giovedì 26 aprile 2012

La vera liberazione? Ogni giorno. Per uomini senza gabbie e identità



Libertà. Parola magica, usata e abusata da più parti e su più fronti. Perché tremendamente affascinante, preda e cacciatrice allo stesso tempo. Svolta, antropologica e sociale, politica e personale. Che segna il distacco da un bozzolo opprimente, quello che chiude le bombole di ossigeno e cassa le punte che non vogliono uniformarsi. Ha scritto Alberto Savinio in Sorte dell’Europa che il liberalismo «non è un partito politico, né una formula: è un che di mero mutevole, di più profondo e fermo. É l’uomo dal cuore al cervello, dei sentimenti e dei pensieri, l’uomo che vive per sé e un tempo per gli altri, la fantasia del dovere, un cristianesimo laico, chi vede nella donna una creatura umana e una compagna, non uno strumento di piacere o soltanto la madre dei propri figli. Liberalismo è la vita senza pregiudizi, né restrizioni mentali, l’arte senza generi, pensiero senza sistemi, la vita senza fede cieca, senza credo unico, senza assiomi o dogmi, la soppressione di ogni padrone tanto in terra quanto in cielo: è il momento più alto di ogni civiltà».

Perché intimamente racchiusa già nella sua etichetta. Libertà, liberalismo. Allontanarsi da un qualcosa che impedisce quel volo pindarico, quell’esplosione viva e pura. Che boccia un’iniziativa autonoma, che tenta di imbrigliare, di uniformare, di far confluire in un dove predefinito. Ovvero tutto ciò che non sostiene la naturale esplicazione di un pensiero, di un’idea, di una condotta. Sotto forma di arte, di scienza, di scritti, di mosse sociali, come una linea politica o l’urlo di rivolta di un popolo. Il modo migliore per ricordare quel 25 aprile, dunque, potrebbe essere una nuova forma di distacco. Intima, forte e determinata, certamente rispettosa di fatti e avvenimenti, ma coraggiosa e insolente nel proporre una svolta liberatrice. Che scacci una volta per tutte le pericolose dipendenze dell’epoca moderna. Per liberarci dallo spread, insomma, dai luoghi comuni polverosi, dai nostalgismi.

E non solo in quanto tali, ma finanche perché producono quella cementificazione a cui l’uomo deve rinunciare con tutte le proprie energie. Ciò non significa diventare a un certo momento completamente
insensibili a elementi che comunque permangono nella quotidianità. Solo non eleggerli a metro unico di valutazione, da cui far dipendere le sorti del mondo. Quindi sì ad un’attenzione ai conti pubblici, alle borse e agli indici, ma no ad un uomo del terzo millennio che abbandoni insensibilmente il suo essere zoon politikon per tramutarsi in un ragioniere tout court. Che pensa e agisce come un registratore di cassa e nulla più, che si autoimpicca sull’altare di una globalizzazione coatta e acefala.
Dal momento che proprio in quel frangente smarrirebbe il suo dna, la sua unicità rispetto a macchine meccaniche che non hanno spinte emotive e slanci vivaci. E ancora, sì a un’attenzione se vogliamo accademica e sociale per la storia, per eventi e atteggiamenti del passato che hanno contribuito nel bene e nel male a comporre il quadro attuale (politico e sociale) di un paese. 

Ma serve esplicarlo in chiave di analisi mutevole di stati e popoli, e non come dogmi da portare in giro, quasi che fossimo tutti dei cani San Bernardo con appeso al collo il barilotto di identità da cui non staccarsi mai.


Fonte: il futurista quotidiano del 25/04/12
Twitter@FDepalo

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