venerdì 16 novembre 2012

Metti una sera “barricati” nel Politecnico: quando la libertà non è star seduti ad aspettare

Ha scritto Milan Kundera che «la lotta dell’uomo contro il potere, è la lotta della memoria contro la dimenticanza». Ricordare e raccontare, evidenziare e metabolizzare: ovvero contribuire a rafforzare la consapevolezza delle battaglie per la libertà, condotte da braccia e menti. Il 17 novembre del 1973, il Politecnico di Atene fu teatro della rivolta studentesca contro la tirannia della dittatura Greca.

Con il colpo di stato del 1967 Papadopoulos per sette anni era salito al potere. Dopo Yalta, infatti, il controllo politico dell’Egeo spettava per il 70% agli Usa e per il restante 30% ai sovietici. Per questo numerosi gruppi “cospiratori” cavalcarono le tensioni sociali già massicciamente esistenti nell’intera zona. Inizialmente la protesta degli studenti non produsse una reazione da parte del governo, per questo riuscirono a barricarsi negli edifici (ad Atene e a Salonicco) dove iniziarono anche a trasmettere da un’improvvisata stazione radio, ma solo nella zona della capitale greca. Gli slogan professati erano “pane – istruzione –libertà”, “20% della finanziaria per l’istruzione” e “abbasso la giunta”. Il giorno successivo le strade ateniesi si riempirono di cittadini che, incoraggiati dalle iniziative studentesche, si animarono e risposero “paròn” a quel curvone decisivo della storia. Due distinte ma confluenti manifestazioni si snodarono per le strade di Atene, sull’onda delle parole trasmesse da quella radio: «Lo facciamo per la Grecia. Per il suo popolo che vuole stabilire la sua vita, percorrendo la via del progresso e dell’operosità. Presupposto basilare è la caduta della dittatura e il ritorno della democrazia».

Ma dall’entusiasmo si passò presto alla repressione. Nel tardo pomeriggio i primi tafferugli tra polizia e manifestanti, con la folla che in serata prese la direzione del Politecnico, ormai il vessillo di libertà e di rivolta di un paese intero. Scontri, pestaggi, perfino i carri armati per circondare il Politecnico (e a schiacciare i manifestanti) per rappresentare un’icona indissolubile, tra aria irrespirabile dei lacrimogeni e urla della gente intimorita. Barricate, un centinaio di morti, moltissimi feriti, fino al blitz dei militari nel polo universitario da cui gli studenti continuavano a trasmettere messaggi del tipo: «Non abbiate paura dei carri armati, soldati siamo dei vostri fratelli, non diventate degli assassini». Un po’ gli slogan che negli ultimi due anni sono stati sciorinati durante le manifestazioni ateniesi contro il memorandum della troika e contro una crisi che ha distrutto un paese già fragile e socialmente frastagliato. «Di quel brando io ti ravviso al ferir tremendo in guerra, - recita l’inno nazionale greco - ed al guardo che la terra misurar sa in un balen: dalle sacre ossa degli avi qual già un tempo e forte e ardita or risorta a nuova vita, salve, salve o Libertà».

Ricordare oggi quel luogo simbolo, il Politecnico di Atene, e quell’anelito di libertà, dopo trentanove anni, serve non solo a celebrare asetticamente una ricorrenza o una tappa importante della storia. Quanto ad interrogarci sul livello di libertà materiale guadagnata da quel giorno in poi e sul livello di libertà mentale che le società post moderne dicono di avere, ma che poi in concreto non hanno. Perché il nemico che si cela dietro la sicurezza di sguardi fasulli e braccia invitanti non ha più le sembianze di cingoli o cannoni, non più quelle di tute mimetiche o di maschere antigas. Ma è l’immagine stessa di una società che si sta autodistruggendo, che non riesce più a cogliere gli impulsi propositivi, che si accartoccia nelle proprie insicurezza e indecisioni. Che pensa a soluzioni tampone invece che ragionare ad ampio respiro, che ha paura dell’altro quando l’altro è nelle sue stesse condizioni. Che sbaglia e, noncurante di quegli errori, ne commette di altri, più gravi, pericolosi e deleteri. Che cerca riparo bussando alla porta di comici e mestieranti, dopo anni di Pifferai e bugiardi di stato. Che si illude che la piazza o la pancia di un paese possano risolvere questioni ataviche. Che spera che un ipotetico domani possa arrivare senza quello scontro tra pensieri e idee che, come osservava Einaudi, produce il quid.            

«Ho avuto alcune idee folli. Volevo volare come un uccello. Sono salito su un albero e mi gettai in aria e quasi rotto il collo. Poi ho fatto di nuovo, perché ero sicuro che sarei stato in grado di volare». Le parole del noto compositore greco Mikis Teodorakis sono un pugno in faccia a chi rifiuta movimenti e trasformazioni. A chi resta seduto in poltrona mentre fuori c’è un mondo da affrontare e da cambiare, a chi pensa che ci sarà sempre qualcun altro che avvierà un’azione. Come quelli che un’azione l’hanno compiuta, quando nel novembre del 1973 hanno occupato il Politecnico di Atene per dire no a un regime e ad una limitazione ossessiva della libertà, dell’aria che serve a tutte le società, di quell’aria dove può librarsi in volo quell’uccello sognato da Teodorakis.

Fonte: Italiani quotidiano del 16/11/12
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