giovedì 19 aprile 2012

Amelio si "sdoppia" e racconta Camus

Ha scritto Hannah Arendt che «la nostra apprensione della realtà dipende dalla nostra condivisione del mondo con gli altri». Dividere per averlo in comune con un essere diverso da se stesso. Un oggetto, un'emozione, un pezzo di pane. O un'esperienza, una sofferenza, un'amicizia. Ma anche uno Stato, dove nascere, far crescere chi vi giunge speranzoso o accogliere chi sceglie di trasferirsi in nome di una comunione di intenti. E di cui narrare le vicende, le similitudini, le asprezze. Il primo uomo di Camus pubblicato postumo nel 1994 è ora un film (da domani nelle sale italiane) per la regia di Gianni Amelio. Una pellicola definita doppiamente autobiografica, dove le similitudini si intrecciano sin dal principio. L'Algeria per Camus, la Calabria per Amelio. L'indigenza, il distacco dalla figura paterna, il ruolo predominante delle donne chiamate a impugnare un timone rimasto senza capitano. Un sottile filo che ha permesso al regista italiano di comporre la sceneggiatura pescando nella propria memoria personale. “No al terrorismo, sì alla soluzione politica” era lo slogan di Camus sulla questione algerina. Le difficoltà legate alla convivenza di diverse etnie, ieri come oggi, resta un tema cruciale e drammaticamente irrisolto. Si prendano quei conflitti della fine degli anni Cinquanta in Algeria, dove molti intellettuali come Sartre sostenevano che l'Algeria dovesse andare agli Algerini. Pochi anni più tardi e a un paio di fusi orari più a oriente, ecco il conflitto palestinese, la “madre” delle battaglie del secondo dopoguerra per la convivenza di quei popoli affacciati sul Mediterraneo. Singolare che un luogo fisico di estrema comunione come quel grande lago salato, sul quale due continenti e mezzo si affacciano, non sia riuscito a domare isterismi ed egoismi. E nonostante un background invidiabile di civiltà.

Atene, Roma, Costantinopoli hanno riversato nel Mediterraneo il loro bagaglio di azioni e progressi, spunti e innovazioni socio-civili epocali. Duemila anni dopo le etnie e i conflitti ancora al centro di tentativi di convivenza e pacificazione democratica. L'ultimo, in ordine di tempo, quello dei paesi nordafricani, “vicini di casa” dell'Algeria di Camus, ribellatisi a un sistema di potere e di sopraffazione. Solo quindici mesi fa dalle piazze di Tunisi, Bengasi, Cairo si sollevava l'urlo disperato di chi chiedeva solo ciò che un popolo dovrebbe avere per diritto: la libertà. Il film di Amelio, che ha vinto a Toronto il premio Fipresci, racchiude al suo interno il tesoro della ri-scoperta: valoriale, intestina, amorevole. Che si specchia magicamente nell'intimità di chi dirige la pellicola. Un film nel film. E si basa sul testo ritrovato nel 1960 tra i rottami dell'auto dove Camus perse la vita, che grazie allo sforzo di sua figlia Catherine, ha visto la luce trentaquattro anni dopo.

Il protagonista, Jacques Cormery, fa ritorno nel suo paese di origine, appunto l'Algeria, perché convinto che nonostante la fine del colonialismo, francesi e musulmani possano convivere in armonia e senza guerreggiare. Una sorta di viaggio a ritroso nella memoria, indietro nei ricordi più nascosti del personaggio e anche del regista italiano, per affrescare un panorama che è sì indietro nei ricordi. Ma assolutamente avanti nel pensiero e nelle emozioni.

Fonte: il futurista quotidiano del 10/04/12
Twitter@FDepalo

Nessun commento: