giovedì 15 novembre 2012

Capitalismo, la crisi è proprio lì. Ora serve morire per rinascere

Crisi del capitalismo o grande trasformazione? La domanda potrebbe essere capovolta o, semmai, anche allargata. Perché se il capitalismo così come è stato interpretato e applicato sino ad oggi ha prodotto la crisi che non solo il Mediterraneo ma il mondo occidentale intero sta vivendo, è implicito che per ovviare allo status quo non si può che guardare ad una trasformazione dell'intero sistema. Tentando di ragionare su un'oggettività: si rende necessario un azzeramento, non un restyling, nella consapevolezza che non ci sarà lo spazio per ritocchi bensì servirà una rinascita totale. Sulla questione, tra l'altro, il 16 e 17 novembre si concentrerà una due giorni di analisi e dibattiti presso il Centro Studi Americani di Roma con relazioni di Pierluigi Bersani, Guglielmo Epifani, Nichi Vendola, Paolo Guerrieri, Laura Pennacchi, Edoardo Reviglio, Salvatore Biasco, Christian Marazzi, Roberto Schiattarella, Luigi Ferrajoli, Stefano Rodotà, Giorgio Resta, Daniele Archibugi, Marco D'Eramo, Elena Paciotti, Carlo Donolo, Daniel Gamper Sachse, Claus Offe, Giancarlo Bosetti e Giacomo Marramao.

Ma una riflessione analitica su come proceda il padre del benessere si rende obbligatoria, magari argomentando su più fronti per tentare di dare un minimo di risposte analitiche alle troppe domande che sono sul campo. Da un lato c'è chi, come Luigi Zingales, chiede al capitalismo si farsi “popolare”. Ovvero più puro, sano e meno contorto per favorire i grandi gruppi di potere e null'altro. Quella finanza buona da cui ripartire. Il docente di Entrepreneurship and Finance all'University of Chicago Booth School of Business e autore di diversi saggi, tra cui (con Raghuram G. Rajan), Saving Capitalism from the Capitalists, Random House, New York, 2003 e (con Salvatore Carrubba e Gianpaolo Salvini), Il buono dell'economia- Etica e mercato oltre i luoghi comuni, Ed. Università Bocconi, 2010, in una delle ultime riflessioni su finanza, capitalismo e libero mercato ha più volte sostenuto che lo sviluppo finanziario è da facilitare il più possibile. Il nodo è che oggi quel libero mercato è inequivocabilmente sul banco degli imputati, per questo serve chiedersi: il capitalismo è ancora da salvare? Secondo Zingales quello che abbiamo visto negli ultimi anni è come il potere di alcuni finanzieri abbia distorto il mercato, creando dei danni nel lungo periodo al libero mercato. E si riferisce a una sorta di versione popolare del capitalismo, una base popolare per il libero mercato, che al momento all’Italia manca. Esiste invece negli Usa ma si sta smarrendo, sostiene. É chiaro che affinché un mercato funzioni ha bisogno di un sistema di regole. Secondo l'economista tutti i sistemi  necessitano di una regolamentazione minimale e semplice, il che non esclude a priori il problema fondamentale della regolamentazione che diventa talmente complicata, da divenire preda di blocchi precostituiti. Si pensi ad esempio al doc financial banking negli Usa che nel 1933 era composto da trentasette pagine, oggi quello stesso documento ne conta più di duemila. Certo, il picco di responsabilità sta invece in una regolamentazione distorta come il caso Basilea2, che richiedeva una riserva di capitali per le banche molto più bassa rispetto ai titoli ad alto reddito.
 
E dall'altro c'è chi come Giulio Sapelli sostiene che quindici anni di errori strutturali non si cancellano con un tratto di penna, ma necessitano di un lungo lavorìo. Nella consapevolezza che esistono anche altre tipologia di imprese su cui investire, come quella cooperativa, o la no-profit. Per questo, sostiene, serve «aprire la nostra testa e capire che quello che conta non è la continuità del capitalismo ma la continuità della produzione del capitale». E che l’uomo postmoderno per inaugurare una nuova fase che superi la crisi del capitalismo dovrà ripartire dall’etica. L'ordinario di storia economica alla facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Milano, e autore de Storia della Dioguardi, cultura e vita di un'impresa (Donzelli) ritiene che c'è l'esigenza di produrre una ricchezza sociale che si incardini nello stock dei beni materiali, come case, alimenti, tutte cose che rendono buona la qualità della vita. Ma non è detto che per fare questi stock di capitali debba essere utilizzata solo l’impresa capitalistica. Per questo allude ad altre tipologie di imprese, quella cooperativa, o quella no-profit.
Quale dunque una via di uscita? Si potrebbe pensare, senza timore di apparire sacrileghi, a modelli di società che si interroghino, al loro interno, con se stessi, oggi che il termine risorse fa sempre più rima con scarsezza. Il riferimento è a tessuti sociali fragili, che semplicemente si occupino della crescita di quelle realtà emergenti, mentre invece per quelle più avanzate che oggi si trovano proprio al centro della crisi sistemica, immaginare una sorta di autolimitazione, convivendo con un'oggettiva crescita. Temperata, rispettosa dell’ambiente, della dignità della persona: in una parola, più giusta.

Fonte: Italiani quotidiano del 15/11/12
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