Ha scritto Hannah Arendt
che «la nostra
apprensione della realtà dipende dalla nostra condivisione del mondo
con gli altri». Dividere per
averlo in comune con un essere diverso da se stesso. Un oggetto,
un'emozione, un pezzo di pane. O un'esperienza, una sofferenza,
un'amicizia. Ma anche uno Stato, dove nascere, far crescere chi vi
giunge speranzoso o accogliere chi sceglie di trasferirsi in nome di
una comunione di intenti. E di cui narrare le vicende, le
similitudini, le asprezze. Il primo uomo di Camus pubblicato postumo
nel 1994 è ora un film (da domani nelle sale italiane) per la regia
di Gianni Amelio. Una pellicola definita doppiamente autobiografica,
dove le similitudini si intrecciano sin dal principio. L'Algeria per
Camus, la Calabria per Amelio. L'indigenza, il distacco dalla figura
paterna, il ruolo predominante delle donne chiamate a impugnare un
timone rimasto senza capitano. Un sottile filo che ha permesso al
regista italiano di comporre la sceneggiatura pescando nella propria
memoria personale. “No al terrorismo, sì alla soluzione politica”
era lo slogan di Camus sulla questione algerina. Le difficoltà
legate alla convivenza di diverse etnie, ieri come oggi, resta un
tema cruciale e drammaticamente irrisolto. Si prendano quei conflitti
della fine degli anni Cinquanta in Algeria, dove molti intellettuali
come Sartre sostenevano che l'Algeria dovesse andare agli Algerini.
Pochi anni più tardi e a un paio di fusi orari più a oriente, ecco
il conflitto palestinese, la “madre” delle battaglie del secondo
dopoguerra per la convivenza di quei popoli affacciati sul
Mediterraneo. Singolare che un luogo fisico di estrema comunione come
quel grande lago salato, sul quale due continenti e mezzo si
affacciano, non sia riuscito a domare isterismi ed egoismi. E
nonostante un background invidiabile di civiltà.
Atene,
Roma, Costantinopoli hanno riversato nel Mediterraneo il loro
bagaglio di azioni e progressi, spunti e innovazioni socio-civili
epocali. Duemila anni dopo le etnie e i conflitti ancora al centro di
tentativi di convivenza e pacificazione democratica. L'ultimo, in
ordine di tempo, quello dei paesi nordafricani, “vicini di casa”
dell'Algeria di Camus, ribellatisi a un sistema di potere e di
sopraffazione. Solo quindici mesi fa dalle piazze di Tunisi, Bengasi,
Cairo si sollevava l'urlo disperato di chi chiedeva solo ciò che un
popolo dovrebbe avere per diritto: la libertà. Il film di Amelio,
che ha vinto a Toronto il premio Fipresci, racchiude al suo interno
il tesoro della ri-scoperta: valoriale, intestina, amorevole. Che si
specchia magicamente nell'intimità di chi dirige la pellicola. Un
film nel film. E si basa sul testo ritrovato nel 1960 tra i rottami
dell'auto dove Camus perse la vita, che grazie allo sforzo di sua
figlia Catherine, ha visto la luce trentaquattro anni dopo.
Il
protagonista, Jacques Cormery, fa ritorno nel suo paese di origine,
appunto l'Algeria, perché convinto che nonostante la fine del
colonialismo, francesi e musulmani possano convivere in armonia e
senza guerreggiare. Una sorta di viaggio a ritroso nella memoria,
indietro nei ricordi più nascosti del personaggio e anche del
regista italiano, per affrescare un panorama che è sì indietro nei
ricordi. Ma assolutamente avanti nel pensiero e nelle emozioni.
Fonte: il futurista quotidiano del 10/04/12
Twitter@FDepalo
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