´intimità di un paese e le angosce dei suoi abitanti.

Centinaia di persone si sono radunate dalle prime ore di questa mattina ad Atene nell´area del Campo Marzio al fine di ottenere gratuitamente frutta e verdura. Infatti la Cooperativa cretese Agricola "East" di Ierapetra, in collaborazione con il Comune di Atene, ha distribuito 2.500 scatole di prodotti (melanzane, cetrioli, pomodori e peperoni) - in confezioni da 10 kg - per le famiglie povere registrate dal Dipartimento delle politiche sociali della città. E subito si è formata una fila impressionante con gli addetti del comune a smistare con ordine per impedire disordini.

Alimentazione e salute: oggi sarà una giornata delicata non solo per le sorti politiche ma anche per un´altra grande questione in Grecia di cui pochi hanno parlato. I farmacisti che hanno maturato credito milionari con lo stato e che attendono risposte per non lasciare i cittadini senza farmaci. Nella regione dell´Attica i farmacisti continuano a non somministrare medicinali a credito ai membri del Eopyy (la cassa che passa i medicinali ai cittadini sotto forma di mutua). Ma il movimento panellenico Pharmaceutical Association definisce la posizione dell´Eopyy "sostanzialmente e formalmente illegale" e ribadisce la sua posizione: intendono essere compensati per le ricette eseguite durante il mese di giugno altrimenti ci sarà un´altra dura mobilitazione.

Poche settimane fa un altro colpo era stato inferto alla Grecia tecnicamente già fallita (a proposito, ieri la Deutsche Bank ha ammesso pubblicamente che ormai ragiona come se l´Ellade fosse fuori dall´eurozona): il prezzo del souvlaky, il piatto nazionale come in Italia la pizza, in Francia la crepes o in Germania il wurstell, è stato maggiorato del 10%. Un crimine lamentano i cittadini, quelli che assistono inermi all´evoluzione della vita dei propri figli: la generazione dei 30enni che, se non disoccupati (il 50% lo è), guadagna in media seicento euro al mese, magari con un muto a tasso variabile sulle spalle. E con la decisione di trasferirsi in provincia dove la vita è meno cara della proibitiva Atene, "appoggiandosi" materialmente e finanziariamente sulle spalle dei genitori. Fino a quando?

Fonte: Formiche del 20/6/12
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martedì 19 giugno 2012

Grecia, non ci sarà tempo per trattare


Per scongiurare l’eurocrac, della Grecia e del continente, non sarà sufficiente solo avere un governo stabile in Grecia. Ma servirà anche competenza e franchezza, i due fattori che fino a questo momento sono stati i veri latitanti, e non solo sotto l’Acropoli. Perché chiunque sarà premier dovrà rinunciare alla rinegoziazione del memorandum della troika, quello che concede liquidità a un paese in apnea (l’erario ha disponibilità in cassa fino al 30 luglio) in cambio di una manovra lacrime e sangue. Sia perché Angela Merkel lo ha escluso, sia perché non vi sarebbe il tempo materiale per aprire un nuovo negoziato.

La giornata decisiva potrebbe essere giovedì, quando in occasione della riunione dell’eurogruppo si definirà (o meno) l’erogazione del resto della rata di maggio da un miliardo di euro. Ovvero quei denari che impedirebbero al paese di fermarsi: utili per pagare stipendi e pensioni, per saldare le forniture di garze e materiali sanitari ad ospedali che non ne hanno più (costretti a chiederli in prestito ad altri nosocomi), per pagare gli arretrati a farmacisti che attendono 70 milioni. Oltre a bollette pubbliche di luce, gas e acqua. Sarà quello il confine tra l’Ade di un paese e la continuazione di una vita normale per i cittadini greci. Ma solo se ci fosse un governo, che si dice potrebbe nascere oggi (in queste ore si stanno svolgendo vertici, ufficiali e non).

Tralasciando per un momento gli aspetti prettamente politici, il nuovo esecutivo greco dovrebbe accettare in toto il memorandum, in quanto comunque non ci sarebbe abbastanza tempo poi per negoziare con la troika quel piano, ballano infatti 25 miliardi per la ricapitalizzazione delle banche. Pena le casse dello stato vuote. I dati sono contenuti in un dossier già sistemato sulla scrivania di chi sarà il nuovo ministro dell’economia, che avrà da risolvere un problema non da poco. Denaro pubblico da un lato e secondo tempo della ricapitalizzazione delle banche dall’altro. Bruxelles e Washington hanno confermato che la Troika è pronta a tornare ad Atene con i propri emissari per certificare (ancora?) la situazione finanziaria. E concordare la base su cui discutere la prima revisione del nuovo programma di politica economica.

Fonti del ministero delle Finanze non escludono che il ministro uscente, Zanias, possa affiancare, se necessario, il nuovo ministro a Lussemburgo per il primo contatto con i loro omologhi. In ogni caso Zanias consegnerà al nuovo ministro un dossier (approntato già da un mese) destinato al Lussemburgo con numeri scioccanti. Ciò che la politica greca non dice ai cittadini, dunque, è ciò che accadrà un attimo dopo della nascita dell’esecutivo: le promesse fatte agli elettori di rinegoziazione del piano non potranno essere mantenute da nessuno dei partiti che sosterranno il governo di unità nazionale in Grecia. Perché, proprio per evitare che il paese resti senza soldi e in virtù dei tempi stretti, quel miliardo arriverà ad Atene entro il 30 luglio (assieme all’assicurazione degli altri 25) solo con il “sì” immutabile della Grecia al memorandum.

A ciò si aggiunga che il consiglio europeo di fine mese potrebbe disporre l’unificazione fiscale e dare il via libera agli eurobond. Ma nella consapevolezza che nessuno di questi (come di altri) provvedimenti risulterà decisivo se non vi sarà una rete infrastrutturale di regole e controlli incrociati di vigilanza europea, anche e soprattutto sulle banche. Quella che è mancata non soltanto ad Atene, ma anche a Bruxelles. Perché se così fosse, se si continuasse a navigare a vista, allora avrebbe ragione Paul Krugman che dalle colonne del New York Times ha detto: “Ora potranno portare avanti politiche fallimentari che non funzionano e Atene uscirà ugualmente dall’euro”.

Fonte: Il Fatto quotidiano del 19/6/12
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lunedì 18 giugno 2012

Grecia, vince l'austerity

Impasse o biscotto? Le (seconde) elezioni in Grecia su cui tutto il mondo ha messo gli occhi potrebbero non avere un esito scontato. Primo partito i conservatori di Nea Dimokratia con circa il 30%, che al momento porta quattro punti percentuali di vantaggio rispetto alla coalizione delle sinistre radicali del Syriza, guidate dal giovane Alexis Tsipras. E che ha annunciato di essere intenzionato a formare in tempi rapidi un esecutivo. In base al premio di maggioranza infatti potrebbe farlo con il Pasok: avrebbe almeno 130 seggi in Parlamento, a cui ne mancherebbero solo venti per “sfondare” quota 150. Ovvero proprio i 33 dei socialisti, il cui leader Evangelos Venizelos ha però dichiarato che al momento tocca al Syriza “fare il governo” assieme a ND. Non solo: l’ex ministro dell’economia dell’esecutivo Papandreou ha aggiunto che il presidente della repubblica Karolos Papoulias dovrebbe convocare tutti i partiti presenti in parlamento e affidare un mandato comune. Un modo per tirarsi fuori dai giochi? Certamente una mossa pericolosa che potrebbe innervosire ulteriormente i mercati e ritardare la stabilità politica nel paese e nell’eurozona.

Alle loro spalle gli stessi quattro partiti che lo scorso 6 maggio hanno fatto il loro ingresso nella Voulì: gli Indipendenti di Kammenos al 7,6%, i nazionalisti di Alba dorata al 7%, la sinistra democratica (Dimar) di Kouvelis al 6,2% e i comunisti del Kke al 4,5%. Se fossero solo i numeri a dettare l’agenda politica greca i giochi sarebbero fatti. Con i due blocchi bipolari di conservatori e socialisti che avrebbero le carte in regola per comporre un esecutivo di larghe intese. Ma al momento nulla è certo nella canicola ateniese, in quanto lo stesso Venizelos non ha fornito aperture al collega Samaras. Quest’ultimo non è andato al di là della rivendicazione della vittoria (su cui qualche deputato del Syriza getta ombre di ipotetici brogli) che però paradossalmente potrebbe non segnare la fine del caos ellenico.

Un’ipotesi è quella dell’accordo: Nea Dimokratia riesce a trovare la sintesi con il Pasok su un nome terzo, anche una figura di spessore trasversale dal momento che il leader conservatore Samaras non è particolarmente amato e potrebbe individuare la luce in fondo al tunnel solo puntando su un altro cavallo. Soluzione che, comunque, avrebbe l’effetto immediato di sedare le ansie delle cancellerie continentali per dare seguito al memorandum della troika. Ma che lascerebbe senza risposta alcune questioni relative proprio all’impatto del piano di Bce, Fmi e Ue: con il paese in recessione per il sesto anno consecutivo, la disoccupazione record al 22%, i suicidi da crisi a quota 252. “Siamo il primo partito: è venuta l’ora di formare un governo di unione nazionale pro-euro per uscire dalla crisi”, ha detto Dora Bakoyannis, rientrata nell’ovile del centrodestra dopo la parentesi indipendentista. Inoltre Tsipras ha confermato la sua indisponibilità a governare assieme ai “firmatari” del memorandum: in quanto soluzione che aggrava la criticità ellenica. “Il futuro non cambia con metodi che non funzionano”, ha detto.

Prima però si era congratulato telefonicamente con il vincitore ricordandogli che “la Grecia ha urgentemente bisogno di un governo”. Il punto è proprio questo: e se si ripresentasse il medesimo scenario di un mese fa con quattro partiti incapaci di accordarsi? L’Europa questa volta avrebbe la forza di attendere?

Fonte: Il Fatto Quotidiano del 17/6/12
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Ma la devastazione non si fermerà

Il sogno di una Grecia che spinge per la ristrutturazione dell’Unione senza piegare la testa sembra infrangersi sul muro del risultato elettorale. Evitabile solo se non vi fosse un accordo tra conservatori e socialisti. Al momento in cui scriviamo infatti il partito di Nea Dimokratia guidato da Antonis Samaras è in vantaggio di tre punti rispetto alla coalizione delle sinistre radicali del Syriza, guidate dal giovane Alexis Tsipras. Quello, per intenderci, che avrebbe voluto rinegoziare il memorandum con la troika siglato al ribasso proprio da conservatori e socialisti. Gli stessi che lo hanno votato lo scorso inverno, gli stessi che nelle ultime ore hanno ammesso che è duro da sopportare per il paese, gli stessi che hanno governato la Grecia ininterrottamente dalla fine del regime dei colonnelli ad oggi, gli stessi che non hanno mosso un dito per recuperare i 300 miliardi di euro ellenici custoditi in Svizzera. Dunque che abbiamo risolto al centro dell’Egeo? Che i ricchi resteranno tali e il resto della popolazione ellenica pagherà il conto della crisi.

Se i dati fossero confermati, il centrodestra risulterebbe primo partito, “vincendo” 50 seggi come premio di maggioranza. Quindi sarebbe sufficiente l’appoggio trasversale dei socialisti del Pasok per comporre un esecutivo di larghe intese in grado di disporre la prosecuzione del piano della troika. Quello che, se da un lato concede al paese la liquidità necessaria per andare oltre la fatidica data del 20 luglio (dal giorno successivo il paese non avrebbe più un euro in cassa), dall’altro prosegue nella devastazione sociale di ciò che resta della Grecia: dall’attuazione della strategia europea anti crisi ad oggi, infatti, le condizioni generali non sono migliorate. Anzi: taglio di altri 150mila dipendenti pubblici già il prossimo settembre, taglio del 20% su pensioni, salari e indennità; oltre all’introduzione di una serie di nuove tasse come i “karatzi” sulla casa. Misure indispensabili per “europeizzare” un paese in cui lo sperpero del denaro pubblico e l’evasione fiscale erano quotidianità, ma che pesano esclusivamente sul ceto medio e su quello basso: equiparati in questa tragedia che sta lasciando sul campo morti e feriti (oltre ai 252 suicidi da crisi). E, passaggio ancora più grave, senza intaccare minimamente le rendite di posizione dei Paperoni dell’Acropoli. Il riferimento è agli euro ellenici custoditi nei cantoni svizzeri a cui nessuno degli attuali leader politici ha chiesto conto, se si fa eccezione proprio per Tsipras.

La stampa internazionale si è divertita in questi giorni nell’epitetare il capo del Syriza come politico anti euro, senza approfondire un programma elettorale che prevedeva non l’uscita dall’eurozona bensì la rinegoziazione di un piano. Che, così com’è,  non risolve i problemi della Grecia ma li raddoppia, perché prevede solo tagli e nessuna misura per lo sviluppo reale e per l’abbattimento del vero cancro dell’Egeo, quella corruzione che ha fagocitato risorse e fondi europei senza limiti, col benestare di chi ha evitato controlli rigidi. Il rischio al momento è di un’ulteriore impasse, per via di un mancato accordo tra Nea Dimokratia e gli altri partiti. Ma la sconfitta non è solo del secondo e del terzo classificato, ma di un modo nuovo di fare politica in Europa che, a meno di clamorose smentite, non potrà essere applicato.

Fonte: Gli Altri del 17/6/12
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sabato 16 giugno 2012

Una faccia, una razza


Atene e Roma. Ieri la filosofia e il diritto; la polis e lo ius; Socrate, Aristotele e Pericle da un lato. Cesare, Costantino e Aquilio dall’altro: ovvero secoli di macro progressi socio-politici, grazie ai quali tutto il mondo contemporaneo si è abbeverato alla fonte della civiltà. Atene e Roma. Oggi il default e il rischio contagio, la corruzione e le cricche, le tasse e i suicidi da crisi. Altri (questa volta macabri) punti di contatto che si moltiplicano al centro del Mediterraneo, come se le due civiltà continuassero a perdersi in un viaggio ancestrale su binari paralleli. Legati dalla storia e dagli annali, senza soluzione di continuità. Alcuna. Da quel Mesogheios dove tutto ha avuto inizio, si fa ritorno nello stesso grande lago salato che bagna tre continenti per guardarsi allo specchio e scoprirsi fragili, senza coordinate e con gli squilibri sociali che dalla Grecia stanno arrivando (o sono già arrivati) in Italia. “Una faccia una razza” non è soltanto la vulgata affascinante che ogni Nikos o Yorgos o Panos ha pronunciato al turista italiano di turno. Non è solo quella voglia tutta mediterranea di incantevole ospitalità, di condivisione del poco o del molto che ognuno ha, o delle porte di una casa sconosciuta che si schiudono magicamente e con una facilità imbarazzante. Oggi quello slogan si è minacciosamente spostato più a ovest, armato di grossi artigli e cifre sprezzanti. E sta inficiando la vita di chi abita e vive su due coste della stessa lingua di mare. Che si scoprono uniti nell’abisso, accomunati da un passato glorioso e da un presente che sta diventando un incubo.

I suicidi ellenici da crisi sono 252: l’ultimo qualche settimana fa, quando un giovane imprenditore in apnea con le banche si è lasciato cadere dallo stretto di Corinto. A ciò si aggiunga che il paese è essenzialmente in un sistema di isolamento economico internazionale e le imprese di assicurazione di grandi dimensioni (Corface, Euler-Hermes) hanno cessato di assicurare le importazioni in Grecia, mentre le imprese soffocano, in quanto sono tenute a pagare le importazioni di cassa. Inoltre nel primo trimestre l'economia si è contratta del 6,5%, come emerge dalla seconda lettura del pil, dopo che la prima (effettuata 20 giorni fa maggio) aveva evidenziato un calo del 6,2%. Mentre in aprile la produzione industriale arretra del 2,2% rispetto all'anno scorso. Da un biennio in Grecia si risparmia drammaticamente sulla salute: il taglio degli stipendi, la riduzione delle pensioni e l’aumento dell’iva (record al 23%, con la benzina verde a due euro) ha prodotto un repentino cambio di abitudini. Ma non tra i Paperoni dell’Acropoli che già da tempo hanno messo al sicuro più di 300 miliardi di euro in Svizzera e a cui nessuno chiede conto, bensì tra la gente comune, la stessa che un bel giorno si è svegliata e si è trovata con i commissari della troika che compilavano il menù settimanale. E giù il consumo di carne, ridotta a una volta a settimana in media, con raddoppiato il numero dei senzatetto ad Atene e il numero dei bambini sottopeso (record nei paesi Ocse). 

E soprattutto meno cure. I cittadini preferiscono sottoporsi a infinite code alla mutua pur di evitare le visite private a pagamento. Con una serie di conseguenze a pioggia ben immaginabili, soprattutto nei casi più gravi dove la rapidità di una diagnosi risulta decisiva. Oggi quella spia si è accesa anche in Italia: oltre nove milioni gli italiani che nell’ultimo anno, per ragioni legate alla crisi economica hanno scelto di “tagliare” le cure sanitarie. Di questi meno di un terzo sono anziani, la metà milioni vivono in coppia con figli, e il 45% risiedono nel mezzogiorno. La fotografia è stata scattata dalla ricerca Rbm Salute-Censis. Ecco dunque il filone di “come la Grecia”, interessante parallelo anche perché c’è chi un anno fa lo aveva utilizzato come titolo di un libro e di una prospettiva. "Come la Grecia" (Fandango libri) è il pamphlet del giornalista greco Dimitri Deliolanes, da trent’anni corrispondente in Italia dell’emittente televisiva Ert. Che analizzava ciò che è stato in Grecia a livello politico, finanziario sociale per spiegare l’incubo dracma. E allertare i fratelli italiani: attenzione a non seguire le stesse orme, perché se così fosse la destinazione sarebbe purtroppo la stessa.

Quella meta, oggi, fa capolino all’orizzonte dei due mari, lì dove Ulisse prima di fare ritorno alla sua Itaca toccò più volte le coste italiane, lì dove un gruppo di guerrieri e sovrani fuggiti da Troia decise di scoprire nuove terre e costruire nuove civiltà. Scriveva Virgilio nell’Eneide: «Queste terre d'Italia e questa riva / vèr noi vòlta e vicina ai liti nostri, / è tutta da' nimici e da' malvagi / Greci abitata e cólta: e però lunge / fuggì da loro. I Locri di Narizia / qui si posaro; e qui ne' Salentini / i suoi Cretesi Idomeneo condusse; / qui Filottete il melibeo campione / la piccioletta sua Petilia eresse». Queste terre e quelle terre, ieri come oggi, sembrano intrecciate da un brutale scherzo del destino. Come se la passata onnipotenza degli antichi greci e degli antichi romani al momento si fosse capovolta. Per osservare, dal basso, ciò che un attimo dopo potrebbe accadere anche a chi, teutonici in testa, oggi si crede imbattibile.
   
Fonte: Gli Altri settimanale del 15/6/12
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Grecia al voto per evitare “l’eurocrak”

Come impedire “l’eurocrack”? Chissà se almeno oggi avranno deciso di fare un salto nella mistica Delfi. Lì, nel bel mezzo di un manto di migliaia di ulivi dove, secoli fa, si chiedeva un oracolo. Si dice che prima di partire per Troia anche Achille fosse salito su quel tempio. Oggi a Delfi sono attesi non tutti i partiti che domani ri-chiederanno il voto ai dieci milioni di cittadini ellenici, ma le persone comuni. Quelle che stanno pagando di tasca propria (con i suicidi da crisi che toccano quota 252) trent’anni di politiche miopi e di corruzione generalizzata, che non arrivano neanche alla seconda settimana del mese, che hanno ridotto il consumo settimanale di carne, che risparmiano addirittura sulla salute non sottoponendosi più a visite specialistiche, che fanno la fila in farmacia per medicinali che le casse dello stato non possono più pagare. Che avrebbero una montagna di domande da porre alla Pizia, a cui forse anche la stessa sacerdotessa farebbe fatica a rispondere (si pensi che ieri in un ospedale di Atene mancavano perfino le lenzuola).
La Grecia tecnicamente fallita domani sceglierà la propria guida: quella che dovrà, in un modo o nell’altro, impedire il crack di un continente intero. Dagli ultimissimi sondaggi si profila un testa a testa tra i conservatori di Nea Dimokratia, guidati da Antonis Samaras che lo scorso 6 maggio sono risultati il primo partito con appena il 18%, e l’unione delle sinistre radicali del Syriza con al comando il giovane Alexis Tsipras. Dietro tutti gli altri partiti, con i socialisti del Pasok di Evangelos Venizelos dati in caduta libera, già un mese fa avevano raccolto il 13%, rispetto al 30% delle precedenti consultazioni. Samaras e Venizelos hanno firmato lo scorso inverno il memorandum della troika, quello che concede liquidità a uno stato che non ne ha più, in cambio di sacrifici e tasse. 

Gli stessi due politici, però, oggi pur non sconfessando quel voto, lasciano intendere che il piano di Bce, Fmi e Ue è “duro”. In quanto prevede misure drastiche: taglio di altri 150mila dipendenti pubblici già il prossimo settembre (in Grecia ce n’era un numero spropositato), taglio del 20% su pensioni, salari e indennità; oltre all’introduzione di una serie di tasse che fino a prima non c’erano. Misure senza dubbio indispensabili, per “europeizzare” un paese in cui lo sperpero del denaro pubblico e l’evasione fiscale erano e sono quotidianità. Ma di contro senza intaccare le rendite di posizione dei Paperoni dell’Acropoli, i 300 miliardi di euro ellenici custoditi in Svizzera, i benefici della casta, i privilegi della Chiesa che in Grecia non paga un cents di tasse e addirittura carica sullo stato perfino lo stipendio dei sacerdoti. Il 37enne Tsipras invece propone: la rinegoziazione del memorandum con la troika, che oggi porta interessi stellari (si pensi che su 4 euro che arrivano da Bruxelles ad Atene, ben 3 vengono restituiti all’Ue come interessi); un pubblico registro degli appalti che oggi non esiste (si immagini dove arrivano i tentacoli del clientelismo in opere pubbliche e in tangenti); l’anagrafe degli eletti; la composizione del board della banca nazionale di Grecia al momento notizia per pochi intimi; la tassazione degli immobili ecclesiastici.

Ma la protesta e il cosiddetto voto di pancia sono dietro l’angolo, in quanto uno degli elementi costanti in questo momento al centro dell’Egeo. E non solo per l’elevato dato sugli astenuti (ben il 40%), quanto per il 7% raccolto dai nazionalisti di Chrisì Avghì, in italiano Alba dorata. Che in testa al proprio programma elettorale hanno inserito la confisca dei danari sequestrati a politici e amministratori colti in flagranza e consegnati all’erario, la realizzazione di un ordine dei medici che curi solo cittadini greci e non stranieri, la chiusura delle frontiere per impedire l’invasione degli extracomunitari (nella capitale se ne contano ufficiosamente tre milioni). Oltre alle ronde che, di fatto, già da qualche tempo hanno allestito ad Atene e Patrasso per garantire la sicurezza dei cittadini. A cui la politica semplicemente non dà più attenzione. Perché cocciutamente impegnata a salvare se stessa e i propri strapuntini all’interno di un palazzo ormai crollato.

Fonte: il futurista quotidiano del 16/6/12
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martedì 12 giugno 2012

Grecia, la crisi genera xenofobia

In Grecia non si combatte solo per impedire un fallimento finanziario, ma anche per quello sociale. L’intolleranza xenofoba arrivata con il vento del razzismo che dai Campi Elisi di Marine Le Pen è giunto fin sotto l’Acropoli. Il paese è chiamato a gestire l’emergenza umanitaria degli immigrati, si dice circa tre milioni su una popolazione complessiva di undici. Egiziani, afghani, thailandesi, iracheni in condizioni disumane e dal futuro incerto che arrivano in Grecia dalle frontiere settentrionali (spesso con un occhio chiuso da parte delle autorità turche) o via mare. Con i cittadini che si ribellano all’immobilismo delle istituzioni e con la cattiva politica che sguazza nella pozzanghera della protesta. Per spargere fiele xenofobo nel paese ellenico sull’orlo del default ecco le ronde che circolano in alcune città greche.

Sei attivisti di estrema destra sono stati arrestati per aver attaccato un gruppo di immigrati. Gli inquirenti li accusano di essere stati gli autori di una spedizione punitiva contro alcuni cittadini egiziani all’interno della loro abitazione, alla periferia di Atene. Una delle vittime, un ragazzo di 28 anni, è stata ferito alla testa e versa ancora in gravissime condizioni. I sei, fra cui una donna, sarebbero stati riconosciuti dagli aggrediti. Dopo aver distrutto due macchine e una motocicletta, hanno usato mazze e altre armi improvvisate per rompere le finestra della casa in cui vivevano gli egiziani. Dovranno rispondere di “gravi lesioni corporali” e violazione della normativa sulle armi. Dalle prime ricostruzioni emerge che gli arrestati farebbero parte di un gruppo i “rondisti”, che circolano da qualche mese in alcune città greche, Atene e Patrasso su tutte, e avrebbero fatto irruzione nell’abitazione di alcuni immigrati, picchiandoli.

Proprio la città costiera di Patrasso qualche giorno fa è stata teatro di una vera e propria guerriglia urbana: circa duecento membri del partito di destra Alba dorata (che alle scorse elezioni ha raccolto il 7% e dopo quaranta anni ha fatto ingresso per la prima volta in Parlamento) armati di spranghe di ferro e bastoni, con i volti coperti con caschi e cappucci, hanno marciato in strada, cantando l’inno nazionale e gridando slogan contro gli immigrati. Hanno poi attaccato la polizia e trasformato in un campo di battaglia il piazzale antistante la vecchia fabbrica di Piraiki Patraiki, dove attualmente trovano riparo alcuni extracomunitari. Il corteo dei nazionalisti si era radunato sulla strada Antheia, a circa mezzo chilometro da dove si era formato un capannello sulla costiera di Dyme per protestare contro l’omicidio di un 30enne cittadino greco avvenuto qualche giorno prima accoltellato da tre giovani afghani.

Il partito guidato dall’effervescente Nikolaos Mikalioliakos sta guadagnando sempre più le prime pagine delle cronache. Tre giorni fa il portavoce Ilias Kasidiaris ha aggredito due colleghi durante una trasmissione in diretta sulla tv Antenna, prima gettando un bicchiere d’acqua contro un deputato del Syriza e poi prendendo a schiaffi e pugni una deputata del Partito Comunista Kke. Il procuratore generale Eleni Raikou ne aveva ordinato l’arresto ma non essendo stato reperibile nelle prime 48 ore il provvedimento si è reso nullo.

Uno scenario preoccupante mentre il continente vive in fibrillazione questi giorni che separano la Grecia dal voto politico del prossimo fine settimana e dal futuro economico sempre più incerto e con il contagio ellenico di fatto già esteso a Spagna e Cipro. Senza dimenticare lo spettro del ritorno alla dracma che si allunga minaccioso. E mentre i suicidi da crisi toccano quota 252: ieri nell’elegante quartiere di Kifissia a nord di Atene un ingegnere 75enne si è sparato un colpo di fucile proprio dinanzi alla sua abitazione. Pare avesse raggiunto un’impasse finanziaria irreversibile. Come il resto del paese. Che fatica anche a garantire le cure ai malati di cancro. 

Fonte: ilfattoquotidiano.it del 12/6712
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«Costringiamo i partiti a un gioco nuovo. Solo così si salva ciò che resta dell'Italia»

«Non passettini miopi che i partiti hanno fatto fino a oggi e continuano a fare all'interno della loro sorprendente mediocrità. Ma rimettere in moto un sistema ex novo, - confida al futurista la politologa Sofia Ventura - producendo nuove alchimie e soprattutto con il ricambio di una classe dirigente imbarazzante e peggiore di qualsiasi possibile previsione». Per questo assieme a molti docenti universitari si è resa protagonista di un appello pubblico a favore del cosiddetto modello francese.

Appello al presidenzialismo: perché il modello francese potrebbe salvare l'Italia?

Ammesso e non concesso che qualcosa potrebbe salvare ancora il nostro paese, penso che una trasformazione contemporanea del modello di governo e quindi della competizione politica circa le regole elettorali, avrebbe la capacità di costringere i partiti e i relativi leader a sfidarsi in un gioco completamente nuovo che non conoscono. Rimettendosi in discussione. E non facendo i passettini timidi e miopi che fanno adesso e che hanno fatto sempre in passato. Ovvero, mi alleo con questo, poi con quell'altro e infine con un altro ancora. Passettini che fanno sì che, alla fine i partiti si girino attorno e più nulla.

Bensì?

Rimettere in moto ex novo l'intero sistema, innanzitutto producendo nuove aggregazioni e sperimentando nuove alchimie. Come accaduto in Francia nel momento in cui è stato adottato quel sistema. E salvando il bipolarismo. Oltre al fatto che il doppio turno ha l'effetto cosiddetto “bipolare”, vi è anche l'elezione diretta del presidente. Che, se fatta con il metodo francese, quindi doppio turno e ballottaggio, sostanzialmente produce due campi: e alla fine si costituisca una maggioranza attorno a un presidente e una minoranza attorno allo sconfitto. Con una direttrice di stampo bipolare.

E circa l'obiezione che questo bipolarismo produce coalizioni eterogenee che alla fine non funzionano?

In proposito ricordo il disastro del governo Prodi nel 2008. Ma in realtà con il sistema francese i partiti possono in qualche modo anche tenersi le mani libere, quindi non sono costretti ad andare alle elezioni con delle coalizioni vere e proprie. Al primo turno si misurano in una sorta di primarie, mentre al secondo turno vi sono desistenze quasi automatiche. Così si possono produrre aggregazioni maggiormente coese, soprattutto risultano favoriti i grandi partiti e penalizzati gli estremi e i più piccoli. Un sistema che nel lungo periodo porta al bipartitismo e alla semplificazione estrema dell'intero panorama.

Ogni anno si invocano le riforme, che puntualmente non si fanno: ma la crisi, prima che di idee e di azioni, non è a questo punto tutta della credibilità della politica?

Questa classe politica ha perso ogni tipo di credibilità. E continua a perderla anche di fronte all'occasione sulla quale noi firmatari dell'appello speriamo si possa fare qualcosa. Non vorrei in questa sede stilare meriti e demeriti di Pdl e Pd. Ma serve riconoscere che il primo ha fatto un passo avanti: proponendo il presidenzialismo. Lo ha fatto ben consapevole che tanto non si sarebbe andati da nessuna parte, lo ha fatto per opportunismo, lo ha fatto perché lo ha fatto. L'importante è che quel passo c'è stato. E così facendo ha accettato il doppio turno. Vedere oggi Bersani e il Pd impegnati a reperire mille scuse per non stare al gioco, non valutando se effettivamente si crea l'opportunità riformista, è uno spettacolo triste e deprimente. In quanto si tratta di personaggi che ci stanno conducendo verso il baratro perché non si sono impegnati a fondo per il bene del paese e a causa dei loro micro interessi di partito. Non so se per questo pagheranno mai pegno, ma me lo auguro. Lo considero un dato avvilente, frutto di un ceto politico sorprendente nella propria mediocrità e non mi riferisco solo agli Scilipoti ma a tutti i leader.

Veniamo al Terzo polo: cosa non è stato e cosa dovrà essere da oggi in poi?

Non è mai stato una vera alternativa. Perché nato sostanzialmente per difendersi dagli attacchi da campagna acquisti berlusconiana, diciamo per fare gruppo. Il percorso che ha intrapreso è stato un non-percorso in quanto, al di là dell'appoggio al governo Monti, non hanno avuto la capacità di proporre visioni politiche contro lo stato attuale. Continuando come un mantra a ripetere “siamo con Monti” ma evitando di abbozzare il dopo Monti. Se non sperando che in realtà il dopo Monti coincidesse con l'attuale Monti, concedendo loro di stare sul mercato politico. Anche se non hanno consenso, visto che persino Grillo ha più voti. È stata una triste esperienza politica, tutto prevedibile e tutto previsto. Credo che quando non si abbiano idee politiche il risultato sia esattamente questo. Lo certifico con grande rammarico perché ho creduto sin dall'inizio in quel progetto: Casini ha pensato furbescamente di sostenere il governo senza se e senza ma, e adesso non sa bene cosa fare; il Terzo polo si è anche oggettivamente sciolto. Per questo sono molto arrabbiata.

L'area riformatrice, dunque, come potrebbe procedere a fronte del cosiddetto nuovo bipolarismo dato da uno scenario che vede di qua Monti e di là Grillo?

Monti non ha un partito e non è una forza politica, quindi non credo che la mela sia spaccata così. Il premier non è neanche un leader politico quindi parliamo di un qualcosa che non esiste.

Anche se un eventuale partito di Monti verrebbe dato già ipoteticamente al 40% delle preferenze...

Ma credo che come non esiste oggi, quel partito non esisterà domani. Bisognerebbe pur metterlo in piedi e nessuno lo sta facendo. Personalmente in prospettiva vedo invece come unico contenitore in grado di sopravvivere il Pd. Perché ha strutture e interessi consolidati. Chiaramente giocherà un ruolo molto diverso a seconda dalla guida che avrà in futuro. Oggi Bersani non mi sembra capace di innovare veramente. Qualcosa forse potrebbe cambiare con Renzi. Poi c'è il grillismo, che mi preoccupa non poco. Dal momento che non mi sembra abbiano ben chiare quali siano le regole della democrazia. Al di fuori di questi interpreti, solo frattaglie varie. Lo stesso Pdl rischia di andare in pezzi. Per cui mi auguro che il Pd riesca a rinnovarsi perché l'unica forza capace di avere un futuro.

Fonte: il futurista quotidiano del 13/6/12

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Grecia, domenica si vota (di nuovo)


Antonis contro Alexis. Ovvero Samaras vs Tsipras. Conservatori vs radicali. La Grecia chiamata al voto il prossimo fine settimana per la seconda volta in un mese (con un aggravio di spese folli in tempi di crisi come questi) ha due sole strade dinanzi a sé: la conservazione o la scelta di un cambiamento, entrambe con i rischi che si portano dietro come massi ingombranti. I leader rispettivamente di Nea Dimokratia e del Syriza sono accreditati dai sondaggi come i maggiori candidati alla vittoria, con percentuali che oscillano per entrambi tra il 26 e il 30%.

Sarà dunque un testa a testa fino alla fine anche tra due personaggi profondamente diversi, che incrociano ogni giorno le lame con sullo sfondo il contagio ellenico verso le banche spagnole e cipriote, l´incubo del ritorno alla dracma che si staglia sull´Europa intera e i ragionamenti che si fanno a Bruxelles, per prepararsi ad un´eventuale uscita dall´eurozona. Antonis Samaras guida il partito conservatore che, assieme ai socialisti del Pasok, ha firmato il memorandum della troika. Quello che se da un lato sta assicurando la liquidità necessaria al paese intero, dall´altro lo sta oggettivamente affondando sempre di più nella quotidianità.

Con numeri da brivido: la recessione che non smette di mordere le caviglie della Grecia (sesto anno di fila), la disoccupazione record al 21%, i 251 suicidi da crisi, il turismo interno crollato dal 70%, il mercato delle auto fermo, i malati gravi che non riescono ad ottenere i farmaci da una mutua che non ha più disponibilità finanziarie, i farmacisti che attendono rimborsi dallo stato per centinaia di milioni di euro, il numero dei senzatetto ateniesi raddoppiato in un anno, il record nei paesi Ocse dei bimbi sottopeso nella capitale. Samaras alle scorse consultazioni ha raccolto un misero 18% pur essendo risultato il primo partito e anche in virtù di un tasso di astensionismo storico: il 40%.

Due punti più in basso la coalizione della sinistre radicali guidata da Alexis Tsipras, il 37enne che come primo punto del suo programma ha posto la rinegoziazione di quel memorandum. In quanto contrattato troppo al ribasso, con di 4 euro che da Bce, Fmi e Ue arrivano in Grecia, ben 3 già da restituire sotto forma di interessi. Uno squilibrio che ha portato il cosiddetto "voto di pancia" alle stelle, come dimostra l´exploit del partito nazionalista di Alba dorata, entrato per la prima volta dopo 40 anni in Parlamento e accreditato di un miglioramento sensibile. Dietro tutti gli altri, almeno nelle previsioni. I socialisti del Pasok pagano lo scotto di anni di governo in cui, nei fatti, è maturato il debito pubblico attuale, per via di politiche miopi, per la mancata lotta alla corruzione e all´evasione fiscale, con quei danari ellenici custoditi in Svizzera (circa 300 miliardi) che nessuno reclama, nemmeno con provvedimenti per fare cassa come lo scudo fiscale.

In mezzo la gente comune. Quella che sta subendo un taglio del 20% su pensioni, stipendi e indennità, quella che paga la benzina verde due euro al litro, quella che fa i conti con altri 150mila dipendenti pubblici licenziati il prossimo settembre, quella che ha ritirato il contante dai propri conti correnti bancari per paura di perderli, quella che in questi anni ha conservato sotto il materasso ben 200 milioni di euro in dracme. Mai convertite nella moneta continentale.

Fonte: Formiche del 12/6/12

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lunedì 11 giugno 2012

Grecia, un voto contro la dittatura tecnocratica


Che stato è un paese che aumenta del 10% il prezzo del souvlaki, (il piatto nazionale, come in Italia la pizza) e lascia praticamente illibate le multinazionali e i patrimoni stipati in Svizzera che ammontano a 600 miliardi di euro (il doppio del debito attuale)? La Grecia del quasi default, che taglia (grazie al memorandum della troika) il 20% a pensioni e salari, si affaccia alle nuove elezioni con una macroscopica contraddizione, interna e esterna. La prima è data dai due partiti che hanno firmato il piano salva Ellade, i conservatori di Nea Dimokratia e i socialisti del Pasok. Che, oggi, pur aprendo alla possibilità di migliorare quel piano, non hanno ancora spiegato agli elettori perché lo hanno accettato a quelle condizioni, capestri per il ceto medio e per i meno abbienti, ininfluente per i paperoni dell’Acropoli che si arricchiscono ulteriormente alle spalle dei dieci milioni di greci costretti a un radicale cambio di vita. E dal di fuori la mancata comunicazione su cosa è realmente accaduto al paese di Socrate e Pericle, come mai nessuno, ad esempio, indaga sui duemila miliardi che dal’Egeo si dirigono verso i paradisi fiscali di mezzo mondo, perché la Chiesa non ha mai pagato un centesimo di tasse (i sacerdoti non ricevono lo stipendio dalla Curia, ma dallo stato), perché i beni sequestrati a chi commette reati contro la pubblica amministrazione non vengono immessi nell’erario, come mai nessuno ha controllato dove andavano e come venivano spesi i fondi europei. Con il risultato che, nell’anno della paventata tragedia del calendario Maya, nel Mare Nostrum sta andando in scena la vera la crisi del secolo, peggio di una guerra o di un’epidemia: perché a rischiare è un continente intero chiamato a un bivio, rinnovarsi o morire.

Unione europea, ultima chiamata. Le elezioni a cui la Grecia è chiamata il prossimo 17 giugno hanno una doppia valenza: da un lato tentare di salvare ciò che resta di un’unione che, tale, è solo sulla carta e nella geografia delle grandi banche; e dall’altro impedire che la frusta europea che si è abbattuta su una popolazione intera, ad eccezione delle multinazionali del petrolio e delle finanza, possa lasciare sul campo morti e feriti. E soprattutto un paese che il giorno dopo la fine del piano della troika sarà “svendibile” in quanto senza più un grammo di energia propria. Al centro dell’Egeo la speranza di cambiamento al momento si dice abbia un solo nome: quell’Alexis Tsipras a capo di una coalizione di sinistra radicale che non solo ha messo sul tavolo un programma altamente innovativo, politico ed economico (pubblico registro per gli appalti, trasparenza finanche nei conti della Banca nazionale della Grecia, industrializzazione del paese, salvaguardia di prodotti nazionali, tassazione delle rendite finanziarie). Ma che sta basando la sua campagna elettorale su un semplice ragionamento: come si fa a ridare fiducia alla stessa classe dirigente che ha prodotto l’attuale debito della Grecia? Che ha impiegato dieci anni per costruire l’unica arteria stradale che collega il paese da nord a sud? Che solo dopo trent’anni si è accorta della presenza di gas metano nell’Egeo? Che ha consentito praticamente a tutti di aggirare leggi e regolamenti grazie a mancati controlli? Che ha acquistato dalla Germania un sottomarino che pendeva a destra? Che ha speso per le Olimpiadi del 2004 più di quanto avrebbe incassato se ne avesse organizzate cinque edizioni di seguito? Che non ha fatto luce su scandali come le tangenti del colosso tedesco Siemens? Che ha favorito il più alto tasso di corruzione dei paesi Ocse?

Ecco la tragedia “greca”: una politica che per anni si è basata sull’illusione effimera del tutto possibile per tutti, che non ha investito in infrastrutture e tessuti industriali, che ha consentito ai ricchi di diventare sempre più ricchi e agli altri di giungere a questo punto: a un passo dall’Ade. Uno scenario delicatissimo sul quale si staglia un altro elemento: il voto di “pancia”, verso l’onda xenofoba di Alba dorata, il partito nazionalista che dopo 40 anni per la prima volta ha fatto ingresso in parlamento. Quel 7% conquistato un mese fa la dice lunga sullo stato d’animo degli elettori: stufi di promesse, di contingenze irrisolte. Che si sommano al 40% di astenuti: non solo record europeo, ma segnale allarmante di uno sfascio a un passo.

Con, a fare da contorno, prima il premier italiano che si dice ottimista (“Gli eurobond diverranno una realtà e la Grecia manterrà la moneta unica”). E, nelle stesse ore in cui Monti rilascia quell’intervista al quotidiano ellenico To Vima, la “doccia fredda” della Bild, secondo cui “per la Grecia è ormai tempo di abbandonare l'euro”. E aggiunge: “Qualcuno tra i leader dell'eurozona dovrebbe finalmente dire ai greci la verità – scrive Blome - questo nuovo inizio può essere raggiunto con un primo passo radicale e questo significa lasciare l'euro”. Oppure, aggiungiamo, che a farla franca non siano sempre e solo i soliti noti, protetti da un sistema in cancrena, con vergognose mercificazioni umane e di anime. Che chiedono solo il dovuto: vivere in una democrazia che non assuma le sembianze di una dittatura tecnocratica.

Fonte: Gli Altri settimanale del l’8/6/2012
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Nicosia, la guerra del gas

La guerra del gas. Non è un anno tranquillo per i Paesi euro-mediterranei, non solo per via dello spettro dell’uscita greca dall’Eurozona o del contagio dei Paesi Pigs. Anche altri delicatissimi intrecci di geopolitica scuotono il mare nostrum, e proprio alla vigilia della presidenza di turno dell’Ue della Repubblica di Cipro, già oggetto di minacce reiterate da parte della Turchia. L’isola, come è noto, dal 1974 è “presidiata” abusivamente nella parte settentrionale da quarantamila militari turchi (in risposta a un tentativo di colpo di Stato greco), che hanno occupato la cosiddetta Katekomena autoproclamandosi Repubblica turco cipriota del Nord, riconosciuta solo da Ankara e non da Onu né dall’Ue. Di contro, a Sud, la Repubblica di Cipro è membro dell’Unione europea e da anni tenta di vedere riconosciuti i propri diritti, poiché nel luglio del 1974 venne bombardata da caccia militari (inglesi e turchi) e i cittadini furono costretti a fuggire dalle proprie abitazioni per non farvi mai più ritorno. Negli ultimi anni, complice una volontà comune anche figlia di rapporti personali tra i due presidenti (Talat e Christofias), qualcosa si è mosso. Come il “pertugio di pace” nel muro che divide in due la capitale Nicosia, ancora ferita da quel filo spinato che, oltre che materiale, è diventato nel tempo una sorta di corona di spine per le due comunità che fino a un attimo prima dell’azione militare convivevano pacificamente. Un po' come avvenne per la tragedia della Mikrì Asia a Smirne, quando, nel 1922, i greci, che lì vivevano in pace con la comunità turca, vennero cacciati e rispediti in patria con la forza da parte dei militari di Ankara. In un trionfo di tragiche storie, personali e sociali, che si sono mescolate agli egoismi politici e alle strategie imperialistiche.

Ma il nodo, adesso, è anche un altro: il gas. Il prezioso materiale, presente nelle acque cipriote, come nel resto dell’Egeo, è stato oggetto di un accordo tra Nicosia e Tel Aviv per uno sfruttamento comune, e ha provocato la solita reazione scomposta di Ankara. Infatti, il ministero degli Esteri turco ha chiesto ai consorzi partecipanti alla gara d'appalto per l'esplorazione petrolifera sui fondali ciprioti di astenersi: pena l’esclusione da futuri progetti energetici in Turchia. «Invitiamo i Paesi e le compagnie petrolifere interessati a comportarsi con buon senso - si legge in una nota del ministero - rinunciando a ogni attività in questa zona di mare all'origine delle divergenze legate alla questione cipriota, ritirandosi dalla gara d'appalto in questione. Non saranno incluse le compagnie che avranno collaborato, con l'amministrazione cipriota greca, ai progetti energetici previsti per il futuro in Turchia».

Secondo quanto riferito dalla “Famagusta Gazete” (che ha ripreso l’agenzia turca “Anadolu”), Israele potrebbe dispiegare ventimila commandos nella parte meridionale dell'isola di Cipro proprio per proteggere gli interessi energetici dello Stato ebraico nella regione. Lo scorso febbraio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente cipriota Dimitris Christofias avevano raggiunto un accordo di joint ventures nel settore energetico relativo ai giacimenti off-shore di gas naturale nelle rispettive zone economiche esclusive. Secondo indiscrezioni, il premier dello Stato ebraico avrebbe offerto a Christofias di farsi carico delle spese per realizzare l’impianto per la liquefazione del gas, con in cambio la manodopera israeliana (circa diecimila dipendenti).

Proprio il premier cipriota, però, sta vivendo una fase politica controversa, che potrebbe portarlo all’uscita di scena. Lo ha annunciato in un discorso alla televisione di Stato: non intende ricandidarsi a febbraio del 2013 per un secondo mandato a causa dell'impasse dei colloqui sotto l'egida dell'Onu per la riunificazione dell'isola. «Un'analisi realistica dei fatti - ha spiegato - porta alla conclusione che non vi sono speranze di risolvere la questione di Cipro né di raggiungere sostanziali progressi nei mesi che restano del mio incarico». Ha inoltre evidenziato come la sua scelta sia direttamente proporzionale a quanto promesso all'indomani dell'elezione a capo dello Stato secondo cui non si sarebbe ripresentato per un secondo mandato qualora con la parte turco-cipriota non si fossero registrati progressi sostanziali.

L’impressione, al momento, è che spread e default potrebbero rappresentare solo la punta di un ben più consistente iceberg che si sta muovendo, minaccioso e imponente, nel Mediterraneo orientale. Con la costante rappresentata dalle istituzioni europee non propriamente attente alla questione, come dimostra l’impasse in tal senso proprio della commissaria Ashton, nota più per le memorabili gaffes (definì i marò italiani “guardie private”) che per strategie di ampio respiro.

Fonte: Rivista Il Mulino del 7/6/12
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sabato 9 giugno 2012

Perdete ogni speranza custodi del vecchio

 Ha scritto Alain de Benoist che «non bisogna cercare di ritornare all’origine, perché non si può tornare indietro. Non bisogna fare un ritorno, ma un ricorso all’origine». Nel senso che il bagaglio di ognuno è un qualcosa certamente da non dimenticare, ma da conservare nella scatola dei ricordi nascondendo anche la chiave. E non da tenere costantemente dinanzi agli occhi, come un marsupio ingombrante, prima di mettere ogni passo presente e futuro. Ecco dove invece i passatisti coatti investono tempo ed energie, puntando sulle paure e sui tormenti dell’oggi per riproporre “minestre riscaldate” di ieri, anche per una cronica mancanza di idee nuove. Troppo difficile spremersi le meningi per strutturare proposte innovative, o battere strade mai percorse prima. Troppo alto il rischio di smarrire il sentiero maestro. Troppo facile fare “flop”. Dev’essere così che si sentono quella pletora di non-innovatori che alle domande moderne, alle nuove questioni che la contingenza pone, semplicemente volgono lo sguardo al già fatto e da quel guazzabuglio di risposte già date, riciclano tutto o quasi. Un fenomeno sociale da baraccone, buono forse per quei comizi urlati e farneticanti con slogan alla “piove: governo ladro”. Altro che fantasia post moderna e figlia della rete, in questo paese c’è ancora chi usa il carbone e comunica con i piccioni viaggiatori.
Un esempio? Passi per l’ultima barzelletta arcoriana di stampare moneta in loco, o per restyling politici di nomi e di contenuti. Si prenda il movimento Io amo l’Italia dell’eurodeputato Magdi Cristiano Allam, che propone in vista delle politiche 2013 uno stipendio fisso per le mamme full time, la difesa dell’Italia dalla minaccia islamica, il riscatto della sovranità mone¬taria attraverso l’emissione di una nuova lira. Meglio fermarsi qui e non scorrere ancora il programma elettorale per evitare travasi di bile. Qui c’è ancora qualcuno che pensa alle ricette della nonna per soddisfare gli affamati di oggi, non comprendendo come le esigenze mutino, i parametri anche, al pari delle modalità di azione, e senza contare i fattori emozionali. 

Quando da Confindustria dicono che l’Italia è ai limiti della frustrazione lanciano un allarme che, tale, è da un decennio. Basterebbe analizzare lo stile di vita e professionale del cosiddetto popolo delle partite iva, loro veramente ai limiti di tutto. O spulciare i dati di nuclei familiari dove entrambi i partner sono in cassa integrazione, o la drammatica statistica dei padri divorziati, ridotti sul lastrico da difficoltà economiche mescolate ad “alimenti” da passare. L’Italia a brandelli non può essere certamente ricucita da chi ripropone il vecchio, o da chi si chiude a riccio con velleità protezionistiche anacronistiche. Ma serve baumaniamente pensare alla comunione, a una liquidità che si estende a tutti i componenti e non che salva un minuscolo gruppo di amici o di cricche. Il futuro è nelle mani di chi saprà mettere in comune tutto, debiti, paure, energie e spunti.
Panta rei, predicava Eraclito: tutto scorre. E a nulla serve temere il mare aperto e nulla può per natura essere uguale alla frazione di secondo passata. Quando lo capiranno quelli che nel belpaese muovono i fili?

Fonte: il futurista quotidiano del 9/6/12
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venerdì 8 giugno 2012

La minaccia di Alba dorata e il potere persistente della tv


Ha scritto Pindaro che "c´è una misura in ogni cosa, tutto sta nel capirlo". Ovvero farsi interpreti di convinzioni basilari, utili e imprescindibili alla sopravvivenza. La comunicazione invasiva della televisione, nonostante l´avanzata mondiale dei social network, rappresenta ancora un "muro" invalicabile: sia nell´immaginario collettivo, sia nella percezione anomala del singolo fruitore. Che nutre ancora una riverenza ossessiva nei confronti di quella scatola che oggi tale non è, ma ha le sembianze di una tavoletta di cioccolata, sottile e larga quanto un enorme quadro.

Il potere televisivo persiste, integro, anche in politica, dove non si sgomita solo per partecipare o meno a quella o a questa finestra sul parlamento o alle solite strisce di approfondimento. Ma si sgomita, anzi, ci si scazzotta, nel vero senso della parola. Le immagini della rissa in Grecia tra il deputato di Alba dorata e una collega comunista del Kke hanno fatto il giro del mondo: roba da far impallidire anche un personaggio effervescente come Vittorio Sgarbi. Ma non è finita lì: perché oltre al mandato di cattura spiccato dal procuratore generale di Atene contro il portavoce del partito nazionalista di Chrisì Avghì, c´è da registrare la minaccia-promessa dello stesso movimento che un mese fa, con il 7%, è entrato in parlamento per la prima volta dopo 40 anni. Ovvero: "Circonderemo gli studi televisivi dove si fanno i dibattiti politici con 10mila sostenitori di Alba dorata". Il motivo? Se non verranno invitati nei programmi tv, dopo la rissa di ieri.

All´assurdità di una condotta violenta, in risposta all´altrettanto becera provocazione della deputata comunista in studio, l´intero sistema avrebbe dovuto fermarsi. Bloccando la campagna elettorale, con cittadini in piazza per dire basta. E non solo indignarsi a parole con fiumi di comunicati stampa dal sapore "scaduto". Perché il marcio non sta solo in quel volgare cazzotto, peggio di mille insulti. Ma anche nella dipendenza misera e allucinogena dal mezzo televisivo, dalla sua mortificazione sull´altare del protagonismo e della rabbia ideologica, senza contare la contingenza in cui si è svolto quell´episodio.

La Grecia tecnicamente fallita, dove, altra macro assurdità, non si arrestano gli amministratori che hanno truccato i conti, che hanno svenduto il paese alle banche di tutto il mondo, che hanno consentito a 300 miliardi di euro greci di trovare "riparo" al calduccio dei cantoni svizzeri, che hanno costretto migliaia di malati di cancro a pagare di tasca propria costosissime cure (perché lo stato non aveva più un euro, o una dracma, per i medicinali). E poi si vuole arrestare (ben inteso, giustamente) il deputato pazzerello che ha inscenato un ring da boxe in uno studio televisivo.

Eccolo il caos che, spettrale come Caronte al comando della sua barca, fa capolino in un´Europa non solo azzoppata dallo spread, ma soprattutto dal suo profondo disagio sociale.
Aveva dunque ragione William Beveridge ne "La libertà solidale", quando affermava che "un periodo rivoluzionario nella storia del mondo è il momento più opportuno per fare cambiamenti radicali, invece di semplici rattoppi".

Fonte: Formiche del 8/6/12
Twitter @FDePalo

Grecia al voto, tra spread, dracma e corruzione. Sarà il radicale Tsipras il “Leonida” d’Europa?

Un nuovo Leonida che fermi l’avanzata del nemico alle Termopili dello spread? Nessuno sa se il nome nuovo della politica greca, il 37enne Alexis Tsipras dato in ascesa nei sondaggi (primo partito al 30%), sarà o meno il salvatore della patria. Ma quantomeno il leader della coalizione radicale del Syriza (foto a destra dopo lo spoglio di un mese fa) rappresenta un motore di discontinuità intensa con la vecchia classe dirigente. La stessa che ha causato il quasi default ellenico, per via di prestiti scaduti, impegni non onorati e tante ma tante tangenti, così tante da far impallidire gli osservatori Ocse. In cima al suo programma elettorale quattro punti: la rinegoziazione del memorandum con la troika, firmato “al ribasso” dai capi di Pasok e Nea Democratia, il socialista Venizelos e il conservatore Samaras (su quattro euro che arrivano in Grecia, ben tre vengono restituiti in quanto interessi); un pubblico registro per gli appalti, per conoscere chi e come effettua opere pubbliche (la principale sacca di corruzione del paese); tasse per gli immobili della Chiesa (si pensi che i sacerdoti in Grecia ricevono lo stipendio dallo stato e non dalla curia); trasparenza negli azionisti, effettivi ed occulti, della Banca Nazionale di Grecia. Sì, proprio le banche sono uno degli snodi di questa faccenda, tanto brutta quanto intricata e con mille e più risvolti di cui ancora in pochi parlano. 

Come le commesse disposte dal governo di centrodestra guidato da Kostas Karamanlis nel 2004 (anno delle Olimpiadi ateniesi e del maxi scandalo tangentizio della tedesca Siemens) per l’acquisto di due sommergibili dalla tedesca Tyssen che, piccolo dettaglio, pendevano da un lato. E che rientra nella folle corsa agli armamenti che vede la Grecia ai primi posti in Europa. O come i fondi pensionistici che, si apprende proprio in questi giorni, risultano prosciugati perché liquidità necessarie a pagare gli interessi bancari dei maxi prestiti. O come la vergognosa notizia dei rimborsi per cento milioni di euro a favore dei partiti politici per il doppio turno elettorale, dello scorso 6 maggio e del prossimo 17 giugno. Quando gli elettori ellenici saranno chiamati nuovamente alle urne perché nessuno è riuscito responsabilmente un mese fa a comporre un esecutivo di emergenza. Che andasse oltre steccati e sigle e tentasse di chiudere quella voragine finanziaria, frutto di decenni di sprechi, di astuti speculatori che ancora stanno guadagnando da “quei” titoli spazzatura, di un sistema europeo in cancrena che si è accorto solo oggi delle sue falle. 

Crisi a quelle latitudini (e anche un po’ più a ovest, direzione coste italiane) fa sempre più rima con disoccupazione: nel solo mese di marzo in Grecia sono stati persi altri 25 mila occupati mentre con 21 mila disoccupati in più. Mentre il dato complessivo dei disoccupati tocca più di un milione: con il tasso che è ulteriormente salito al 21,9 per cento a marzo dal 21,4 per cento di febbraio. Ma Tsipras si porta dietro il pesante fardello di una classe dirigente ancora “troppo” comunista, con molti esponenti legati all’anti adesione alla Nato e all’imposizione fiscale di marca ideologica. Nonostante ciò viaggia con il vento in poppa, tra un’intervista alla Bbc e un comizio alla presenza di una pletora di ambasciatori in Grecia di trenta paesi, e non ha avuto timore a rispondere per le rime ad un Hollande che non lo ha ricevuto all’Eliseo. 

Di contro c’è un sistema che sta crollando, con i malati di cancro a cui lo stato non offre più cure, con cittadini che dichiarano di risparmiare proprio sulla salute. E con i politici che si prendono a schiaffi in tv, vedi la rissa di ieri tra un deputato nazionalista di Alba dorata e una collega del Kke. Voglia di sinistra, di destra, di centro, di grandi ammucchiate? No, in Grecia c’è solo voglia di tanta normalità.
 
Fonte: il futurista del 8/6/12
Twitter@FDepalo

giovedì 7 giugno 2012

Diritti, doveri, solitudini e partecipazioni. Cosa resta delle “altre” schiavitù nel mondo?

Finché il colore della pelle di un uomo non avrà più valore del colore dei suoi occhi, finché i diritti umani fondamentali non saranno ugualmente garantiti a tutti; fino a quel giorno il sogno di una pace duratura, la cittadinanza del mondo e le regole della mora¬le internazionale resteranno solo una fuggevole illusione, perseguita e mai conseguita». Sono le parole pronunciate nel 1963 dal sovrano etiope Haile Selassie I in un discorso nel palazzo di vetro dell’Onu. Diritti, colori, morfologie, etnie. E ancora: doveri, convivenza, regole, comunioni. Pietre che ancora oggi, dopo mille e più progressi sociali, sono in parte irrisolti e desiderosi di buone nuove per eliminare le schiavitù, fisiche e mentali, che esistono nei mondi. Il sette giugno di 150 anni fa Stati Uniti e il Regno Unito giunsero a un accordo per la soppressione della tratta degli schiavi, anche se in assoluto il primo paese a proibirla fu la Repubblica Serenissima di Venezia nel 960 d.C. La prima breccia nel muro della schiavitù porta la firma di sette proposte di legge presentate da William Wilberforce dal 1792, mentre il 25 marzo 1807 fu approvato lo Slave Trade Act, che diede il “la” al vero processo di eliminazione graduale della schiavitù. A cui aderirono successivamente anche il Portogallo con un trattato del 28 luglio 1817 e la Spagna il 23 ottobre 1817. Un risultato figlio di mille traversìe. Ma alla luce di quell’anniversario, cosa rimane oggi nelle “altre” schiavitù dei continenti?

Schiavo, nell’era della post modernità e della globalizzazione galoppante, fa rima con cittadino passivo. Quello che subisce senza battere ciglia le imposizioni di un sistema malato e deleterio. Quello che non vede riconosciuti i propri diritti, ma che deve piegare la testa di fronte ai giganti che tramortiscono tutto dovunque passano. Quello che non può eleggere il proprio parlamentare, quello che deve cercarsi una cricca per sperare di fare carriera. Schiavo oggi è chi non può esercitare completamente la propria libertà. Quindi chi è fuorviato nella composizione di una pubblica opinione da media inveritieri e invasivi, chi non ha maturato la consapevolezza di dover confutare le tesi, ascoltando attentamente le antitesi. E giungere così alla soluzione del problema in questione.

 Schiavo è chi non ha accesso alla rete e ai social network a certe latitudini del globo dove i quattrini si spendono solo in armamenti e approvvigionamenti energetici, mortificando l’elemento umano. Deprezzandolo e inquadrandolo in un bieco alveare produttivo, come quei bimbi che cuciono palloni da calcio per pochi spiccioli al giorno. Schiave sono quelle mamme che non possono tentare altre vie per avere un figlio, perché alcune leggi lo impediscono in Italia: e innescando un meccanismo di reazioni a catena assurde, non solo medico-scientifiche, ma soprattutto sociali ed emozionali. 

Schiavi sono quegli individui che non possono scegliere come farla finita, perché lo stato ha deciso di essere etico fino in fondo con tanti saluti all’autodeterminazione dell’individuo. Schiave sono quelle coppie che temono di passeggiare in alcune strade d’Europa, perché l’ombra del razzismo giudica i gusti sessuali dei singoli; un vento che spira da nord a sud, passando (nel belpaese) per un fazzoletto di terra che non esiste. E dove qualche imbecille con la pochette verde nel taschino ha deciso di piazzare una bandiera di uno stato che c’è solo nei cda delle municipalizzate. 

Schiavo è quel cittadino nato in Algeria che lavora regolarmente in Italia e non può vedere in mano al figlio generato qui una carta di identità di questo paese. Perché quel paese continua a essere a sua volta schiavo. Di se stesso, del suo immobilismo e di un futuro che si rifiuta di abbracciare.
 
Fonte: il futurista quotidiano del 7/6/12
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martedì 5 giugno 2012

Il piano salva euro c'è e inizia oggi

 Mentre Bruxelles si affretta a smentire l’esistenza di un piano segreto per salvare l’euro e l’Unione (ammettendone, quindi, la veridicità ovvia, visti i tempi) oggi ci sarà il primo passo del cosiddetto “sos bank”. Ovvero il vertice della Commissione europea per il regime comune di risoluzione delle banche. In altri termini, una sorta di camera di decompressione per gestire eventuali fallimenti di istituti bancari continentali, quindi greci, spagnoli e ciprioti. E in maniera più o meno controllata. Ciò che propone la Cancelliera Merkel, il controllo europeo sulle banche, potrebbe però non essere sufficiente, ormai i buoi sono già scappati dal recinto e chiuderlo affrettatamente adesso non risolverebbe quelle criticità che, intatte, potrebbero ripresentarsi già domani, come rilevato tra l’altro sul Sole 24 Ore da Helmut Schmidt (nel senso di lasciar perdere i tatticismi di partito, e invitando Berlino ad essere più solidale). 

Un panorama che come ampiamente prevedibile ha provocato la delusione di Barack Obama di cui tutti i media hanno dato conto ieri e mentre Piazza Affari rallenta la sua marcia al giro di boa in attesa dell’esito del G7 (dopo un avvio promettente l’indice Ftse Mib segna ora un modesto +0,08%). Semmai quel controllo dovrebbe essere fatto innanzitutto sui fondi europei, a chi vengono destinati, come e quando vengono spesi; su come strutturare una “comunione” continentale del debito, per evitare il contagio ellenico che in parte si è già esteso a Spagna e Cipro (Portogallo e Italia potrebbero essere le prossime?). E intrecciando queste riforme basilari per l’Ue con lo strumento dei titoli europei per stimolare il mercato e allontanare le sabbie mobili della crisi, anche solo per il tempo necessario alla ristrutturazione vera dell’Ue. Ad esempio, il Piano Passera per la crescita, che dovrebbe essere approvato domani in cdm, e che contempla l’approvazione di due decreti legge per attivare un pacchetto di misure capaci di stimolare investimenti ed occupazione (incentivi alle imprese, ai settori strategici, al Mezzogiorno, crediti di imposta) potrebbe essere il metro da adottare anche in sede europea.

Argomenti che saranno al centro di due summit internazionali destinati a lasciare il segno, il G20 sulla crescita a Los Cabos in Messico, ma soprattutto il Consiglio europeo del 28 giugno a Bruxelles. Quest’ultimo è considerato un vero e proprio muro oltre il quale o si salveranno le sorti del continente o si imboccherà la discesa decisiva verso la rottura dell’eurozona. Proprio il premier italiano reciterà un ruolo di primo piano, ospitando il 22 giugno a Roma il vertice a 4 (assieme a Merkel, Hollande, Rajoy), e soprattutto caldeggiando una richiesta informale del presidente degli Stati Uniti: allargare il modello della conference call dello scorso 30 maggio (tra Obama, Monti, Hollande e Merkel) ai Grandi dell’Europa e gli Usa proprio a cavallo tra il 22 e il 28 giugno.

Ma la ricetta Merkel (in foto a sinistra in visita da Putin) ha delle falle: perché al rigore e allo sviluppo (nessuno ha ancora detto come oggettivizzarli nei paesi Pigs) che sono imprescindibili solo se applicati insieme, non si può che affiancare anche una massiccia dose di buon senso. Chi ha rubato, chi continua a farlo (semplici cittadini, ministri o premier che siano non conta), chi ha truccato i conti, non può farla franca. Si pensi al solo dato elvetico, i cui forzieri custodiscono più di 300 miliardi di euro “greci”: ben più del debito stimato ellenico, senza che nessuno abbia rivolto lo sguardo a quei cantoni per chiedere giustizia. Mentre ad Atene aumenta il numero dei senza tetto, i partiti si “di-stribuiscono” altri milioni di euro in rimborsi elettorali e i malati di cancro senza copertura sanitaria pagano di tasca propria cure costosissime: perché lo stato non ha più un euro, nè una dracma.

Fonte: il futurista quotidiano del 6/6/12
Twitter@FDepalo