martedì 17 aprile 2012

La primavera di Praga e quel fuoco di disperazione mai spento

Diciassette aprile 1969, il presidente del Partito Comunista Cecoslovacco, Alexander Dubcek, viene deposto. Il fuoco di ieri (Jan Palach), i fuochi di oggi (i suicidi della crisi in Italia e in Grecia). Cosa resta di quella Primavera? Il fuoco come elemento catartico. Che purifica, che disinfetta una ferita. Da cui partire per battezzare un nuovo inizio. Un po'come iniziare un altro (lungo) viaggio, durante il quale arricchirsi di nuove esperienze. La fiamma come plastica raffigurazione di un attraversamento, per lasciarsi dietro un passato dove non si intende ritornare, da cui allontanarsi perché incarna il vecchio. Perché il viaggio moderno, volendo usare il paradigma di Chatwin, altro non è che un "riflesso di difesa dell'individuo, un gesto antisociale, il viaggiatore è un insubordinato, si viaggia per esistere, per sopravvivere, per uscire dalla fissità". Viaggio e fuoco, in un giorno dal valore storico intenso, si scoprono abbracciati e proiettati in una nuova fase sociale. Ieri quella fiamma era sinonimo di rivoluzione, di contrarietà a un sistema oppressivo e antidemocratico che cassava le personalità, che intendeva uniformare società e individui. Era il grido di dolore di un popolo intero che cercava una fessura dove incanalare tutto il proprio dissenso. E il gesto di Palach rappresentò quella punta di protesta. E oggi? Il fuoco che si scorge al di qua come al di là dell'Adriatico, muove da un altro disagio. Forte, significativo, ma ovviamente diverso. Che però ha prodotto sangue e disperazione. Fiamme e piombo, quindi, come marchio sociale a cui tentare di dare una risposta solidale. 

Fiamme a Salonicco lo scorso settembre, quando un uomo fu salvato dopo aver tentato di darsi fuoco davanti a una banca perché senza più un euro urlando: "Sono sommerso dai debiti che non potrò più onorare". Quarantadue anni fa Jan Palach scelse la medesima strada, ma purtroppo non sopravvisse. Ieri un gesto di rivolta, per attirare l´attenzione verso una sofferenza interiore, di anime schiacciate da regimi e mancanze di libertà. Oggi la disperazione di chi non sa più cosa fare e dove andare. Piombo è stato quello di Dimitris Chrisoulas, il farmacista in pensione suicidatosi una settimana fa dinanzi al parlamento greco in piazza Syntagma per protestare contro la politica di austerità varata dal governo. In una lettera ritrovata dopo la sua morte, Dimitris scriveva: "Non trovo alcuna altra soluzione per una fine degna, prima di dover cercare il cibo nei bidoni della spazzatura". Non può essere sufficiente quindi indignarsi per tutto questo, né invocare una commozione tanto di circostanza quanto sterile. Occorre altro, azione, proposte, una risposta che prenda le mosse da un deciso interventismo. Che non costringa il cittadino a simili reazioni, che contribuisca alla maturazione socio-economica di un grande paese, l'Europa, che pare smarrito di fronte alla crisi. Che ri-costruisca un humus comune con dinanzi agli occhi la meta degli Stati Uniti d'Europa. Che abbiano alla base l'elemento umano, non solo calcolatrici, indici di borsa o diagrammi numerici. 

Proprio in questa direzione dovrebbe concentrarsi allora la proposta culturale di un paese, che si affianchi con decisione alle direttive della politica. Per non spezzare di nuovo quel sottile ma intenso filo che unisce i due capi, per rafforzare un canale di comunicazione di importanza vitale, dove un megafono ha senso se intercetta il momento adatto per diffondere il corretto messaggio. Quello che Michael Focault ha definito l'intellettuale "distruttore delle evidenze e delle universalità, colui che individua e indica nelle inerzie e nelle costrizioni del presente i punti di debolezza, le aperture, le linee di forza. Colui che senza tregua si sposta, senza che si sappia di preciso dove sarà, cosa penserà domani".  

Fonte: Formiche di oggi 

 Twitter@FDepalo

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