Una buona terapia industriale
giova anche al sud, ha scritto pochi giorni fa sul Corriere del Mezzogiorno lo
storico Giuseppe Galasso: «Non va dimenticato che l’industrializzazione del meridione
avviata agli inizi degli anni Sessanta è stata una grande pagina di storia
nazionale».
Offuscata dai primi provvedimenti di cassa integrazione di chi aveva ricevuto
aiuti statali per aprire nuovi stabilimenti, che poi ha chiuso. Galasso
definisce inaccettabile la cosiddetta «dannazione pressoché totale degli
sforzi di industrializzazione del Mezzogiorno, che la classe politica italiana
e accanto ad essa una dirigenza tecnica, manageriale finanziaria di prim’ordine,
distribuita nei grandi enti di Stato condussero con convinzione e con passione». Sostiene
che non è vero che di quella politica non siano rimaste che macerie, dal
momento che «il
declino di alcune industrie del sud è dovuto a ragioni generali impostesi
ovunque, anche nel mondo più avanzato». Se il suo ragionamento può essere
parzialmente condiviso per tre quarti, quest’ultimo passaggio presenta delle
incongruenze. In quanto l’Iri e la grande stagione delle partecipazioni
statali, altrimenti detta dei boiardi di stato, se da un lato ha avviato una
primordiale forma industriale a quelle latitudini, dall’altro, proprio con la
nascita della Cassa del Mezzogiorno ha creato il primo “buco nero” finanziario
d’Italia. Di cui si avvertono ancora oggi, chiari e limpidi, i riverberi.
E non
solo dal punto i vista meramente economico, con fiumi di denari che spesso
hanno preso vie secondarie, ma anche con ricadute di stampo sociale. La grande
questione del sud assistenzialista inizia proprio allorquando la Cassa, da
piano Marshall di natura straordinaria, assume le vesti di vacca da mungere
all’infinito. Con una doppia conseguenza: incrementare a dismisura il debito
pubblico di oggi, che ricordiamolo, in parte è anche figlio delle politiche
miopi di quegli anni; e non stimolare culturalmente a sufficienza le spinte
imprenditoriali partorite dal singolo ingegno, senza ricorrere alla tasca di
mamma Italia. Da lì parte una delle zavorre che il Mezzogiorno si porta ancora
stampato addosso come un marchio scomodo. Quell’assistenzialismo oggi non è
scomparso. Si pensi a una città metropolitana come Bari che, nonostante quello
status specifico, si permette ancora il lusso di avere undici municipi, con
presidenti, consiglieri e gettoni. O un teatro di respiro nazionale come il
Petruzzelli che, dopo l’odisseica ricostruzione, si trova sul groppone un buco
da otto milioni di euro, con cinquecento e più contratti stipulati e tempi per
le prove di ben 58 giorni, rispetto alla media di 5/9 di altri teatri e con
conseguenti costi maggiorati. O si pensi alla regione Sicilia, con il record
dei dipendenti assunti, senza contare le migliaia di consulenze esterne che gli
enti pubblici hanno la (cattiva) abitudine di attuare, mortificando in questo
modo anche le professionalità interne.
Ciò non significa che il Meridione vada
per forza di cose visto come una zavorra, si veda l’invito di Marina Valensise
nel sul ultimo pamplet Il sole sorge a sud (Marsilio). Ma non si possono più
ammettere in tempi di tagli e sacrifici, che sussistano ancora pratiche ancestrali
e sprechi diffusi.
Fonte: il futurista quotidiano del 6/4/12.
Twitter@FDepalo
Nessun commento:
Posta un commento