martedì 27 luglio 2010

Ma perchè i blog fanno così paura?


Da Ffwebmagazine del 27/07/10

Jorn Barger, commerciante americano appassionato di caccia, decise un bel giorno di dicembre di mettere on line i propri pensieri e le proprie attitudini. Si trattava di una pagina personale allestita per veicolare informazioni e proposte con altre persone che condividessero con lui la passione venatoria. Era il 1997 e quello fu in assoluto il primo blog a vedere la luce. Quattro anni più tardi venne imitato anche in Italia. Ma adesso non si vuole fare una ricostruzione storico-enciclopedica della socio-rete, bensì ragionare sul fatto che se dovesse essere approvata la norma contenuta nel comma 29 del decreto Alfano, quella, per intenderci, che obbliga i blog alla rettifica entro 48 ore, si realizzerebbe qualcosa di profondamente diverso dallo spirito di quel 23 dicembre 1997. Decisamente contrario al principio di una libertà da coniugare orizzontalmente, senza pregiudizi e senza briglie.
In pratica, si vorrebbero mettere sullo stesso piano la stampa professionale, fatta da quotidiani, siti specializzati, testate registrate, e un mondo che si trova esattamente ai suoi antipodi. Il mondo dei blog, di una rete libera e personale di opinioni, percezioni, sensazioni, sentimenti e idee che viene dal basso. Dalla base, dalla strada, dalle case, dalle persone, dal mondo. Quella roba, per intenderci, che Barack Obama ha capito bene come valorizzare e ascoltare. E da cui trarre spunti. Ma che dalle nostre parti si pensa invece a stanare, quasi fosse un pericoloso nemico di vecchi Politburo del passato. E per giunta con una legge dello Stato. Continuando a ingrassare così quella deriva che fa della paura del nuovo il proprio vessillo inconfutabile.
Questo non vuol dire che i blogger dovrebbero pretendere di avere una sorta di “licenza di offendere”, ci mancherebbe. Ma il comma in questione non entra per niente nel merito del problema (se di problema di può parlare), piuttosto lo elimina direttamente.
L’attentato alla libertà dei blog altro non fa se non confermare l’assoluta arretratezza cultural-legislativa del nostro paese, uni dei pochi ancora a non aver metabolizzato gli effetti e le straordinarie opportunità della rete. Ma perché internet fa così paura? Cosa provoca cotanto tremolìo nelle gambe dei nostri governanti? Forse la condivisione, la trasversalità delle opinioni, il confronto, i paragoni, le divergenze, le convergenze? O le domande?
Fa specie che tali preoccupazioni facciano capolino sui media proprio nei giorni in cui viene alla luce il Diario della guerra in Afghanistan, diffuso dal sito americano Wikileaks, con dettagli e notizie sul conflitto ancora in corso. C’è un qualcosa di macabro in tale contemporaneità: è come se il destino si divertisse a mettere a confronto le deficienze strutturali italiane, culturali, politiche, burocratiche, con l’imprevedibilità delle libertà di altri paesi. Buffo come nessun esecutivo democratico si sia sognato di proporre una legge così antidemocratica, almeno escludendo luoghi ancora off limits per la libertà, come Cina, Iran, o Corea.
Scriveva Pablo Neruda in Confesso che ho vissuto, uno che di libertà e di fughe per la libertà se ne intende, che i contadini e i pescatori del suo paese avevano dimenticato da tempo i nomi delle piccole piante, dei piccoli fiori che «adesso non hanno un nome. L’hanno dimenticato a poco a poco e lentamente i fiori han perso il loro orgoglio. Contadini e pescatori, minatori e contrabbandieri - continuava il poeta cileno, Nobel per la letteratura nel 1971 - hanno continuano a dedicarsi alla propria asprezza, alla continua morte e resurrezione dei loro doveri, delle loro sconfitte». Dimenticando di chiamare le piante con i loro nomi. Dimenticando che «accanto al fiore che muore, ecco un altro fiore titanico che nasce».
Ecco, sembra che a volte anche nella democratica Italia, quella per intenderci dove trionfano le emergenze perenni, i bunker per i grandi tavoli di concertazione e le tragiche psicosi, ecco proprio in quel paese sembra che ci si dimentichi di chiamare le piante con il proprio nome.
C’è una pianta, coloratissima, rigogliosa e dal profumo inebriante, che si chiama libertà. Beh, vale la pena di ricordare a chi scrive le leggi, che ogni tanto va innaffiata. Con acqua fresca, pura. E non relegata in una soffitta ad appassire mestamente.

Chi teme una società insofferente a dogmi precostituiti?


Da Ffwebmagazine del 27/07/10

E se fosse la lussuria, non solo semplicisticamente un vizio, ma vera forza dirompente della natura, a farci ritrovare una primavera culturale? E se fosse la lussuria, intesa come intimo desiderio di esplorazione e di apprendimento, quella combinazione ancora ignota per scardinare le casseforti dell’apatia e dell’abulia sociale che caratterizzano il primo decennio del secolo? E poi, può essere attuale la rappresentazione plastica di una figura come il Don Giovanni? Il teorema, tutt’altro che azzardato, è trattato nel volume Lussuria. La passione della conoscenza da Giulio Giorello, docente di Filosofia della Scienza all’università degli Studi di Milano, direttore della collana “Scienze ed idee” ed elzevirista per il Corriere della sera, ma anche sostenitore di un principio tanto elementare quanto poco applicato: quello del coraggio di contrattaccare, anziché solo di ripiegare. Di pensare liberamente, anziché di controllare la direzione del vento. Di preservare le idee, perché spesso hanno più forza delle cose.

Il libro percorre un doppio sentiero: il desiderio di giungere alla conoscenza, al sapere. Ed il raggiungimento interiore di quel traguardo, che poi è base indispensabile per forgiare una comunità aperta. Un viaggio all’indietro nel tempo e in personaggi assolutamente irripetibili, da dove spicca la profondità della lussuria, come emerge dai due punti di vista iniziali, quello della futurista Valentine de Saint-Point, e dell’esponente del primo femminismo liberale Harriet Taylor. Ovvero lussuria che non trascina nella strada del peccato, come apparso in scritti passati e in ragionamenti tragicamente religiocentrici. Bensì lume nella ricerca della ragione, spinta centrifuga che si affaccia sull’essenza delle cose e delle anime, molla che rende libere menti appannate dalla consuetudine.

Giorello cita figure inaspettate in questa sua cavalcata storico-letteraria, come i protagonisti delle epopee di un tempo: dai Sumeri agli Egizi, dai Greci ad Agostino d’Ippona (annoverato fra i padri della Chiesa). E poi Dante, Giordano Bruno, il rigorista Calvino che ha coniato lo stereotipo del libertino; tutti diventano compagni di viaggio di Giorello, accomunati da una vivacità elettrizzante, assieme ad una folta schiera di pittori, disegnatori di fumetti, scultori. L’autore, nel suo ventisettesimo libro, insinua il dubbio che forse il vero Don Giovanni potrebbe essere una donna. Perché ha un’energia unica, perché sprigiona molecole di vita. Noi lo conosciamo soprattutto attraverso la commedia di Molière e l’opera di Mozart, ma si tratta di un personaggio tutt’ora attuale, diventando oggi anche «oggetto di polemica politica». Come riflette l’autore, «egli ha la capacità di coniugare insieme sesso e potenza. È colui che non si stanca mai e viene schiacciato solo dal potere che vuole fermarlo». Don Giovanni è «un grande mito del mondo moderno, nato nella Spagna della post riforma e diventato universale». Un’icona multicolore nel grigiore della post modernità.

Natura, idee, strumenti: la libertà passa anche dagli spunti tecnologici. Quest’anno tra l’altro, ricorre l’anniversario dell’osservazione lunare fatta con il cannocchiale da Galileo. Giorello sostiene che le idee nella scienza sanno incarnarsi in congegni materiali, e diventano ancor più imprescindibili quando l’uomo, così come accade oggi, per comodità cede il proprio cervello ad altri che pensano al posto suo. E cede anche alla mistificazione delle realtà, dal momento che non ne comprende i contorni veritieri. E’ingannato, depistato, fuorviato. Per questo, definito da Giorello un “animale abitudinario”, l’uomo dovrà essere costretto gioco forza a ricominciare a pensare, anche per non farsi ammaliare dalla retorica scientista. Per capire, e perché no, per sopravvivere.

Chi teme la lussuria e la passione di sapere, dunque, teme una società aperta, libertaria, insofferente a dogmi precostituiti? Sì, se capace di discernere tra i mille prodotti preconfezionati che le vengono propinati, tra il tutto pronto e subito che appare nella vita quotidiana come uno spot pubblicitario martellante. Perché difficilmente influenzabile e controllabile, dotata di antenne indipendenti che ragionino con logica e buon senso sui mille scenari che si insinuano come fiumiciattoli carsici nelle esistenze di ognuno. Chi ha paura della libertà e di una conoscenza più diffusa e incoraggiata teme nient’altro che la continuazione di una specie umana diversa da quella animale, perché meno incline all’istinto della bava alla bocca e più vicina a esempi che hanno fatto grande il passato. Perché, come scriveva Pablo Neruda, «la vita è più forte e più testarda dei precetti».

E A BOLOGNA IL BASKET SI GIOCA TRA I LIBRI


Da Ffwebmagazine del 26/07/10

Nascondere, criptare, coprire. Quante volte nella storia passata governi e società passive hanno fatto di tutto per impedire conoscenza e idee? Sperando che la gente comune, quella che si incontra per strada, quella che è migliore di quanto si possa credere, non avesse abbastanza voglia di sapere. Di approfondire, di toccare con mano, di paragonare, di scoperchiare vecchi teloni e vedere cosa c’è sotto. E così da rimanere standardizzata e controllabile. Mansueta.

Scriveva Pablo Neruda nelle sue memorie che quando la stampa francese dette notizia della sua presenza a Parigi, il governo cileno si affrettò a bollare la notizia come falsa, si trattava semplicemente di un sosia. Allora Neruda ricordò che in una discussione se Shakespeare avesse scritto o meno le sue opere, Mark Twain aveva ironicamente notato: «Veramente non è stato Shakespeare a scrivere quelle opere ma un altro inglese, nato lo stesso giorno e la stessa ora, morto per giunta alla stessa data e che, per colmo di coincidenze, si chiamava anche lui William Shakespeare».

Lontani, per fortuna, i tempi in cui bisognava guardarsi negli occhi e dire: è un sosia. Lontani dalle nostre parti, perché purtroppo in molte zone del globo permangono ancora sacche di repressione culturale, di paura della rete, e dei giovani, come l’Onda iraniana testimonia. Ma il punto è un altro: davvero conviene continuare a ignorare come la risposta possibile alla domanda di una nuova primavera stia tutta in una cultura nuova? Che sia multilivello, multiforme, che parta dal basso, ma pur sempre cultura? E poi: chi l’ha detto, per scendere nella concretezza del quotidiano, che essa non possa essere predicata orizzontalmente?
Un esempio di come questa esigenza sia avvertita intimamente in più ambiti, viene dalle cronache sportive degli ultimi giorni. Il presidente della squadra di basket Virtus Bologna, Claudio Sabatini, ha deciso di inserire nei contratti dei suoi giocatori la cosiddetta clausola università: saranno preferiti giocatori sì forti, ma che scelgano di non interrompere gli studi, visto che a Bologna l'università è una delle migliori d'Italia. «Chi gioca in Virtus - ha detto - è obbligato a studiare anche perché io preferisco parlare con giovani acculturati». E ancora: «La nostra politica è questa, cominciammo qualche anno fa a premiare con la prima squadra chi andava bene a scuola». La risposta del nuovo acquisto Nicolò Martinoni non si è fatta attendere: «A Varese studiavo economia, ma ho lasciato. Qui a Bologna, dove c'è una storia quasi millenaria e un ateneo di primo livello e con tante possibilità, riprenderò. Ma non ho ancora deciso in quale facoltà. Credo che un giocatore possa giocare fino a 30-35 anni: dopo c'è bisogno di saper fare qualcos'altro».

Alla faccia dello stereotipo che accosta sport a non-conoscenza. Il seme è stato gettato, c’è chi si è precipitato a innaffiarlo. Significa che una volta aperto il pertugio, non tarderanno a spalancarsi altri buchi. Che squarceranno varchi, che vorranno dire la loro. Tutto sta a iniziare, poi il seguito verrà da solo. In questi giorni, per passare al calcio, il difensore della Juve e della Nazionale Giorgio Chiellini si è laureato in Economia. Due volte bravo, perché non è facile studiare e praticare professionalmente uno sport ad altissimi livelli. Ma il suo merito non è stato solo quello di essersi conquistato un titolo accademico, ma di aver compreso come la conoscenza non può essere aprioristicamente preclusa. E non mancano, negli ultimi due lustri, altri sportivi impegnati sui libri. Andrebbero solo stimolati a fare meglio, incoraggiati a non tirarsi indietro e non solo a fare canestro o a segnare gol importanti. Così come fatto dal presidente della Virtus Bologna.

Perché la cultura non è fine a se stessa, non serve solo a forgiare professionisti o ad arricchire curricula e percorsi formativi. Essa aiuta a comprendere, armonizza cittadini e cittadine, sostiene il progresso di una comunità, contribuisce allo sviluppo di interi Paesi. E poi apre le menti, plasma personalità, rafforza idee e prospettive. Insinua dubbi, provoca domande e curiosità. Come non ricordare le parole del filosofo norvegese Jobtein Gaarder: «Non devi mai piegarti davanti ad una risposta - ammoniva -. Una risposta è il tratto di strada che ti sei lasciato alle spalle. Solo una domanda può puntare oltre». Fare domande, e ancora altre, senza fermarsi. Anche a questo serve una cultura trasversale, senza lucchetti che la rendano irraggiungibile. Ma a patto di volerla veramente.

mercoledì 21 luglio 2010

Qualcuno ascolti Polanyi senza paura per il nuovo


Da Ffwebmagazine del 21/07/10

In Europa c’è un Paese che ha paura: non solo del terrorismo, della crisi economica, della scarsa natalità infantile, della diversità e delle minoranze. Ma anche del progresso e dei vantaggi derivanti dalle tecnologie. Il passaggio al digitale nel resto del mondo è visto come una straordinaria opportunità di sviluppo e di guadagni, ma in Italia no, perché si rischia addirittura di ottenere un mancato incasso per lo Stato di circa quattro miliardi di euro. Il cosiddetto “switchover” consentirà di liberare spazi nelle frequenze, in virtù del passaggio dall’analogico al digitale. Le porzioni di frequenze che si renderanno disponibili, quindi, verranno messe all’asta, per arricchire l’offerta e per migliorare l’intero sistema delle telecomunicazioni.

Gli Usa si sono mossi per tempo. Già da due anni hanno messo all’asta frequenze pari a venti miliardi di dollari. Pochi mesi fa è stata la volta della Germania, che ha offerto agli operatori telefonici alcune frequenze in precedenza occupate dalle tv, con un incasso complessivo di quattro miliardi e mezzo di euro per le casse dello Stato. Dunque il mercato si è improvvisamente aperto, sta all’intelligenza dei singoli Paesi non farsi sfuggire occasioni irripetibili come questa. Pare che in Italia le aste sulle frequenze non si vogliano fare. Ma come, verrebbe da chiedersi? Nell’anno della recessione e della rigida manovra economica, dove moltissime categorie produttive assistono a sforbiciate orizzontali, proprio in tale frangente l’erario si disinteressa di un guadagno così ingente? Sulla materia si va avanti a colpi di delibere emesse dall’Agcom.

Le reti nazionali ammontano complessivamente a 25, ottenute dalla tecnologia digitale. Di queste, 20 sono state assegnate di diritto a chi già possedeva le frequenze analogiche. Quindi 5 a Rai e Mediaset, 3 a Telecom Italia, e poi Europa7, ReteA e Telecapri. Le restanti 5, che rappresentano il “dividendo digitale interno”, sarebbero da assegnare a operatori televisivi alternativi, così come esplicitamente prescritto dall’Ue. E qui si riscontra l’anomalia tutta italiana, perché esse non verranno messe all’asta, bensì, come dichiarato da Corrado Calabrò, a capo dell’Agcom, saranno soggette a una procedura comparativa.
Una giuria, composta da membri del Governo, sceglierà in base a parametri “autonomamente definiti”.

Sembra che alla fine di questo procedimento, a decidere sarà il ministro per lo sviluppo economico, a oggi - dopo il caso Scajola - ancora nelle mani del presidente del Consiglio, che è praticamente proprietario di uno dei due maggiori poli televisivi nazionali. L’anomalia nostrana sta nel fatto che la procedura in questione non sarà allestita solo per nuovi operatori, ma estesa anche a Rai e Mediaset, che in questo modo potranno arricchire il proprio bagaglio con altre due di quelle cinque reti, ciascuna con la possibilità di diffondere sino a sei canali. E mantenendo così lo status quo antecedente all’ingresso sul mercato delle nuove tecnologie legate al digitale, dal momento che si rafforzerebbe inevitabilmente il vecchio duopolio. Escludendo di fatto nuovi soggetti. Il digitale, anziché essere un volano di novità, si potrebbe tramutare in un’occasione sprecata da tutti, Stato che non incassa e nuovi operatori che non vengono investiti di nuove opportunità. Continuando a ingrassare il ritardo tutto italiano nel cogliere le sfide della modernità, in questo caso tecnologica.

Ma non è tutto: perché sembra che da questa situazione siano stati esclusi gli operatori di telefonia, che avrebbero invece potuto utilizzare la porzione di banda larga resasi disponibile dal digitale, per portare internet mobile veloce lì dove in Italia ancora non c’è. Con lo scenario descritto, quelle regioni non potranno nemmeno migliorare il proprio strumento tecnologico, perché la banda che si è liberata verrà occupata dalle tv. È stato stimato che se in Italia, al netto di commi e di procedure delle varie autorità, si decidesse finalmente di mettere all’asta per gli operatori telefonici alcune porzioni di quel grande agglomerato di frequenze che si è liberato, lo Stato potrebbe incassare circa quattro miliardi di euro.
Ma a oggi sembra che questa prospettiva non entusiasmi i cassieri dello Stato, che in qualsiasi altro Paese del mondo farebbero l’impossibile per non farsi sfuggire una cifra del genere e un’occasione di sviluppo tecnologico simile. Diceva Michael Polanyi, «l’uomo è innovatore ed esploratore per natura»: ma chi lo ascolta da queste parti?

giovedì 17 giugno 2010

Meglio il rumore del silenzio. E allora, forza vuvuzelas!


Da Ffwebmagazine del 17/06/10

Chi ha paura delle vuvuzelas? Troppo rumore, dicono i suoi detrattori. E distraggono dalle preziose indicazioni degli allenatori, aggiungono gli addetti ai lavori dai campi di calcio dei Mondiali. Addirittura si registrano appelli in prima pagina postati da illustri critici televisivi, che magari potrebbero concentrarsi su altre emergenze (vere), come i prossimi palinsesti Rai che, si dice, verranno “alleggeriti” di mille ore di news. Ma questa è un’altra storia.

Forse non tutti sanno, per tornare al tema, che le vuvuzelas non sono solo «le fastidiosissime trombette, noiose come uno sciame di zanzare inferocite, che non appartengono al repertorio zulu». Ma rappresentano qualcosa di più: il suono che secondo la tradizione locale incarna il soffio di Dio. E poi vennero utilizzate in occasione delle manifestazioni contro l’apartheid. Era esattamente il pomeriggio di 34 anni fa, il 16 giugno del 1976, quando un gruppo di ragazzi, per lo più adolescenti, manifestò nella piazza di Soweto per reclamare un diritto tanto semplice quanto raro da quelle parti. Gridavano il loro no alla segregazione razziale, mica protestavano contro la kebabberia appena aperta sotto casa. Erano diecimila, e la loro marcia venne scandita dal suono delle vuvuzelas. Ne morirono centocinquantadue, negli scontri con le forze dell’ordine; l’anno successivo altri settecento fecero la stessa fine. E così il governo fu costretto ad annullare l’assurdo insegnamento dell’afrikaans nelle scuole frequentate solo da neri.

Quel giorno, con quei sacrifici, quelle urla e, perché no, con quelle vuvuzelas, segnò una tappa decisiva nella lotta anti-apartheid. Per questo, quando qualcuno scrive che «se il Sudafrica di Mandela si fa conoscere in tutto il mondo per il ronzio stordente delle vuvuzelas significa che qualcosa non ha funzionato», non fa solo un torto ai sudafricani, ma anche al resto del mondo che invece proprio con quel suono, vuol manifestare il proprio dissenso. Vuole alzare un dito e dire la propria, esprimendo contrarietà, azzannando l’apatia, rompendo la monotonia dei pensieri. Quella struggente patologia che sembra infilarsi negli interstizi dei pensieri va contrastata con uno strumento facilmente reperibile, per nulla costoso e che non necessita di un particolare requisito: esiste già in natura e si chiama rumore.

Il rumore incarna il dissenso, dà corpo alla vivacità. Esprime in tutta la sua forza dirompente la non-assuefazione, è segno di materia grigia che reagisce e che non si abbandona supinamente allo status quo, o a quello che passa il convento, o al vento che in un preciso momento soffia in una determinata direzione. Ma fa qualcosa di più, e di meglio. Si sforza di virare, di influenzare, di corroborare o di criticare, apertamente e senza timore. Nella consapevolezza che il silenzio, invece, racchiude dentro di sé elementi di negatività: l’abbandono delle idee, il vuoto omertoso, la chiusura a riccio, il mutismo delle menti. E allora viva le vuvuzelas, perché sono vive, perché veicolano un messaggio multicolore, di rottura. Perché come diceva Luigi Einaudi, «l’idea nasce dal contrasto».

mercoledì 16 giugno 2010

Un anno fa, l'Onda iraniana. Adesso non lasciamoli soli


Da Ffwebmagazine del 16/06/10

A un anno dalla rivoluzione verde sbocciata nelle strade di Teheran e a un anno dal sacrificio di Neda, il mondo si interroga. E si interroga su cosa abbia rappresentato quell’esperienza, su come foraggiarla e su quali basi far muovere l’azione della comunità internazionale. Forse non a tutti sono chiari i contorni di questo movimento e più in generale le caratteristiche di una stratificazione socio-culturale vogliosa di emergere. Il 60% degli studenti iraniani è di sesso femminile; donne sono anche il 50% degli scrittori del paese. Si registra una vitalità femminile che andrebbe incoraggiata e promossa, anche dall’Europa.

La questione iraniana ha di fatto cambiato gli assetti geopolitici, l’etica, il linguaggio della narrazione di giovani vite scese in piazza per manifestare. E per riaffermare la propria libertà. Dodici mesi dopo ci sono due rischi: che sbagliando diagnosi, si sbaglino strategie, analisi e provvedimenti. E che ci si faccia distrarre dalle questioni finanziarie legate alle risorse di quella porzione di mondo, senza curarsi delle speranze di un popolo di studenti spruzzati di verde.

Difficile che le sanzioni approvate dall’Onu qualche giorno fa potranno realizzare quello che l’Onda non ha completato. Lecito porsi quesiti, ma con la consapevolezza che il problema della libertà degli iraniani non vada affrontato per “compartimenti stagni”, per dirla con le parole di Benedetto Della Vedova, ma si interfacci con una molteplicità di eventi e considerazioni. Il pensiero va alla nave dei pacifisti (?) attaccata da Israele, al dossier Libia che “andrebbe maneggiato con più delicatezza” e al mancato ruolo dell’Unione europea. Difficile pensare che un paese dove si impiccano gli omosessuali e i dissidenti spariscono nel nulla possa temere sanzioni che, nei fatti, non sembrano poi così dure. Per giunta stemperate da una posizione di traverso della Turchia (era nel rischio delle cose) e del Brasile, vera sorpresa degli ultimi giorni. Rileggendo le ultime note di cronaca, il compromesso raggiunto prevede che l’Iran potrà far arricchire all’estero una piccola porzione di uranio, 1200 chili, e dal territorio turco riceverà uranio già raffinato.

Sul contesto generale hanno influito non poco i fatti di sangue della Freedom Flotilla dello scorso 31 maggio, con nove vittime, a seguito dei quali molte iniziative sono state annunciate: il primo ministro turco Erdogan ha minacciato di ridisegnare i rapporti commerciali e militari con Tel Aviv; Ahmadinejad da Istanbul ha chiesto una prova di fedeltà alla Russia, sventolando un countdown «della distruzione contro il falso regime sionista di Israele». In questo contesto l’Onu ha deciso di intraprendere la strada delle sanzioni, ma non si sa fino a quando si potrà parlare di sanzioni, perché in realtà non si tratta di obblighi ma di consigli. L’unica imposizione riguarda il non poter acquistare armi pesanti come missili ed elicotteri. Sul fronte commerciale il “consiglio” delle Nazioni Unite è quello di prevedere ispezioni a bordo di navi e aerei iraniani. Si dice che a Teheran potrebbero facilmente ovviare a questo provvedimento, cambiando nomi e bandiere ai cargo.

Altro consiglio, quello di sospendere temporaneamente le transazioni già in atto con le banche. Nessuna notizia, invece, sull’importazione di benzina. Dettaglio che apre più di un’ipotesi, sul fatto che il pacchetto di sanzioni dell’Onu siano poca cosa. Tra l’altro il portavoce del ministro degli esteri iraniano, Ramin Mehman Parast, ha detto che le sanzioni non giungeranno ad alcun obiettivo, sostenendo che l’Occidente non può pretendere che un «membro del Trattato di non proliferazione nucleare rinunci ai suoi diritti», sviluppando un pacifico programma nucleare.

Altra nota dolens, il ruolo dell’Europa. Catherine Ashton, alto rappresentante della politica estera dell’Unione, a 24 ore dall’approvazione delle sanzioni si è lasciata andare un: «Se l’Iran volesse ancora venire a parlare con noi…». Manifestando quantomeno una stravaganza diplomatica non solo personale, ma più in generale dell’intera Ue. Non sarà con tale timidezza che si bloccheranno le bombe e le repressioni del regime iraniano. Non è con azioni generiche ed ispirate dalla logica dell’emergenza che si offriranno sponde efficaci al movimento dell’Onda.

Come impedire, dunque, che quell’esperienza non venga ridimensionata? Nessuno potrà escludere a priori fasi carsiche, con interruzioni fisiologiche e con un successivo moto di ripresa. Ma, ad esempio, pochi avrebbero scommesso che il regime degli Ayatollah avrebbero potuto contare oggi su di un alleato inaspettato, il Brasile. L’Onda, allora, va ingrossata, coccolata, diffusa. Perché rimane l’unica via iraniana per la democrazia e l’Ue ha l’obbligo morale e politico di sostenerla, difendendola dai tentativi di delegittimazione. Lo scorso 12 giugno i giovani iraniani all’estero hanno manifestato in tutte le principali capitali del pianeta: per dare un segno, per far sventolare un colore, il verde della speranza, il verde dell’Onda. Non lasciamoli soli.

martedì 15 giugno 2010

La parità non può essere solo nei doveri


Da Ffwebmagazine del 15/06/10

Donne e innalzamento dell’età pensionabile: il problema non è solo nel merito, quanto nel metodo e nel contesto in cui è attuato. Per dirla con le parole di Flavia Perina, direttore del Secolo d'Italia e parlamentare del Pdl, a fronte di un adeguamento a livelli pensionistici europei, ci siano anche livelli di vita e parità di condizione europei. La proposta di parificare con quella degli uomini la pensionabilità delle donne italiane nel pubblico impiego apre l’ennesimo ragionamento sulla contingenza. Perché, al momento, ci si trova dinanzi una condizione economica difficile, per cui urgono interventi radicali e rapidi. Ma se sulla questione si fosse iniziato a confrontarsi in tempi utili, ci sarebbe stata l’opportunità di una maggiore gradualità.

Al di là del fatto se sia condivisibile o meno far lavorare tutti di più - e oggi forse è una strada obbligatoria - sono mancati i cuscinetti che armonizzassero decisioni drastiche. Le donne italiane non vivono come quelle europee, questo è un dato di fatto. Non godono degli stessi servizi, delle medesime infrastrutture, per non parlare dell’immagine sociale e della cultura di approccio, non solo nelle relazioni umane ma anche e soprattutto professionali. Come la possibilità di accedere ai posti di comando della pubblica amministrazione, o dei cda di aziende quotate, o nei cosiddetti posti di potere, dove la percentuale italiana è ancora troppo bassa.

Si pensi che in questi giorni il governo di Angela Merkel sta discutendo se includere gli asili nido all’interno dei diritti delle donne. Lontana l’Europa. E, allora, visto che le donne sono il terminale della cultura nazionale italiana (in quanto mogli, mamme, lavoratrici), che si preveda una sorta di riequilibrio. Il pensiero corre a interventi sull’Irpef, a sgravi fiscali, a enti locali che provvedano con asili municipali alle esigenze delle famiglie. Ovvero misure che armonizzino il sistema complessivo, scrostando quel velo di iniquità che esiste. Sì a detrazioni agevolate, iniziative fiscali e sociali, ma che non si continui solo a chiedere alle donne, senza proporre misure che ridefiniscano diritti e doveri. È altrettanto chiaro, però, che una razionalizzazione del mercato del lavoro e delle finestre pensionabili, sia a questo punto indispensabile. Perché allora non utilizzare quei soldi che con l’innalzamento si risparmieranno, per politiche a vantaggio delle donne? Sarebbe la risposta migliore, di una politica che giustamente si trova costretta a guardarsi attorno, attivandosi in tutti i settori. Ma che al momento dovrebbe fare un passo in più, affiancando al rigore anche un minimo di iniziativa.

Capitolo a parte meriterebbe l’immagine femminile nel suo complesso, che accusa ancora una posizione di svantaggio in Italia. Basta dare un’occhiata ad una pubblicità che reclamizza cibo per cani, i cui manifesti affissi sul lungotevere romano ritraggono una donna nuda. Che poco o nulla di attinente ha con il prodotto in questione. Il gap quindi con l’Europa è soprattutto culturale, dove le intersezioni sociali al di sotto delle Alpi appaiono ben ancorate a un certo stereotipo della donna. Per questo, la parificazione con l’Ue andrebbe fatta non solo sull’età pensionabile, ma anche nel campo dei servizi e della considerazione mentale. Non c’è dubbio inoltre che la condizione femminile sia cambiata radicalmente negli ultimi cinque lustri, a causa dell’allungamento dell’età, dei lenti progressi di carriera, dove fra l’altro si sconta ancora un ritardo atavico rispetto alle opportunità che gli uomini hanno. Certo, l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne nel pubblico impiego, può essere utile in prospettiva di un reinserimento ma, è la critica che hanno trasversalmente mosso Emma Bonino, Flavia Perina, Linda Lanzillotta, Fiorella Kostoris, Maria Ida Germontani e Pina Nuzzo, sarebbe servita maggiore gradualità.

Palese poi, come oggi, dinanzi a una crisi di questa portata e a un’emergenza impellente come gli indici dei debiti pubblici e la mancata crescita dimostrano, la risposta dello Stato non può che essere immediata e tarata sulla contingenza. Accade che la politica - sbagliando - proceda spesso per compartimenti stagni, senza preoccuparsi di dialogare con tutte le componenti, avviando un’iniziativa globale. Quasi smarrendo l’esigenza di interconnettere le proprie azioni, ed evitando in questo modo disomogeneità e squilibri. Ma allora quando verrà il tempo di una politica che non si faccia prendere in controtempo dagli eventi, e che ragioni ad ampio respiro, anziché farsi risucchiare da dinamiche non sufficientemente previste?

sabato 12 giugno 2010

Quando destra e sinistra non significheranno più nulla


Da Ffwebmagazine del 12/06/10

Se e quando l’originaria architrave della politica, in sospeso tra artificio e natura, sarà consumata; se la politica saprà intrecciarsi attorno ad altre ellissi sociali, solo allora destra e sinistra non significheranno più nulla. Termina così Carlo Galli, docente di storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna, il suo pamphlet Perchè ancora destra e sinistra, un’indagine genealogica attuata con gli strumenti e le categorie di una filosofia che si spinge, a ritroso, in un viaggio fino alla radice delle due entità. Sostiene che le due categorie oggi sopravvivono non per la permanenza dello spazio politico moderno assieme al quale si sono formate, ma perché al loro interno ci sono ancora una forza ed un problema «che è qualcosa di più che non l’eco di un Big Bang originario».

Entrambe interpretano, secondo Galli, elementi originari e ineludibili della modernità: così non si potrà dire che una è falsa politica, l’altra vera, «perché l’indeterminatezza della politica e la sua contingenza costitutiva, non lo permettono»”. In questa analisi complessa fa riferimento a varie destre, diverse, alcune che si sono rispecchiate con la modernità, altre accartocciate al loro interno; alcune economiche, altre politiche. Incubando così i germi di quelle che sarebbero diventate le destre successive. Non solo passatiste, conservatrici o reazionarie, ma anche avanguardiste, futuriste, anarcoidi, liberiste. Testimoniando un’estrema vivacità nel diciannovesimo e ventesimo secolo, spesso in contrasto fra loro. E prosegue i suoi rilievi raffrontando tali destre ad elementi diversificati come popolo, religione, economia, individuo. Analoga analisi, poi, per le sinistre degli ultimi duecento anni.

Galli definisce destra e sinistra come due forme di pensiero moderne, in quanto molto divergenti. Aperte, ma diversamente, alla contingenza. Tentate dall’effetto necessità. Non condivisibile appare però quando l’autore sostiene che «se anche si può pensare in teoria, oltre la destra e la sinistra, la pratica lo impedisce, ed è proprio la presenza o l’assenza della centralità della politica del soggetto e della sua uguale dignità a fare la differenza».

Si dice inoltre certo che la democrazia senza aggettivi «non può non essere l’obiettivo di forze variamente orientate a sinistra». La democrazia delle destre sarebbe invece sempre caratterizzata da protesi di complemento: di mercato, nazionale, protetta, cristiana, autoritaria. Ma chi l’ha detto che la destra italiana non può epitetarsi come democratica e basta, e dovrebbe necessariamente essere corroborata da un sostantivo che la identifichi? Quando nel libro si accenna che la destra è per la sicurezza nel senso poliziesco dell’ordine pubblico circa l’immigrazione, non si tiene conto di altre posizioni dialettiche che, ad esempio, non condividono la repressione - come dimostra il fallimento delle ronde - ma spingono per un’integrazione armonizzata. O quando si accenna al fatto che la destra è per il rischio nell’economia, non si considera che non tutti a destra credono ad una pura anarchia incontrollata del capitalismo, che mortifichi ad esempio le fasce più deboli della popolazione.

Inoltre non convince quella netta definizione di competenze e modalità di azione che si scorge nelle conclusioni. Dal momento che il panorama interno ed esterno al paese si è evoluto, circa esigenze e comportamenti. E allora, pur certificando il certosino impegno storico, ciclicamente letterario-filosofico che si evidenzia nella ricostruzione, forse si potrebbe accennare ad uno spunto di proposta, nell’aggiungere al titolo originario un punto interrogativo finale, Perché ancora destra e sinistra?. Non più, quindi, solo per declinare correttamente modalità e percorsi del cleavage destra/sinistra, quanto piuttosto per guardare oltre gli steccati che delimita(va)no i due ambiti. E che oggi, a partire da moltissimi temi di rilevanza trasversale, non hanno motivo di esistere. Chi può dire con certezza che oggi l’ambiente sia un argomento caro alla sinistra? O che la sicurezza sia ad esclusivo appannaggio della destra? E se sì, di quale destra e di quale sinistra? E soprattutto quale sicurezza?

Ecco che la conclusione del volume posticipata da Galli in un futuro lontano, si sta invece avvicinando sempre più alla stretta attualità, in modo pragmaticamente oggettivo. Perché, nella società che si trasforma rapidamente, con la globalizzazione, con i social forum, con tecnologie che irrompono nel quotidiano, con battiti di ali di farfalle che riecheggiano dall’altro lato del pianeta, vi sono battaglie da portare avanti senza un’etichetta identificativa. Si pensi alla legalità, alla green economy, alla salvaguardia delle fasce più deboli: su quali principi stabilire cosa appartiene a chi nella politica di oggi? Semplicemente destra e sinistra non conserveranno le forme attuali, stanno già cambiando, si sono già, seppure solo in parte evolute. E non sarebbe saggio tornare indietro.

Warsan Shire: «Diamo voce a chi non ne ha»


Da Ffwebmagazine del 12/06/10

Le sue poesie non sono ancora tradotte in italiano, qualche assaggio della sua penna lo si deve alla rivista Lo Straniero. Ma il popolo, non solo somalo, della rete conosce Warsan Shire per la sua costanza. Quando insiste nel parlare di Africa, di guerra, di dolori, di sconfitte, di cose reali. E non per un velo di pessimismo forzato, ma per «dare voce a chi non ha voce», per raccontare quello che accade in zone lontane, di cui si odono bisbigli che invece sono grida. Nata in Kenya da genitori somali in fuga dalla guerra civile, Warsan vive a Londra da quando aveva sei mesi. Oggi, ventidue anni dopo quella fuga, dà spazio a storie di diseredati e incompresi.

Pur vivendo a Londra da piccolissima, ha un forte legame con la sua Africa. Come lo coltiva?
Se osservo le mie radici, non mi sento una cittadina britannica ma africana ed è quella la mia identità. Prima di tutto sono somala e mi sforzo di coltivare questo status con il legame familiare, con il cibo, con le tradizioni e le usanze. Rivendico il mio essere africana, è una cosa che non passa inosservata e cerco di portarla innanzi con orgoglio.

In alcuni dei suoi versi, parla di asilo e di confini: cosa rappresentano questi due concetti?
I miei genitori sono stati prima migranti, mio padre è un esiliato politico da molto tempo. Io stessa sento di appartenere a una casa in cui non sono mai stata. Quindi, anche se non ho fatto alcuna esperienza diretta in quei luoghi, come i campi profughi, comprendo perfettamente il significato di quelle due parole.

Sul suo blog ha scritto «non ho mai trovato bella la bellezza, mi piace cercarla». Perché non le piace? Perché può essere fonte di dolore, o perché pensa sia fuorviante?
Forse la gente si aspetta sempre che i poeti parlino solo di cose belle, di fiori o di elementi soavi e pieni di grazia. Invece penso che, per il luogo dove sono nata, io debba parlare da una piattaforma differente. Dove io possa dare voce a chi non ha voce, parlando magari di cose brutte, inaccettabili ma reali, di cui la gente o si è scordata o non riesce più a parlare.

Molte sue storie affrescano il dolore delle donne che, dice, nonostante tutto continuano ad amare. Chi dà loro questa forza?
Personalmente, ma non solo io, percepisco le donne africane come eroiche. In questo contesto, tra l’altro, si è sedimentato il mito di “mamma Africa”, ovvero una donna che nonostante angherie e prevaricazioni, riesce non solo provvedere al benessere della famiglia, ma anche a farsi carico di tutti gli altri problemi. Tengo molto a dire che le donne citate nei miei pensieri, devono sì continuare ad amare ma soprattutto ad essere amate.

Italia per voi somali vuol dire dominio coloniale ieri, ma tante storie di speranza oggi: come vede il nostro paese?
È la prima volta che lo visito e non conosco nemmeno l’esperienza dei somali che arrivano per via dei flussi migratori. Ma posso dire che già dalla lingua si vede se c’è la vicinanza, che prima era coloniale e oggi dovrebbe essere un qualcosa di diverso e visibile. Non c’è abbastanza consapevolezza da entrambe le parti, forse ancor di meno da parte degli italiani. Mi auguro che vi sia più dialogo, sia sulla storia che ci ha interessati, sia sulle connessioni che abbiamo, dal momento che siamo due popoli legati l’uno all’altro. Ricordo che mia madre, quando da bambini ci rimproverava, lo faceva in lingua italiana. E la lingua credo sia qualcosa di fondamentale per una cultura.

Quanto l’ha influenzata la figura di suo nonno, il poeta Cabdulqaadir Xirsi Siyaad “Yamyam”?
Mia madre mi parlava sempre di mio nonno, un uomo gentile, dalla pelle molto scura, che faceva il veterinario. Ma ciò di cui più mi raccontava, perché era molto attaccata ai suoi genitori, era il forte legame esistente tra i nonni. Una storia d’amore infinita, sfociata in ventidue figli che lei gli ha dato. E lui non ha mai sposato un’altra donna, all’infuori di mia nonna. Più che un’influenza diretta di mio nonno, io ho vissuto la loro storia d’amore come un esempio. Nella mia testa è l’uomo nero perfetto.

Come si è inserita in quel patchwork che è la multiculturalità londinese?
È vero che la multiculturalità londinese esiste, e me ne rendo conto quando vado altrove. Però è anche un po’ stereotipata. Ho notato che all’interno dell’industria culturale, loro tendono a impacchettare prodotti multiculturali, per cui mi sono spesso trovata in contesti specifici per il solo fatto di essere somala. Non dico che non sia una realtà, ma dal momento che non tutti i somali fanno poesia, quegli artisti che ci sono rientrano in quell’ambito solo perché hanno radici somale. Direi che Londra confeziona la multiculturalità, facendone un oggetto che si vende.

Ha detto di recente: «Scrivo perché la condizione umana non è semplice e a volte neppure bella». Possono la cultura, la musica, la rete e i blog sostenere un rinascimento dell’Africa?
Ho iniziato a usare la rete come modo per mantenere i legami e per condividere film, musica libri. A un certo punto ho provato a scrivere pensieri, poi le prime poesie e così si è composto il tutto. Internet è stato fondamentale, è la chiave del futuro, senza di esso dubito che sarei riuscita a pubblicare qualcosa.

mercoledì 9 giugno 2010

Quando lo Stato veniva prima di tutto


Da ffwebmagazine del 08/06/10

Una patria, se non è per tutti, non può essere di tutti. Ne Gli scritti politici Giuseppe Mazzini faceva così riferimento all’inclusione dei cittadini nel mondo produttivo. Valorizzando un aspetto, il lavoro, che è principio fondativo della carta Costituzionale e che si riallaccia ai dettati democratici e repubblicani presenti nel movimento risorgimentale. Quest’ultimo va ricordato ed approfondito alla luce di quella grande stagione su cui si basa il nostro essere Stato e nazione, il nostro stare insieme. E non, come ha osservato il presidente della Camera Gianfranco Fini, fatto oggetto di revisionismi fuorvianti e antirisorgimentali.

Ma come impostare oggi un’analisi serena e produttiva su Stato e nazione, alla vigilia di una celebrazione storica e culturale per il paese? Magari partendo da due figure strategiche della politica italiana. Che in frangenti differenti, ma con il medesimo senso delle istituzioni e totalmente rapiti dal rispetto per il bene comune, hanno contribuito ad un’impresa memorabile. Ricasoli e De Gasperi hanno rappresentato, nel merito delle singole azioni, due momenti di altissima politica, dove il concetto unitario di Stato era posto sopra tutto il resto. Dove era espressa una certa idea dell’Italia che rifugiava particolarismi ed isterismi, ma si concentrava sull’unità nazionale. Lontano da logiche municipali, quasi impostando l’amministrazione della cosa pubblica come se fosse il proprio podere e ,di conseguenza, profondendo energie e programmando scrupolosamente ogni mossa. Due direttrici che devono rappresentare un insegnamento per la politica di oggi.

Valori fecondi di Ricasoli erano quel binomio tra unità nazionale e libertà civile, tra progresso e rigore morale, tra identità culturale e laicità dello Stato. Egli partiva dal presupposto che la nazione c’è e su di essa va edificato lo Stato unitario. In una lettera al giurista Pasquale Stanislao Mancini, scriveva che l’Italia deve lasciare libertà alle province, ovvero alle diverse esigenze dei territorio, ma in un’ottica unitaria e non meramente centralistica. Predicava che scopo continuo di un governo è quello di garantire la massima felicità dello Stato. Dove il termine felicità si insinua dentro quel grande passo avanti che è stato il progresso civile della società alla fine dell’ottocento, senza forzare la dinamica dei tempi. Intese sviluppare la ferrovia, anche ad appannaggio di quei cittadini periferici che non si sentivano italiani. E fu la chiave di volta del suo impegno: unificare le province con infrastrutture e commerci. Una figura d’altri tempi, estranea alle manovre clientelari, non consumato ai sotterfugi della lotta politica, così come lo ha definito Francesco Paolo Casavola.

L’Italia dell’Assemblea Costituente, invece, è un paese diverso rispetto a quello del 1861. Vi era una guerra alle spalle, un tessuto socio-produttivo lacerato e da ricomporre. Ma in quella fase la nuova classe dirigente intese “riannodare i fili con l’Italia del Risorgimento”. De Gasperi disse che questo secondo Risorgimento della patria poteva riallacciarsi a quello nazionale. Nel suo interiore moto di passione, ritrovò le premesse per la nascita di una patria locale, con tradizioni espresse da un popolo libero, e che valeva come un arricchimento al contesto unitario. Affermava che si rendeva imprescindibile restaurare la libertà politica in un nuovo contesto sociale. Ma quelle convinzioni circa lo Stato andavano rafforzate nelle anime dei cittadini, senza però partire dalla divisione di classe. E non solo cancellando la linea di confine tra il pessimismo dei borghesi e l’ottimismo rivolto al proletariato. La nuova casa degli italiani doveva essere eretta su valori condivisi, nella convinzione che la coscienza morale della nazione poteva essere corroborata da quella religiosa, solo grazie al principio della laicità dello Stato.

Ponendo come punti cardinali la giustizia sociale e la pace futura, strumenti di stabilità temporale e garanzia in una visione europeista. Al pari della fase risorgimentale, quella degasperiana post conflitto bellico, fu caratterizzata dal tema della libertà e dall’esigenza estrema di unità. Definitosi “fanatico della democrazia”, lo statista trentino più volte invitò il popolo italiano a sforzarsi di camminare con le proprie gambe per instaurare un regime democratico e plurale. E l’ingresso delle masse popolari negli ingranaggi dello Stato presupponeva una formazione democratica adeguata: con i partiti, quindi, si promosse una statualità progettuale, garantendo la sicurezza della libertà come pregiudiziale. Ripeteva che per salvare la democrazia non vi fosse altra strada se non la libertà ed il rispetto delle regole di libertà.

Ricasoli e De Gasperi incarnano due grandi epoche della storia italiana e oggi conviene metabolizzarne lo spirito e non dimenticarne il valore socio-politico, per riuscire a disegnare gli scenari futuri. Quella classe dirigente, modello di onestà intellettuale e di esempio concreto per la cittadinanza, deve essere osservata con rispetto e riconoscenza. Senza utilizzare la storia per revisioni strumentali, o per anteporre logiche partitiche all’interesse nazionale. Solo in questo modo sarà possibile rendere omaggio a quelle menti e a quelle azioni, alla vigilia del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Rafforzando il concetto di patria, modernizzando certe interpretazioni anacronistiche e aprioristicamente retrograde, strutturando il paese di modo che sia culturalmente e socialmente pronto ad accogliere le sfide, non del domani, ma di quelle contingenze che bussano già alle porte dello Stato e che spesso non vengono sufficientemente ascoltate.

lunedì 7 giugno 2010

Intellettualoni? No, uomini che pensano senza padroni


Da Ffwebmagazine del 07/06/10

Sacrilegio! Qualcuno prende il coraggio a due mani e dà la sveglia alla gente le cui menti continuano a incancrenirsi grazie a modelli fasulli e fuorvianti. Ma chi avrà mai osato tanto contro le analisi scontate dei vecchi parrucconi dell’intellighenzia italiana? Quale penna superba e dai contenuti astrusi si sarà resa protagonista di una rivoluzione copernicana letteraria, che non guarda in faccia a nessuno e che procede come un cane sciolto? Quella penna, apprezzata da un discreto numero di lettori, che gli sono valsi un Campiello e una finale allo Strega nel 2009, è però vista come misera e insignificante da un duro articolo de Il Foglio di un paio di giorni fa, dove ad Antonio Scurati viene imputato non di diffondere tesi sconvenienti, o di fomentare l’odio razziale, o di far stampare libri noiosi. Ma di scrivere con parole difficili, scordandosi così le cose semplici. Producendo in questo modo un filone modesto, senza il fedele sostegno di un correttore di bozze che intervenga per redimere e tagliare “ortografie fantasiose”.

E andiamo a vedere allora dove stanno le parole difficili che fanno dimenticare le cose semplici, così come viene epitetato da un fogliante. Dunque, Scurati ha più volte detto, in un impeto di supponenza degna di quei rompiscatole di intellettualoni che circolano in Italia negli ultimi anni, che il dramma dei giorni nostri è quello di sostituire al tragico l’osceno. A opera dei mezzi di informazione, che pompano adrenalina nell’inumano che è dentro ciascuno di noi, rendendoci di fatto sordi al dolore degli altri.

Oggi gli spettatori incarnano la singolare figura di moderni gladiatori, che relegano la ragione in un lato torbido e polveroso, issando gli istinti a metro di comportamento e di valutazione. Scurati- ma come si è permesso?- parla di un mare di violenza e disinibizione che “ingrossa ad ogni sigla di Tg”. In questo fiume carsico di immagine cinematografica in dieci D, la finzione viene pericolosamente venduta come realtà, producendo nelle menti e nei successivi gesti innegabili cortocircuiti. Esempio lampante -dice sempre quel pericoloso e tedioso intellettuale che parla difficile e non capisce le cose semplici- è dato dal magma invadente dei reality, riconosciuti come “la” casa o l’isola di tutti, anziché come una casa o un’isola che tali non sono, per via della presenza di telecamere h24, di storie da costruire o costruite, di un mondo che è qualcos’altro. Ma non ciò che sembra. Imitare la vita altrui, sostiene Scurati, non equivale a capire a fondo la nostra. E ciò in riferimento a quella dieta, o a quel ritocco estetico, a quel preciso capo di abbigliamento, anche se tutti lo indossano come tanti militari in fila che obbediscono ad un solo padrone, in una caserma linda e splendente di cera.

Nei suoi libri e nelle sue pericolose elucubrazioni, il nostro predica inoltre un ritorno all’umano e agli uomini, esortandoli a convivere all’interno di una società capace sì di utilizzare la tecnologia per favorire gli incontri, ma solo se poi essi si svolgano dal vivo, e non solo su di uno schermo al plasma. Una società che metta a frutto il proprio disincanto non per intestardirsi sull’episodio di cronaca rosa, ma per attingere il senso più intimo del non inginocchiarsi dinanzi ai potenti. «Ecco a che serve l’intellettuale», conclude Scurati in quell’intervista, «ecco in che modo la letteratura anche marginalizzata, anche dichiaratamente sconfitta, può aiutarci a rientrare in possesso di noi stessi e del mondo, virtuale e non, che abitiamo».

Sono queste le tesi che dimezzano la fiducia negli “intellettualoni italiani”? Sono queste le posizioni figlie di “una strategia promozionale”, e di uno che “non ha il talento del grande romanziere che vorrebbe essere”?
Questa, invece, sembra proprio essere la voce capace di elevarsi più in alto del frastuono televisivo, perché invita a non costruire le proprie riflessioni sul rifiuto di tutto e di tutti. Perché non si arrampica strumentalmente per consolidare posizioni assurde, magari lontane anni luce dal quotidiano. Perché non decide di isolarsi dal contesto per non sporcarsi le mani, così come altri intellettuali o pseudo tali fanno, quelli per intenderci che non invogliano propriamente nuovi lettori, e che non vendono poi molte copie. Scurati decide di entrare nel merito e una volta lì, poi si differenzia soggettivamente. Perché non si rinchiude nel suo ego sconfinato, ma lo intreccia con gli eventi, raccontandoli semplicemente e ovviamente interpretandoli secondo la propria personale visione: che può anche non piacere, che può essere oggetto di critiche, rilievi, commenti, scontri dialettici. Ma che a noi e a migliaia di lettori, però, piace.

domenica 6 giugno 2010

Così il dolore non è più un tabù


Da Ffwebmagazine del 05/06/10

È possibile che il varo bipartisan della legge sulle cure palliative e la terapia del dolore (la n.38 del 15 marzo 2010) possa incarnare finalmente una politica che si unisce quando in gioco c’è il bene comune? È praticabile anche per altre grandi tematiche quella convergenza che tutti i partiti, all’infuori di tre misteriosi astenuti – ma l’avranno letta la legge? - hanno dimostrato per dare conforto a chi soffre cronicamente? Magari anche per equiparare l’Italia agli standard di altre realtà, dove il dolore non è più un tabù.

Motivi per essere ottimisti non mancano. In primis per il risultato legislativo raggiunto: un provvedimento breve e conciso, di undici articoli, con pochi tecnicismi, per tutelare il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore. Per alleviare sofferenze sopportate a lungo dagli individui, erroneamente convinti che il dolore vada accettato perchè parte integrante della vita. A volte non sufficientemente supportati dai medici, con poco tempo a disposizione per ascoltare le istanze di questi malati, invece assistiti adeguatamente dai centri specializzati, ma ancora poco conosciuti. Dinamiche emerse dall’indagine “Non siamo nati per soffrire. Dolore cronico e percorsi assistenziali” promossa da Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato, che testimonia quanto gap mediatico culturale ci sia nei fatti.

Il dolore cronico di natura non oncologica è al centro non solo del provvedimento legislativo che ha visto la luce due mesi fa, ma anche di un’ampia analisi curata da numerosi soggetti (Associazione diabetici, Associazione per la lotta contro le cefalee, Associazione malattia reumatiche, Associazione diabetici, Federazione medici generici, Unione lotta alle distrofie muscolari e Pfizer) per comprendere come i pazienti in cura presso i centri specializzati, circa duecentomila, giudicano il loro stato. E soprattutto per predisporre interventi mirati e risolutivi. Poco si è insegnato circa l’autogestione del dolore, ammonisce il senatore Tomassini, presidente della Commissione Igiene e sanità al Senato, che potrebbe essere rafforzata da una migliore tempistica sull’utilizzo dei farmaci. Come pochi sono al momento i centri antidolore sul territorio nazionale, spesso anche avversati o non sostenuti.

Ma la chiave per capire il sottile filo che lega il paziente affetto da dolore cronico alla nuova opportunità palliativa, sta tutta nell’approccio psicologico. Più della metà dei pazienti interrogati nell’indagine ha dichiarato di non sentirsi adeguatamente ascoltato, data la mancanza di tempo del medico generico e soprattutto a causa del fatto che è costretto a consultare almeno due, ma anche cinque medici, prima di essere indirizzato verso un centro specializzato. Ulteriore disparità si registra per la prescrizione di farmaci oppiacei, alta la percentuale al nord, media al centro, bassa al sud. Negativa la percezione sull’informazione, dal momento che l’80% dei medici non segnala al cittadino l’esistenza di tali strutture che permangono ancora in una sfera di non conoscenza per il 70% dei pazienti. I quali però, una volta sperimentatene le cure, si dichiara entusiasta all’86%.

Nota dolens il giudizio sull’apporto psicologico, se è vero come è vero che solo il 23% degli intervistati ne usufruisce. Significa che urge un salto generazionale e culturale molto preciso in questo senso. Innanzitutto per superare la paura del dolore, coinvolgendo anche i medici di famiglia e compiendo un’operazione sociale prima che farmacologica.

La stessa carta dei diritti del malato prevede espressamente il diritto dello stesso a non soffrire, ma prima di questa legge tale esposto non era oggettivamente integrato da interventi tangibili. Altro elemento sul quale riflettere è quello relativo alle conseguenze dirette sul paziente che il dolore cronico causa. Dolore e vita quotidiana si intersecano drammaticamente, in quanto fecondano paure e insicurezze, abbassando il rendimento professionale del malato, alterandone l’umore e di conseguenza i rapporti diretti con la famiglia di appartenenza. Con l’intera sfera delle percezioni sociali che vengono inevitabilmente svuotate dell’originaria modulazione. L’aspetto umano, prima che quello medico-sanitario, deve essere il primo obiettivo da preservare. Anche in considerazione di un altro dato emerso dal rapporto: il 2,2% degli intervistati ha ammesso che il dolore cronico porterebbe in sé il germe del suicidio. Percentuale bassa, si dirà, ma pur sempre significativa e da valutare con estrema attenzione.

Ecco allora che le buone pratiche dimostrate in concreto dalla politica con il varo di questa legge, debbono essere di stimolo per altri momenti alti come questo, consapevoli che dinanzi a esigenze impellenti e generali non vi può essere divisione o prepotenza di parte, magari rammentando quello che gli antichi greci solevano dire sulla missione della politica, chiamata a “tracciare rotte nel mare”.

mercoledì 2 giugno 2010

Italiani e romeni, la conoscenza può vincere il pregiudizio


Da Ffwebmagazine del 02/06/10

Proviamo a pensare cosa accadrebbe se l’Italia fallisse l’integrazione della comunità romena, ovvero di quel popolo che per attitudini e affinità è il più simile a noi. Vorrebbe dire che, a quel punto, sarebbe ancor più complicato favorire l’integrazione di altre etnie maggiormente distanti per mores, costumi e abitudini. Significherebbe che ancora una volta l’Italia rifiuta la modernizzazione sociale. Di contro l’approccio all’immigrazione è oggi una delle occasioni per dimostrare la capacità di accettare il diverso, di integrare l’altro, di ascoltare chi viene da lontano o da vicino, e di saper affrontare così le sfide vere della globalità.

Con le quali, piaccia o no, si è chiamati a fare i conti perché, come diceva Platone, «siamo tutti intorno al mare, come ranocchie attorno a uno stagno». E a nulla servirà ritardare la metabolizzazione di tali concetti, dal momento che si tratta di fenomeni già presenti, come fermenti vivi, in tutti i paesi: accelerare dunque interventi di accoglienza politica e culturale avrebbe riflessi positivi non solo per chi desidera integrarsi, ma anche per chi grazie a quell’integrazione, vedrebbe maturare il proprio tessuto sociale. La politica è lì per governare i conflitti sociali che inevitabilmente ogni convivenza produce, ma che possono essere stemperati e messi a frutto.

E una politica che agisce senza conoscere è destinata inevitabilmente a mancare l’obiettivo. Per questo vale la pena di sfogliare le quasi duecento pagine di un interessante saggio, Romeni. La minoranza decisiva per l’Italia di domani, scritto a quattro mani da Guido Melis e da Alina Harja per i tipi della Rubbettino, dove, usando le parole pronunciate dal presidente della Camera Gianfranco Fini, si rafforza la consapevolezza che la conoscenza può vincere il pregiudizio. Sì, il conoscere, l’approfondire, imprescindibili per deliberare, come predicava Luigi Einaudi, possono rappresentare la chiave per capire. Per avanzare dubbi, legittimi, per fare domande. Ma, poi, per ascoltare risposte e delucidazioni. E costruirsi un’idea quanto più possibile vicina alla realtà. Per comprendere come quel paradigma forzato che all’indomani dell’omicidio Reggiani enunciava una quasi naturale e diretta proporzionalità tra romeni e il reato di stupro, fosse nient’altro che figlia del pregiudizio causato dalla non conoscenza. Per informarsi, ad esempio, che il numero di romeni in carcere è pari allo 0,3%: una percentuale risibile.

Tabù e posizioni concettuali precostituite che, come ha osservato il presidente Fini, non tengono conto dello straordinario apporto dato alla cultura da intellettuali romeni del calibro di Ionesco o Eliade. Senza dimenticare l’esiliato Vintila Hòria, presenza costante negli anni settanta e ottanta alle iniziative della fondazione “Gioacchino Volpe” e collaboratore del Secolo d’Italia. Un suo pregevole lavoro si intitolava proprio “Dio è nato in esilio”, traendo ispirazione dalla figura di Ovidio, quello stesso sentimento che oggi è avvertito dirompente dai romeni che vivono in Italia.

Molti ancora ignorano che i romeni in Italia non sono solo impegnati in lavori umili, ma fondamentali per l’intero sistema economico-sociale del paese, come colf, badanti, bracciati agricoli - senza dei quali, è utile ricordarlo, migliaia di anziani non avrebbero più assistenza, o migliaia di ettari di campagne non produrrebbero più quei prodotti agroalimentari che tutto il mondo ci invidia. Ma hanno fatto il famoso passo in più, come testimoniano le ventisettemila aziende romene presenti sul nostro territorio. A significare un attivismo non da poco e niente affatto da sottovalutare, se rapportato al punto di partenza. Chi ha messo in piedi quelle imprese certamente non partiva da una posizione privilegiata, né poteva contare su un sostegno forte, almeno nelle fasi iniziali.

Esempi che nel libro abbondano, così come le testimonianze di studenti, giornalisti di Bucarest corrispondenti da Roma, del vescovo greco-ortodosso, di musicisti, di muratori e di operai. Ci sono tutti, per farsi conoscere e scoprire, per dire a chi ancora proprio non riesce a ragionare sull’immigrazione con cognizione di causa perché accecato da pregiudizi e da tornaconti elettorali, che una diversa nazionalità non comporta certo la scoperta di un alieno. E se anche fosse un alieno, con due teste o con abitudini strampalate, beh proprio non ci sarebbe nulla di strano nell’accoglierlo in una comunità che si preoccupa troppo spesso di conservare lo status quo anche nel sociale, mortificando sempre di più iniziative e slanci non allineati.

E proprio quella diversità potrebbe rappresentare fonte di ricchezza e di apertura per un paese smemorato, che sembra quasi voler cancellare decenni di dura emigrazione, prima verso il nuovo continente, poi verso le fabbriche del nord Europa, e nel secondo dopoguerra - e sino ai giorni nostri - verso l’Italia settentrionale. A questo paese gioverebbero forse le parole di Cesare Pavese, quando diceva «finché ci sarà qualcuno odiato, sconosciuto, ignorato, nella vita ci sarà qualcosa da fare: avvicinare costui».

giovedì 27 maggio 2010

Scommettiamo sulla rinascita programmando il futuro

Da Ffwbmagazine del 27/05/10

I livelli di disuguaglianza in Italia sono elevatissimi, peggio stanno solo Messico e Turchia. Più del 50% dei cittadini segue professionalmente le orme dei genitori, c’è una scarsa mobilità sociale dove ciascuno si tiene stretta la propria posizione di privilegio, badando a null’altro se non alla singola sopravvivenza. E di fatto mortificando le energie del Paese, i cervelli, le ambizioni e le idee nuove che con un modello diverso e più aperto di Stato e di società, così come avviene altrove, potrebbero avere la propria opportunità. Rispetto agli anni ’90 l’evasione fiscale e le disparità tra nord e sud non sono mutati. Né si registrano miglioramenti circa l’accesso al lavoro per le donne. Si tratta di uno scheletro di dati Istat, Onu e Ocse riportati nel volume di Aldo E. Carra e Carlo Putignano Un Paese da scongelare, di cui negli ultimi due lustri si è discusso molto, ma che però nel merito non sono cambiati. A causa di politiche miopi, che si sono concentrate sull’immediato, e che hanno portato conseguentemente a una discussione allusiva, nei fatti distante anni luce dalla realtà.

Basti pensare che nel 2007 in Italia ci sono stati meno laureati che in altri ventinove Paesi Ocse, con un alto numero di giovani che abbandonano gli studi a livello di media inferiore. Più in generale la globalizzazione ha generato paradossalmente più iniquità, strozzando investimenti di lungo respiro e sfide socio-occupazionali che o non sono state lanciate, o vengono clamorosamente ibernate, in attesa di tempi migliori. Oggi le fasce in difficoltà si chiamano ceto medio: è una povertà che ha un suo rilievo antropologico oltre che economico, che impedisce prospettive future. La precarietà indossa i panni di un nuovo ascensore sociale, diretto però solo verso i piani più bassi, perché direttamente collegato alla povertà.

Si registra anche una crisi del racconto, in quanto forse i numeri sono sì pubblici e pubblicati, ma non sufficientemente pubblicizzati. E non per un senso di compatimento astratto e improduttivo, ma per una presa di coscienza dello stato delle cose, al fine di trovare soluzioni adeguate e correttive. Invece l’economia dovrebbe tornare a essere un fattore di progresso umano, accompagnata da una politica che sostenga la costruzione del domani, in un’ottica globalmente sociale, perché come sostiene Bauman «lo Stato sociale è moribondo, solo un pianeta sociale può assolvere alle funzioni che lo Stato sociale ha tentato di svolgere fino a ieri».

Come uscirne? Andando oltre il provvisorio, ridistribuendo il lavoro, unificando i diritti. Sostenendo una nuova giustizia sociale e non per un motivo ideologico, ma semplicemente per un reale bisogno. Tentando di superare il cosiddetto precariato istituzionalizzato, evitando che la rassegnazione diventi certezza. Puntando sulla green economy, una nuova forma di sviluppo che contemporaneamente crea occupazione per l’oggi e benefici economico-ambientali reali per il domani, con l’autosufficienza energetica e la razionalizzazione di spazi e servizi cittadini.

Legittimo chiedersi: in un Paese bloccato, con zero investimenti per il futuro, con la nuova paura del rischio-Grecia, anche l’elettorato è congelato? La risposta è nell’evoluzione dell’astensionismo. Fino a dieci anni fa chi votava scheda bianca o si asteneva lo faceva nella maggioranza dei casi per disinteresse. Oggi, quel 32% di astenuti alle scorse regionali vuol marcare una differenza, evidenziando un malessere. Fecondando di fatto anche un’ immobilità socio-elettorale che non sarebbe prudente ignorare, in quanto direttamente proporzionale all’ibernazione strutturale complessiva.

Il rischio concreto sul quale la politica deve interrogarsi alla luce di questi numeri, è che in una società dove il Pil non cresce più le citate disuguaglianze si rafforzino ulteriormente, impedendo alle future generazioni di partecipare attivamente alla vita del Paese. L’estetica dei reality ha drogato la società, senza che vi fosse una risposta adeguata da parte di chi avrebbe avuto il compito di impedire sperequazioni. E non solo in riferimento alla classe operaia o alle fasce da sempre più esposte al rischio, se è vero come è vero che questa deriva da sabbie mobili sta risucchiando pericolosamente anche chi si riteneva tranquillo. E che oggi scopre una realtà friabile, dove trionfa la paura perché anche un piccolo investimento è drasticamente rimandato o cancellato, per far fronte ad altre esigenze primarie.

Si potrebbe allora programmare una crescita mirata, senza che questa inneschi timori e riserve anche solo di parola. Perché sarà solo con uno scatto nella direzione del risveglio, non solo economico ma anche in chiave sociale del Pil, che si potranno scrostare scorie tossiche, scongelando non solo un Paese ma un intero sistema. E dovrebbe essere proprio la politica a farsi carico di una vera rinascita. Consapevole che interventi sporadici e improvvisati non saranno sufficienti a fermare l’emorragia di fiducia e di benessere, ma rischiano di zavorrare ulteriormente una struttura che invece dovrebbe essere rivoluzionata e riprogrammata.

mercoledì 12 maggio 2010

APPELLO AI GRECOBOFI


DA MONDOGRECO DEL 12/05/10

Questo è un appello ai grecofobi. Non abbiate paura, anzi, per superare la crisi date un contributo alla patria di Omero: quest’estate, se potete, venite tutti in Grecia.
“Sappi che il parlare impreciso- diceva Socrate- non è soltanto sconveniente in se stesso, ma nuoce anche allo spirito”. In queste settimane si è letto di tutto sulla Grecia. Circa le considerazioni tecniche in merito alla gestione contabile-finanziaria e le inevitabili ripercussioni mondiali non può esservi discussione: i numeri parlano chiaro. Qualcuno li ha truccati in passato, quel qualcuno non è stato al momento condotto in alcun tribunale, ragion per cui i cittadini ellenici sono alquanto nervosi, se si valutano nel merito i sacrifici ai quali saranno chiamati.
Ma da qui a dipingere l’intero Paese con certa supponenza o, ancora peggio, con velature di scherno come qualche commentatore italiano e tedesco ha di recente fatto, beh semplicemente non è bello. Non solo perché non risponde al vero, ma perché tali giudizi sono stati vergati quando la Grecia non aveva proprio la possibilità di difendersi, impegnata com’è a portare avanti il risanamento.
Dissertare di crisi greca mescolando così sgradevolmente baccanalie e turismo sessuale, - come qualcuno ha fatto pochi giorni fa su un quotidiano- quasi stessimo parlando di Thailandia e non di isole Cicladi, lascia esterrefatti.
In primis la Grecia non è solo Cicladi. Forse le astiose penne che hanno fatto tristemente capolino dipingendo un’Ellade allo sbando e corrosa da depravazioni sociali, non hanno avuto il piacere e l’onore di visitare i monasteri del Monte Athos, le incontaminate spiagge di Elafonissi, o le dolci coste di Porto Carras o di Porto Idra, passando per gli incantevoli vigneti del Peloponneso, o per i paesaggi mozzafiato del monte Olimpo o del Parnassos, quasi ci trovassimo in Svizzera, o le colline dell’Oracolo di Delfi, o le acque termali della piana delle Termopili, dove trecento eroi andarono incontro alla morte non prima di aver dimostrato valore e coraggio. Certamente a Mykonos (ci sono stato anch’io) non si svolgono festival letterari, e senza dubbio la crisi economica ha precise responsabilità, ma altri, e ben diversi, sono gli accenti da porre, se si vuol fare una critica corretta.
Lo stesso Isaia (5,20) scrisse “guai a coloro che chiamano bene il male, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, l’amaro in dolce e il dolce in amaro”. Nessuno sarebbe così miope da non condannare la scellerata politica economica ellenica degli ultimi due lustri. Ma un conto è analizzare oggettivamente dati e congiunture, altro sparare a salve mancando volgarmente di rispetto ad una cultura e ad una storia che non è stata solo regina del passato. E spiace che ciò sia avvenuto su un quotidiano del sud Italia, ben conscio delle proprie origini culturali, orgogliosamente mediterranee.
La Grecia non sarà mai espulsa in senso culturale, geografico, linguistico, non solo dall’Europa ma da nessun altro continente o associazione, semplicemente perché, per quei pochi che lo ignorano, rappresenta il “pan”. Perché insita nella cultura a tutti i livelli, dalla medicina alla filosofia, dalle arti alle scienze. Forse qualcuno non sa che, per dirne una, alla Nasa la prima materia insegnata ai nuovi scienziati è l’antico greco. Giusto per aprire la mente a sforzi analitici notevoli. Altro che lingua morta.
Mi auguro che le righe velenose che tanto sdegno e tristezza hanno suscitato in me, figlio del Meridione ma ancor prima di quella cultura Mediterranea che è nata, piaccia o no, in un lembo di Egeo, siano rilette con più attenzione. E non per ottenere scuse o rettifiche, ma solo per suscitare consapevolezza. Di un passato da onorare, di un presente giustamente da criticare, ma senza inopportune mancanze di rispetto, perché come diceva Pindaro “c’è una misura in ogni cosa, tutto sta nel capirlo”.

martedì 11 maggio 2010

Quella parata per la libertà che sa tanto di regime


Da Ffwebmagazine del 11/05/10

Trecento morti negli ultimi dieci anni. Trenta all’anno. Circa tre al mese. È il bilancio dei giornalisti uccisi in Russia in due lustri, un paese che è al penultimo posto nella classifica per la libertà di stampa della Freedom House, al secondo – dietro l’Iraq - per il numero complessivo di cronisti ammazzati. Pare che per assoldare un killer a Mosca siano sufficienti duemila euro. In Russia, come in Cina, Iran e Venezuela, dai dati del “Freedom of the press 2010: A global survey of media indipendence”, risulta che la censura su Internet limita sensibilmente l’accesso alle informazioni. E parallelamente cresce il numero delle voci stroncate. Da un lato, giornalisti e giudici freddati, dall’altro, l’imponente parata militare del 9 maggio nella piazza Rossa in occasione dei 65 anni dalla vittoria sul nazismo, con sfoggio di armi e di missili intercontinentali. Una scena che, se si togliessero i colori agli schermi, potrebbe essere riportata indietro di mezzo secolo, immortalando immagini in bianco e nero figlie di un tempo lontano. Con leader e condizioni geopolitiche del passato. E, invece, sono del 2010, anno della disfatta dei diritti civili in quel territorio sterminato, dai morti in Cecenia alle spinte democratiche inibite, dalle inchieste scomode ai tentativi di tirannizzazione dei media.

Purtroppo, non c’è solo Anna Politkovskaja a evidenziare la vergogna di un paese che non protegge a sufficienza i propri giornalisti. Che dire di Antonio Russo, di Radio Radicale, ucciso in Georgia con lo schiacciamento del torace, tipica tecnica adottata dai servizi sovietici. O l’esperto di Caucaso Ilyas Shurdayen, strangolato con una cintura. Oppure il proprietario di Ingushetiya.ru Magomed Yevloyev, a cui hanno sparato mentre era a bordo di un’auto della Polizia. O come Yuri Shchekochikhin, viceredattore di Novaya Gazeta, morto per una grave reazione allergica poco prima del suo viaggio negli Usa per confrontarsi con l’Fbi circa una sua inchiesta di corruzione. O come la studentessa di giornalismo 25enne Anastasia Baburova: stuprata e uccisa con un colpo di pistola al volto mentre inseguiva l’assassino di Stanislav Markelov, avvocato della Politkovskaja. Ne sa qualcosa Oleg Panfilov, direttore del Centro di Giornalismo in Situazioni Estreme di Mosca (Cjes), premiato lo scorso anno con il riconoscimento Internazionale per la Libertà di Informazione Isf-Città di Siena.

Perché non ricordare allora le vittime della mancanza di libertà in quel territorio? Perché limitarsi a parate celebrative che sanno di regime? Consapevole, forse, che tanta esposizione di forza non sarà sufficiente a chiudere bocca ed orecchie a chi fa ancora un mestiere scomodo da quelle parti. A cosa serve pavoneggiarsi e far sfilare muscolosi carri armati, quando poi ci si scopre privi della libertà basilare? L’unica libertà che è direttamente proporzionale alle altre. Senza della quale non vi è Stato, né società, né partecipazione, né diritti, né doveri. «La voce della verità - sosteneva Robert Musil - si accompagna a un rumore accessorio sospetto, ma gli interessati non vogliono sentirlo». E in questo contesto non si può non pensare a quelle che potrebbero essere definite “le nuove non-libertà” nel mondo, dai dissidenti cubani, alle drammatiche vicende birmane di Aung San Suu Kyi, dall’onda verde dei ragazzi iraniani alle limitazioni di internet in Corea.

Il presidente Medvedev ha annunciato invece che solo insieme si potranno affrontare le minacce odierne. Ma Vladimir Putin evidentemente non la pensa allo stesso modo, se a stretto giro ha aggiunto che ritiene la politica estera americana paragonabile a quella del terzo Reich. Schermaglie dialettiche poco affini a una giornata di festa. Ammesso che di festa si possa parlare. Tra l’altro, sulla celebre piazza moscovita sono sfilati anche i nuovi missili a lunga gittata Topol-M, forse per ricordare al mondo intero che la Russia è ancora una potenza nucleare. Ma anche che ha ancora dinanzi a sé molta strada da percorrere per diventare, non una potenza, ma quantomeno una normale espressione di democrazia ed emancipazione.

giovedì 6 maggio 2010

CRISI GRECA, CHI INCHIODA I RESPONSABILI?


“…solo un muro di legno non vi tradirà”, sentenziò l’Oracolo di Delfi agli ateniesi in attesa di conoscere la profezia sulla battaglia che di lì a poco si sarebbe consumata alla piana delle Termopili tra spartani e soldati del re Serse. Quel muro che segnò un vantaggio per i trecento in realtà era stato innalzato anni prima dagli abitanti della Locride e della Focide per difendersi da Macedoni e Tessali: Leonida, quando giunse in quello spicchio di terra, lo trovò in rovina e provvide a ricostruirlo.

Quello stesso muro potrebbe oggi, duemilaquattrocentonovanta anni dopo, giungere in soccorso di una Grecia minacciata non dall’invasore straniero ma dai debiti: e prende il nome di Unione Europea. E fatto da mattoni di solidarietà, non forzatamente romantica ma finanziaria, che gli stati membri non possono non offrire ad Atene. Anche per non rimetterci di tasca propria. E in considerazione delle drammatiche conseguenze che, un ritorno greco alla dracma, avrebbero per l’intero continente aprendo, per dirne una, una falla gigantesca sulla tenuta dell’euro e sul significato politico più intimo della moneta unica. A cosa servirebbe isolare gli stati membri in difficoltà, quando forse proprio la crisi è l’occasione per vedere finalmente e nei fatti l’Unione dell’Europa?

Pochi giorni fa il primo ministro greco, George Papandreu, dalla lontana isola di Kastellorizo, ultimo pezzo di Grecia prima delle coste turche- e chissà se non sia stato un caso- ha chiesto ufficialmente l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, suscitando ulteriori perplessità della Germania. A quali risultati porterebbe, come la cancelliera Merkel sta facendo, chiudere le porte in faccia alle richieste di aiuto ateniesi? Quali scenari apparirebbero con una Grecia che potrebbe fare da apripista ad altri illustri fallimenti all’interno dell’Ue? Si legge che Spagna e Portogallo registrerebbero gli stessi gravi indici economici. E’chiaro che un prestito-ponte da solo non sarà sufficiente a riequilibrare conti dilaniati da anni di sperperi e, sarebbe il caso di dire, di illusioni mitologiche sul potere di acquisto. Ma neanche un gelido rifiuto di collaborazione o di estintore per la casa del vicino in fiamme, come ha metaforicamente rilevato Giulio Tremonti, servirebbe granchè.

Dopo mesi di travaglio mediatico sulla crisi economica greca, appare sin troppo semplicistico avanzare analisi e riflessioni sullo status quo. I numeri parlano chiaro. Altrettanto deleterio è però continuare con quella strana deriva che ignora palesemente responsabili e cause del crack di oggi. Il default ellenico non è figlio solo della crisi che ha colpito il mondo, ma della concorrenza di più elementi. Chi, all’ombra dell’Acropoli ma anche in sede comunitaria, avrebbe dovuto vigilare sui bilanci? Vi sono le premesse per ipotizzare un qualche coinvolgimento di istituti di credito, che hanno “affiancato” i governi ellenici degli ultimi due lustri nel gravoso compito di camuffare numeri e dati? E ancora: perché far pagare il “conto” della crisi al ceto medio ellenico, già dato in picchiata verso la condizione di semipovertà, con prezzi schizzati alle stelle e commerci paralizzati?

Inutile nascondere che il progresso socio-economico è stato visto a tratti in Grecia come volano per avventurose iperboli finanziarie. E per la diffusione a tutti i livelli del concetto di spreco. Un’agenzia di stampa ellenica ha riportato due episodi chiarificatori: in uno si apprende che il sito internet della camera dei deputati, pare sia costato effettivamente 200mila euro, a fronte del milione investito; nell’altro, si sosteneva che alcuni proprietari di ville con piscine, per pagare meno imposte, denunciavano quelle graziose vasche come semplici fontanelle. Un panorama allucinante che si è districato su vari fronti, dai rapporti dello Stato con le gerarchie ecclesiastiche sui cui poca chiarezza anche finanziaria c’è stata, ad alcune operazioni commerciali azzardate; da scandali post Olimpiadi del 2004 con il coinvolgimento di multinazionali tedesche, alla scelta di non incoraggiare carburanti alternativi. Difficile credere che in un Paese privo di un regime fiscale ben applicato, e dove non vi era un solo investimento “reale”per le future generazioni, non si sarebbe abbattuta la scure della crisi post annus orribilis 2009. Le precise condizioni che hanno portato allo scenario di oggi, sulle quali tutti convengono, non sminuiscono di contro le mancanze della classe politica di un decennio. Perché il Fmi non interpella i ministri delle finanze ellenici degli ultimi cinque esecutivi?

Di contro in questa fase sarebbe saggio preoccuparsi non solo del versante burocratico, ma anche degli aspetti sociali della situazione. Non potrà certo essere sufficiente il gas lacrimogeno spruzzato contro impiegati statali, operai e semplici cittadini scesi a Syntagma a manifestare nella piazza del Parlamento ateniese per spiegare loro come dovranno far fronte allo spaventoso buco. Forse il Governo socialista insediato da meno di un anno dovrebbe fare di più per impedire non solo disordini, ma per evitare che la sperequazione sociale che oggi migliaia di ellenici stanno vivendo in prima persona, si trasformi in lacrime di violenza. Come accaduto nel passato, non solo greco.

E allora il ricordo della battaglia delle Termopoli, forse può essere utile per rimboccarsi le maniche e prepararsi ad una lunga corsa contro il tempo, che vede pochi pronostici a favore come in quel 480 aC. Negli attimi che precedettero lo scontro alle “porte”, si narra che uno dei trachini avesse fatto notare allo spartano Dienece come gli arcieri persiani erano talmente numerosi che, quando tiravano, migliaia di frecce in cielo oscuravano il sole. Se possibile, ancora più incredibile fu la risposta del condottiero: “Bene, almeno in questo modo combatteremo all’ombra”.

giovedì 29 aprile 2010

Minori non accompagnati,quel vuoto tutto italiano

Da Ffwebmagazine del 29/04/10

Anche in sede europea si è avvertita l’esigenza di approcciarsi all’immigrazione con un atteggiamento meno ideologico e più pratico, in ragione di un’elementare deduzione: ovvero che il fenomeno non può essere risolto alzando mura e scavando fossati. Ma sarebbe utile invece affiancare ad una risposta di tipo umanitario, anche una valutazione propositiva su come “modellare” alcuni flussi. Azioni e numeri che il secondo Rapporto dell’European Migration Network ha cercato di fornire, oltre ovviamente ad una chiave analitica per evitare vuoti normativi che purtroppo l’Italia accusa, non essendoci una disposizione specifica che preveda modalità di rilascio, revoca e rinnovo del permesso di soggiorno per questioni di carattere umanitario.

Ma andiamo con ordine: è emerso che nel 2008 sono stati 573 i minori non accompagnati che hanno avanzato la richiesta di asilo. Un quinto di essi ha incassato un rifiuto. Dati che non contemplano i minori di nazionalità romena, circa un terzo dal 2004 ad oggi, dal momento che la Romania ha da poco fatto il suo ingresso nell’Ue, e per i minori neo-comunitari il Ministero dell’Interno ha approntato un organismo centrale di raccordo per garantire i diritti di coloro che giungono dall’interno dell’Unione.

Negli ultimi anni sono quasi ottomila i minori stranieri non accompagnati arrivati in Europa da diversi paesi, come Palestina (9,5%), Egitto (13,7%), Marocco (15,3%), Albania (12,5%), Afghanistan (8,5%), spinti da situazioni di carenza democratica e civile. Tre quarti di loro hanno un’età compresa fra i sedici e i diciassette anni, mentre nel 90% si tratta di maschi. Al terzo trimestre dello scorso anno, la banca dati del Comitato per i minori stranieri era ferma a seimilacinquecentottanta, di cui ben il 77% senza identificazione. Questione molto delicata, in considerazione del notevole numero di minori sbarcati sulle coste siciliane, nel 2008 quasi tremila. Il picco è stato registrato a Lampedusa con più di duemila, di cui l’80% non accompagnati.

Numeri che inducono alla riflessione, anche in considerazione delle modifiche normative intervenute al cosiddetto pacchetto sicurezza, la legge 94/2009 che ha provveduto a limitare il rilascio del permesso di soggiorno per chi raggiunge la maggiore età, solo in presenza di quattro condizioni contemporanee, e non più alternative come recitava la legge 189/2002: che il minore non accompagnato sia inserito da almeno un biennio in un progetto di integrazione; che sia sottoposto ad affidamento o tutela; che abbia un alloggio; che risulti iscritto ad un effettivo corso di studi o lavori.

In Italia si registra un incremento della presenza straniera regolare pari a quattrocentomila persone all’anno, tra ricongiungimenti familiari e nuovi lavoratori arrivati sul territorio. Quelli che non riescono a dare seguito al primo tentativo di inserimento sono sottoposti al ritorno forzato, circa 48mila nel 2009. Eventualità che segnala il fallimento del processo migratorio iniziale e su cui il rapporto ha concentrato sforzi propositivi. Come le numerose iniziative verso i migranti più giovani per sostenerli nell’affrontare un percorso di rientro assistito nei vari Stati di origine. Piccoli progetti con un grande eco, dal momento che abbracciano il reinserimento di coloro che non sono riusciti a completare nel migliore dei modi il primo intento migratorio.

Altro dato con cui confrontarsi è quello relativo agli sfollati nel mondo, che ammontano complessivamente a 26 milioni, ed ai rifugiati, ben dieci milioni. È chiaro che l’Europa non può offrire la soluzione globale alla problematica, che evidentemente deve essere valutata su diversa scala. Ma può recitare il proprio ruolo, consapevole dell’apporto socio-umanitario che un intervento del genere significa. Nel 2008 è stata introdotta la normativa europea sulla protezione internazionale, che ha prodotto la figura del beneficiario di protezione sussidiaria. Così si sono incrementati i casi di riconoscimento e conseguentemente di attribuzione di uno status di tutela. A tale figura vanno ad aggiungersi quella di protezione umanitaria e di protezione temporanea. A oggi, non sono però amalgamate a livello europeo, anche se riescono ad ampliare i casi in cui si applicano. Da qui l’oggettiva considerazione che manca una normativa nazionale in grado di rilasciare, rinnovare o revocare il permesso di soggiorno per fini umanitari. La normativa esistente (d.lgs 286/98) si limita a considerare il permesso di soggiorno per fini umanitari come una sorta di passo a metà strada tra il riconoscimento di uno dei due status, ma con il diniego di qualsiasi azione di tutela.

Si tratta di una lacuna che, se sanata da interventi mirati, potrebbe dare un ulteriore contributo al processo di integrazione e di modulazione dei flussi migratori, che spesso si scontrano ancora con visioni demagogiche e miopi, quegli stessi retaggi che hanno l’unica conseguenza di ingigantire le problematiche, anziché contribuire a risolverle. E allora, per comprendere in pieno dove concentrare energie e miglioramenti legislativi, forse sarebbe utile riflettere sulle parole che mons. Perego, direttore generale della fondazione Migrantes, ha dedicato a taluni modi di intendere il fenomeno immigrazione: «Si sta preferendo lavorare sui respingimenti, piuttosto che sull’assistenza e sulla protezione”.

mercoledì 28 aprile 2010

SE ANCHE LE PORTE DI CALCIO VENGONO SBARRATE AI GIOVANI

“I giovani- diceva Joseph Joubert- hanno più bisogno di esempi che di critiche”. Dove gli esempi risiedono magari in una strada da tracciare insieme, in un modello da cui partire e da consolidare poi in autonomia, o più semplicemente in un panorama da far osservare, lasciando libero spazio alla creatività del singolo. Ma a patto che quello spazio in seguito venga realmente dedicato ai giovani, alle nuove leve, tanto elogiate da tutti ma a volte emarginate proprio in virtù del dato anagrafico. Cosa c’è di più allegro, brioso, fresco della giovinezza? Ha detto Bob Dylan che essere giovani significa tenere aperto l’oblò della speranza, anche quando il mare è cattivo e il cielo s’è stancato di essere azzurro. E’proprio quella la chiave di volta, la spinta ottimistica, la voglia di andare, non importa dove e come. Quell’energia testosteronica che rappresenta una molla unica nel suo genere. E che va fatta scattare in quell’istante, non vent’anni dopo.
“Ai mondiali non c’è bisogno per forza di ventiquattrenni”. No, non è l’ultimo spot da bar dello sport, né la conservatoristica precisazione di qualche antenato del pallone. Ma la presa di posizione del commissario tecnico della nazionale italiana di calcio Marcello Lippi, che con una difesa catenacciara datata circa dieci lustri fa, in un’intervista (http://www.apcom.net/newssport/20100409_144328_37f3103_86138.html) chiude le porte sudafricane a quel manipolo di giovani calciatori italiani, che, poverelli, sognavano di indossare anche solo per un riscaldamento a bordo campo o per un’apparizione al novantacinquesimo in pieno recupero, la maglia azzurra. Niente, sarà per la prossima volta, sempre che sulla panchina più prestigiosa d’Italia non sieda lo stesso coach. Nulla di personale, ovviamente, contro i giovani. Solo che Lippi, che ricordiamolo è pienamente legittimato a decidere in quanto è proprio il suo mestiere, ha scelto la tradizione, l’esperienza, e la stagionatura di altri calciatori. Rispettabile, ma non condivisibile.
E qualche riflessione in questo senso va fatta. Non tecnica, dal momento che si tratta di un ambito specifico del quale disserteranno per i prossimi due mesi gli addetti ai lavori, ma sociale. Proprio quel calcio, che con l’investimento umano nelle formazioni giovanili, ha per fortuna compreso come solo con la valorizzazione dei prodotti locali si potrà fare fronte sia alle ristrettezze economiche che alle nuove sfide dello sport moderno, si lascia ammanettare da, come vogliamo chiamarla, paura del nuovo? Che corre sempre di più, con tre gare alla settimana, con tempi di recupero accorciati, con sedicenni che si muovono in campo quasi fossero giocatori navigati. E da noi, invece cosa succede? L’esatto contrario, per quella tafazziana inversione di tendenza che spesso avvolge le menti di chi decide e di chi è investito del potere. Non comprendendo come, così facendo, si monchino a priori i nuovi rami, i germogli che domani, o fra pochi minuti, saranno fiori.
“Non guardo l’età- ha proseguito Lippi- in un Mondiale non conta”. E no, come non conta l’età? Dopo un campionato logorante come quello italiano, con un finale ancora tutto da scrivere, come si può mettere sullo stesso piano ad esempio la difesa della Juve, stanca e ormai perforabile, con giovani elementi frutto dei vivai che si sono distinti? Ma la diffidenza per la linea verde è ormai un retaggio in disuso. Si guardi a mister Fabio Capello, che continua a far giocare nella nazionale inglese il 21enne Teo Walcoot, il più giovane ad esordire nella nazionale del suo paese. O come il sedicenne Romelu Lukaku, gigante paragonato alla punta ivoriana del Chelsea Didier Drogba, già osservato speciale di Inter e Milan, nato in Belgio da genitori congolesi e premiato da quel giramondo di Dick Advocaat con la prima convocazione in nazionale belga, per via dei 189 gol sin qui segnati con la squadra del Brussels e poi con quella dell’Anderlecht. Roba che dalle nostre parti non è affatto usuale che accada. Anzi, spesso si rincorre il più stagionato pezzo di marmo con pluriesperienza, mortificando giovani speranze. In molti campi.
“I giovani soffrono di più per la prudenza dei vecchi che per i propri errori” disse Luc de Vauvenargues. Chissà se le parole dello scrittore francese originario di Aix en Provence, potrebbero fare al caso di qualcuno dei “vecchi” di casa nostra. Dove per vecchi non si intende voler apostrofare qualcuno in base alla sua età, ma definire chi proprio non riesce a preferire il fresco allo stantio, il nuovo al passato, il funzionale all’anacronistico. Pare che una parte corposa degli strati sociali, ma ancor più, della classe dirigente e di chi la seleziona, sia intimorita dalla forza propulsiva che un giovane possa sviluppare. Senza considerarne le potenzialità, le numerose variabili, le possibili vittorie. In questo un esempio interessante è rappresentato da quella galassia di giovani scrittori che nell’ultimo triennio ha fatto capolino nelle librerie italiane. Nomi nuovi, per storie vere, interessanti, capaci di tracciare una linea e di aprire nuovi fronti. Amori, amicizie, ritorni, partenze. E soprattutto giovani, dalle belle speranze e dalle visioni innovative.
“Se sono convinto che qualcosa vada fatto- ha poi concluso Lippi- tiro dritto fino alla fine. Le mie decisioni in passato sono state dettate da un principio: non mi sono mai fatto condizionare da campagne esterne”. Insomma il commissario tecnico si proclama libero, da vincoli, lacci e lacciuoli, e primo responsabile delle proprie azioni. “L’anima libera è rara- diceva Charles Bukowski- ma quando la vedi la riconosci, perché provi un senso di benessere quando gli sei vicino”. Quel benessere, in questo caso, proprio non riusciamo a vederlo.