Da Ffwebmagazine del 12/09/10
A un ponte ferroviario di Berlino pare sia ancora appesa una scritta che recita: «Non volevamo un pezzo di torta, abbiamo voluto tutti i prodotti da forno». E quella pasticceria e quelle materie prime significavano vita futura e libertà. Una cosa che non si acquista già confezionata, ma che come il raccolto si semina pazientemente e poi, dopo attese e speranze di buon tempo, si raccoglie con delicatezza. Per goderne dei frutti e, soprattutto, per seminarne ancora i nuovi semi. Proseguendo una lenta litania senza interruzioni che ne scombinerebbero il significato e il risultato.
Libertà e pace, nel bel mezzo della cortina di ferro, sono sinonimi di Barbel Bohley, attivista in opposizione clandestina al regime comunista tedesco, scomparsa assieme ad un pezzo di quel Muro che contribuì a far crollare. Nata a Berlino pochi istanti dopo la fine del secondo conflitto mondiale, era pittrice, grafica, esponente di un filone artistico che sfocia nel movimento pacifista occidentale, semplicemente contro la violenza fisica e l'oppressione intellettuale dei regimi del passato. È sua una significativa firma nel 1980 in calce al manifesto “Istigazione alla pace”, che rappresentò la prima espressione pacifista congiunta, avanzata dai militanti dell'est e dell'ovest. Quando gli attivisti dei due pezzi della Germania iniziarono a parlarsi, perché mossi da un obiettivo comune, alto e spendibile per il futuro di tutti, che segnò lo spartiacque con una fase nuova della storia tedesca, anticipando le prime picconature che quel muro avrebbero contribuito ad abbattere qualche anno dopo.
Nel 1982 un'altra mobilitazione con Barbel Bohley in prima fila, con lettere di protesta indirizzate al Governo, che intendeva arruolare le donne in caso di necessità per la difesa del Paese.
Fu in quell'occasione che nacque il Movimento femminile per la pace, con il sostegno iniziale di centocinquanta donne. Ma se da un lato muoveva i primi passi uno spirito libero e deciso a infrangere quel regime e quei precetti, dall'altro iniziava il suo personale calvario, che l'avrebbe portata più volte in carcere. Nel 1983 il primo triste segnale, con l'espulsione dall'associazione degli artisti e l'impossibilità di esporre le proprie opere. L'accusa? Sempre la stessa: tradimento. Presunto, provato, ipotizzato. Ovviamente i regimi totalitari che si rispettino hanno solo l'imbarazzo della scelta. Ed ecco il carcere, un'esperienza incredibile, dove l'aria che quotidianamente si respira per strada, nelle vite di tutti i giorni dove si dà tutto per scontato, diventa improvvisamente un tesoro, da centellinare e conservare. Ma che al contempo spinge le idee a forzare quelle sbarre e quelle celle, che muove le anime di chi dal di fuori osserva questo scempio dei valori umani e della libertà di espressione. E che produce indignazione, movimenti, socialità che si amalgamano, e che reagiscono.
Quelle stesse emozioni che poco prima del novembre 1989 diedero il via, assieme all'entusiasmo di Katia, vedova di Havemann, ad un altro esperimento socio-mediatico all'avanguardia, il “Nuovo Forum”, un contenitore sprovvisto di un vero e proprio programma politico, ma che spronava i cittadini a pensare una democrazia che partisse dal basso, che fosse agli antipodi della consuetudine istituzionale dell'epoca. Che spingesse la gente ad interpretare i bisogni e le esigenze delle altre persone, anch'esse cittadine e potenziali attivisti. In un ambito, quello della Germania divisa, dove gli aliti di libertà e di idee erano soggiogati.
E allora le finestre di un mondo nuovo vennero spalancate anche grazie alla determinazione di Barbel Bohley, definita dalla Stasi “la madre della clandestinità”. Una donna che proprio una manciata di giorni prima del crollo, lanciò il manifesto del forum, chiamato “Svolta 89”. Mai nome fu più adatto.
Nessun commento:
Posta un commento