Da Ffwebmagazine del 18/06/09
«Il riconoscimento dell'eguale libertà degli individui è un principio rivoluzionario che produsse l'esigenza di dar vita (lo capì Jefferson) a una comunità politica, dove i sudditi diventavano progressivamente cittadini». La citazione di Roberto Vivarelli, docente alla Normale di Pisa, enuncia nella sua interezza il senso dell'appuntamento "Nazione, cittadinanza, Costituzione" fortemente voluto dalla presidenza della Camera dei deputati, che funge da apripista per il progetto "Patriottismo costituzionale e cittadinanza nazionale" in collaborazione con undici Fondazioni.
Come giungere a una grande e unica società aperta? Come impedire che la comunità multietnica presente oggi sul nostro territorio possa sentirsi estranea a esso, andando incontro a uno scompenso? E come far percepire ai cittadini l'importanza e la strategicità di un'integrazione vera e leale? Interrogativi ai quali una serie di autorevoli interventi hanno cercato di offrire risposte concrete. Lo Stato basato sul consenso poggia su una comunità aperta, sostiene Vivarelli. «Attorno al concetto di Stato si è aperta negli scorsi due secoli una partita per la verità ancora da chiudere». Il concetto di nazione prescinde dalla volontà dei singoli semplicemente perché si persegue il fine comune, attraverso l'apporto dei singoli. Sono parte di un unicum che va modellato grazie allo sforzo condiviso di ciascuna parte che, se presa singolarmente, non offrirebbe il medesimo contributo. Il ragionamento poggia sulla considerazione che oggi l'Italia è già un contenitore multietnico, e ciò rappresenta un elemento di per sé positivo. Preoccupa invece, secondo Vivarelli, la presenza ingombrante di particolarismi e di pregiudizi che non favoriscono di certo una serena integrazione.
Ma quale l'origine di questo fenomeno? Il docente lo fa risalire a un disorientamento del nostro modo di pensare che provoca una crisi identitaria. «Ci si dimentica - ha ammonito - che più una comunità è aperta, e più occorrono regole certe, frutto di principi irrinunciabili che siano inclusivi e corretti». Forse la nostra società farebbe bene ad accostarsi a un concetto antropologico alto, ovvero riconoscere in ciascuno il soggetto di un'identità morale. Ovviamente non è proponibile un indiscriminato pluralismo culturale, ma sarebbe utile riflettere su quanti sacrifici sono stati compiuti per ottenere la libertà di cui godiamo oggi, e soprattutto insegnarli alle nuove generazioni che considerano il tutto un fatto dovuto e compiuto.
Integrazione, allora, fa rima con acculturazione. Vivarelli ritiene quindi che compito dello Stato sia educare sì alla civiltà, ma anche e soprattutto alla morale, perché una «società e una scuola che rinunciano a inculcare i procedimenti che hanno generato il frutto della libertà e che non evidenziano le basi morali, commettono un errore imperdonabile in prospettiva. Bisogna insegnare per quale motivo ci sono cose che non si fanno».
Un'analisi che viene completata dalla riflessione circa il sentimento di cittadinanza che risiede nelle nostre menti. L'Italia, ha aggiunto Carlo Galli dell'università di Bologna, non è una repubblica fondata sulla nazione ma sul lavoro, «questo è il vero stato sociale. Il fatto che oggi qui si torni a riflettere sul senso della cittadinanza significa che essa è in crisi, per la trasformazione endogena del sistema di produzione capitalistico». Un dato oggettivo è rappresentato dal fatto che questi anni nei libri di storia del futuro saranno ricordati come anni di migrazioni, a causa della “porosità dei confini”, dunque essendo la politica un modo di essere degli uomini che ha a che fare con la determinatezza, deve «rifiutare quelle forme di rimbalzo sociale dinanzi al fenomeno migratorio. Esso va smontato e analizzato fuori dalle logiche partitiche».
Di pari passo va rafforzata la percezione della cittadinanza perche è su di essa che poggiano i tre elementi portanti della società, ovvero lo Stato, la nazione e l'individuo. E tutti insieme non possono che essere sorretti, come una innovativa impalcatura autoreggente, da quella solida costruzione sociale e democratica che si chiama Carta Costituzionale. Saprà resistere essa a queste nuove sfide combinate, si chiede Galli? La risposta è affermativa, anche in considerazione degli incentivi morali e sociali presenti nella Costituzione stessa, che spronano la politica, come ha saggiamente osservato Giorgio Rebuffa, docente di filosofia del diritto all'università di Genova, a farsi «politica del pensare, prima che del fare». In assenza di un tale sforzo mentale non si riuscirebbe a superare la fase di incertezza che caratterizza questi anni.
Ma l'allarme è suonato in chiave antropologica dal direttore dell'Istituto di scienze umane Aldo Schiavone, secondo il quale «esiste un disequilibrio che rischia di travolgere l'Occidente, causato da una vera e propria disconnessione, uno scompenso che stiamo diffondendo in tutto il mondo». Da un lato la velocità della rivoluzione tecnologica, che trascina finanza e rapporti sociali, dall'altro la fragilità della politica, che non riesce a tener testa ad una tecnica oggi sovrana. Più stato di diritto, quindi, sarebbe necessario per ovviare a un tale sbilanciamento. Il vero problema secondo Schiavone è che al momento non disponiamo di un vero e proprio paradigma politico della post-modernità, quindi urge costruirne uno valido e funzionale, perché «la strada dell'impero come costruttore di una visione globale è una via senza uscita. Prepariamoci allora a un'età nella quale vadano pensati insieme i diversi stati nazionali per un nuovo intendimento della politica». Di qui l'importanza di una nuova visione della cittadinanza, segnata dal riconoscimento dell'eguaglianza di specie e lontana dalle recenti definizioni socialistiche. Ma un richiamo secco alle responsabilità della politica rispetto ai tre soggetti (cittadinanza, nazione, Costituzione) è venuto dal rettore dell'università Cattolica di Milano, Lorenzo Ornaghi.
«Non chiudere il cerchio né ideologicamente né per pigrizia - ha osservato - contrariamente si determinerebbe una stagnazione della democrazia». Il riferimento è a certa classe dirigente, più preoccupata delle critiche alla propria immagine causate da una presa di posizione determinata, piuttosto che dalla bontà di un provvedimento. Il piccolo tornaconto personale, che sovrasta il senso del bene comune. Ornaghi ritiene che solo «tenendo aperto questo spazio che delimiti il sentiero politico da ciò che non lo è» si riuscirà nell'impresa, perché di impresa oggi si tratta, di impedire la degenerazione della democrazia in oligarchia. Nuove chiavi di lettura, quindi, ha proposto in chiusura il presidente Fini, per confrontarsi con una cittadinanza che, entrando nel terzo millennio, avrebbe bisogno di una politica maggiormente pensante.
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