mercoledì 24 giugno 2009

CITTADINANZA E COESIONE, LA POLITICA FACCIA LA SUA PARTE

Da Ffwebmagazine del 23/06/09

Cos'è la cittadinanza? Quale ruolo deve avere la politica nella costruzione di un progetto condiviso? E come si possono declinare insieme libertà soggettiva e senso di "comunità"? Ne parliamo con Savino Pezzotta, segretario generale della Cisl dal 2000 al 2006 e oggi deputato eletto con l'Udc e presidente del Cir (Consiglio italiano per i rifugiati).

D.Onorevole Pezzotta, l’Italia è oggi una nazione di cittadini, o spesso solo di individui che la popolano?

R.Si tratta di un fenomeno che si è determinato negli ultimi quindici anni, quando siamo rientrati in una società estremamente individualista. Direi che il soggetto individualista oggi è divenuto una sorta di proprietario. Le persone hanno così dimenticato la dimensione della relazione, e oserei dire delle solidarietà larghe per restringersi in ambiti più stretti. Ciò mette in discusione un altro degli elementi che a mio avviso definiscono la cittadinanza, ovvero la nozione di popolo.

D.E infatti si tende non usare più il termine “cittadinanza”, preferendogli “moltitudine”…
R.È una moltitudine individualista e frammentata. Ricomporre questo scenario dovrebbe essere compito della politica, ma al momento abbiamo una politica che ha inseguito la suddetta frammentazione e pertanto non mi propone più un’ idea di nazione e di Europa come elemento identitario, ma nemmeno un’idea di lavoro come oggetto coesivo. Mi propone invece una dimensione del territorio come separazione e distinzione, accentuando e corporativizzando il territorio stesso in questa accezione. Associarsi per respingere qualcuno.

D.È proponibile, secondo lei, un modello di società che finalmente prescinda dalla brutta politica? Quella, per intenderci, autoreferenziata e autocelebrativa, assolutamente non pensante.
R.Credo che la politica abbia un compito orientativo: se le classi dirigenti non offrissero anche l’idea di ciò che vogliono proporre, alla fine il quadro generale perderebbe ulteriormente di spessore. Se noi abbassassimo i livelli delle autoreferenzialità, dell’immagine rispetto alla concretezza, accentuando invece il tema del progetto rispetto alla polemica, probabilmente anche i cittadini ritroverebbero quegli elementi connettivi attorno ai quali raggrupparsi. Qui discutiamo se un esponente va o meno in televisione, se è padrone o meno di un partito; e invece dovremmo uscire da una simile logica sposandone una più mite, meno aggressiva ma che consenta a tutti di stare all’interno di una progettualità.

D.Ma poi dovremmo fare i conti con una dimensione differente dell’individuo, magari più estesa rispetto a quarant’anni fa, non crede?
R.Un dato significativo della nostra modernità è l’esasperazione dell’individualità, non c’è molto da fare, esiste. Quando tale soggettività mancava, ci si raggruppava all’interno di corporazioni, di classi. La conquista della soggettività individuale è stata senza dubbio un’ espressione di libertà che va salvaguardata, ma la libertà di ciascuno non dovrebbe mai diventare chiusa, rimanendo invece una soggettività di relazione. Oserei dire che da questo punto di vista la lezione del personalismo, sia laico che cristiano, ritorna oggi più di attualità rispetto a ieri, dal momento che recupera una dimensione di soggettività della persona ma lo fa all’interno della relazione.

D.Hobbes diceva che l’uomo è un animale che provvede alla fame futura. Lei pensa che oggi la nostra classe politica lo stia facendo?
R.A oggi la politica dovrebbe pensare di più al futuro, e non solo alla fame intellettuale ma anche a quella reale, vista la crisi mondiale che ci attanaglia. Se pensassimo alle questioni ambientali, ad esempio, ci renderemmo conto che depurando il ragionamento da tutti gli ideologismi ambientalistici, esiste un processo che indebolirà la produzione di cibo per il domani. Quindi si presenterà il problema di come distribuire non soltanto la ricchezza in sé, ma finanche il cibo. La politica deve essere fatta non per oggi, ma per domani, anzi per dopodomani. Traducendo in modo ancora più elementare, io faccio politica non per i miei figli ma per i miei nipoti, perché se non alzassimo lo sguardo verso le generazioni di dopodomani, non risolveremmo nemmeno i problemi più vicini. Tra l’altro questo è un tema di non facilissima comprensione, perché gli strumenti della comunicazione politica di oggi sono tarati sulla dimensione presente. Ad esempio, io appaio oggi in televisione, non domani, quindi ciò mi obbliga a una presentificazione che alla fine ha come conseguenza diretta la mortificazione totale e irreversibile della politica.

D.E se iniziassimo a pensare a una comunicazione politica meno vuota?
R.Sarebbe un punto di partenza, accanto però a un uso di nuove forme di linguaggi. Dovremmo fare lo sforzo di capire il diverso. È un’esperienza che ho fatto qualche giorno fa assieme ai ragazzi di don Mazzi: sentivo che il loro linguaggio era già proiettato sul futuro, mentre il mio era molto più radicato su un passato che non voglio dimenticare, e assillato dalla dimensione dell’oggi. Quindi se vorremo determinare un “oltre” credo che dovremmo cogliere il metro dei giovani, anche nella loro estrema semplificazione: ci aiuterebbe a collocarci diversamente. Ma per farlo dovremmo iniziare a studiarli e comprenderli veramente.

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