Da Ffwebmagazine el 18/06/09
Visi spenti e affranti, stereotipi consumati da bavagli imposti, telefoni muti, voci strozzate, cervelli in stand by. Quante volte ci siamo chiesti il perché di una società così “silenziata”? E quante volte ci siamo chiesti cosa fare per risvegliarla? Se ci sei batti un colpo, recitava la celebre frase di un film, e perché no, oggi quei colpi andrebbero battuti più volte, in mille modi, con mille voci, possibilmente chiare e determinate.
Nel tempo dell’equiparazione emozionale, dell’univocità di pensiero pericolosissima per la sopravvivenza delle menti, di certe dittature dei sogni, con format preconfezionati dal risultato scontato, una nuova ventata di freschezza potrebbe derivare proprio da una società rumorosa. Sì, rumorosa, che si preoccupa di gridare a squarciagola il proprio dissenso, capace di riempire nuovamente le piazze per testimoniare la propria solidarietà, il proprio sdegno, la propria condanna, o il proprio appoggio, la voglia di partecipare e di crogiuolarsi della propria esistenza sociale. Insomma, un paese nuovamente vivo che produce suoni e che finalmente fa rumore per qualcosa, e non solo per un goal della squadra del cuore. Vivo anche se la nazionale perde, come è successo ieri, in Sudafrica, contro l'Egitto.
E a proposito di Africa, Plinio il Vecchio ammoniva: «Dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo» e non sbagliava. Pare che a qualcuno sia dispiaciuto guardare in tivvù le partite della Confederation’s Cup perché disturbato da un particolare ronzio, simile a quello prodotto dalle zanzare. Non è il frutto del passaggio di qualche insetto, ma è l’originale e denso di significato risultato di uno strumento africano chiamato vuvuzela, da qualche tempo è amabilmente suonato negli stadi di calcio, dove se ne trovano di colorazioni differenti, a seconda della squadra di appartenenza.
Il suono rappresentava, secondo la tradizione, il soffio del loro Dio. Ma più recentemente lo strumento veniva utilizzato in occasione delle manifestazioni contro l’apartheid. Era il 16 giugno del 1976 e un gruppo di adolescenti a Soweto scese in piazza per dissentire da un’assurda disposizione della segregazione razziale causata dall’apartheid. In diecimila, suonando i vuvuzela, gridarono il loro no alle forze dell`ordine. Ne morirono centocinquantadue, e l`anno dopo altri settecento, così il governo fu costretto ad annullare l`insegnamento dell’africaans nelle scuole frequentate solo da neri. Fu un trionfo per il movimento anti apartheid.
Ma oggi chi ha paura dei vuvuzela? Forse la Fifa, che ne ha ostacolato l’uso durante le gare della Confederation’s Cup, per poi ammetterli con riserva. O forse alcuni gruppi formatisi su Facebook, che non hanno trovato di meglio da fare che occuparsi di uno strumento che, piaccia o no, è parte integrante del dna di un popolo e delle sue battaglie per la sopravvivenza e per questo, e solo per questo, va rispettato, senza facili ironie e sfottò assolutamente fuori luogo? Francamente quei gruppi, e perché no anche qualche dirigente della Fifa, avrebbero potuto dedicare qualche spicciolo in più del loro tempo a dissertare sulla malaria o sul virus dell’Hiv ancora corposamente presenti nell`intera regione, o su come manifestazioni sportive quali la Confederation’s Cup di questi giorni o il Mondiale di calcio del 2010, possano attirare l`attenzione su ben “altri” problemi locali.
«Non possiamo fare grandi cose – diceva Madre Teresa di Calcutta – possiamo fare piccole cose ma con grande cuore». Che vuvuzela sia, allora, che i cuori riprendano a battere non solo nelle gabbie toraciche dei singoli individui chiusi e repressi nelle proprie case, ammutoliti da un senso di costrizione improduttiva, che sferza gli animi, che chiude le casse di risonanza, che tappa le bocche e orecchie. No, servono invece cuori grandi e pronti a emettere suoni. E per favore, se avremo la fortuna di ascoltare nelle nostre strade e nelle nostre piazze il particolare suono di qualche vuvuzela, e se in quell’occasione il cretino di turno dovesse replicare infastidito, non abbiate timore: regalategliene una cassa, possibilmente multicolore.
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