venerdì 6 aprile 2012

Cassa del Mezzogiorno? Nessun rimpianto


Una buona terapia industriale giova anche al sud, ha scritto pochi giorni fa sul Corriere del Mezzogiorno lo storico Giuseppe Galasso: «Non va dimenticato che l’industrializzazione del meridione avviata agli inizi degli anni Sessanta è stata una grande pagina di storia nazionale». Offuscata dai primi provvedimenti di cassa integrazione di chi aveva ricevuto aiuti statali per aprire nuovi stabilimenti, che poi ha chiuso. Galasso definisce inaccettabile la cosiddetta «dannazione pressoché totale degli sforzi di industrializzazione del Mezzogiorno, che la classe politica italiana e accanto ad essa una dirigenza tecnica, manageriale finanziaria di prim’ordine, distribuita nei grandi enti di Stato condussero con convinzione e con passione». Sostiene che non è vero che di quella politica non siano rimaste che macerie, dal momento che «il declino di alcune industrie del sud è dovuto a ragioni generali impostesi ovunque, anche nel mondo più avanzato». Se il suo ragionamento può essere parzialmente condiviso per tre quarti, quest’ultimo passaggio presenta delle incongruenze. In quanto l’Iri e la grande stagione delle partecipazioni statali, altrimenti detta dei boiardi di stato, se da un lato ha avviato una primordiale forma industriale a quelle latitudini, dall’altro, proprio con la nascita della Cassa del Mezzogiorno ha creato il primo “buco nero” finanziario d’Italia. Di cui si avvertono ancora oggi, chiari e limpidi, i riverberi. 

E non solo dal punto i vista meramente economico, con fiumi di denari che spesso hanno preso vie secondarie, ma anche con ricadute di stampo sociale. La grande questione del sud assistenzialista inizia proprio allorquando la Cassa, da piano Marshall di natura straordinaria, assume le vesti di vacca da mungere all’infinito. Con una doppia conseguenza: incrementare a dismisura il debito pubblico di oggi, che ricordiamolo, in parte è anche figlio delle politiche miopi di quegli anni; e non stimolare culturalmente a sufficienza le spinte imprenditoriali partorite dal singolo ingegno, senza ricorrere alla tasca di mamma Italia. Da lì parte una delle zavorre che il Mezzogiorno si porta ancora stampato addosso come un marchio scomodo. Quell’assistenzialismo oggi non è scomparso. Si pensi a una città metropolitana come Bari che, nonostante quello status specifico, si permette ancora il lusso di avere undici municipi, con presidenti, consiglieri e gettoni. O un teatro di respiro nazionale come il Petruzzelli che, dopo l’odisseica ricostruzione, si trova sul groppone un buco da otto milioni di euro, con cinquecento e più contratti stipulati e tempi per le prove di ben 58 giorni, rispetto alla media di 5/9 di altri teatri e con conseguenti costi maggiorati. O si pensi alla regione Sicilia, con il record dei dipendenti assunti, senza contare le migliaia di consulenze esterne che gli enti pubblici hanno la (cattiva) abitudine di attuare, mortificando in questo modo anche le professionalità interne. 

Ciò non significa che il Meridione vada per forza di cose visto come una zavorra, si veda l’invito di Marina Valensise nel sul ultimo pamplet Il sole sorge a sud (Marsilio). Ma non si possono più ammettere in tempi di tagli e sacrifici, che sussistano ancora pratiche ancestrali e sprechi diffusi. 

Fonte: il futurista quotidiano del 6/4/12. 
Twitter@FDepalo

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