Da Ffwebmagazine del 19/09/10
Che delizia, un’idea pericolosa giunge da un continente lontano, e per giunta è di matrice nostrana. Un evento di respiro mondiale, la Biennale Asiatica che si apre in questi giorni nella cittadina coreana di Gwangju, avanza la tesi che tutte le immagini veicolate oggi dalla società possono in un determinato contesto divenire arte, o al limite assumerne i contorni. Firmato Massimiliano Gioni, che sulla Stampa si spinge a rilevare anche: «Non so se il futuro dell'arte è qui. Sicuramente stando in Corea si percepisce un paese che vive il futuro in modo molto meno ansioso di noi. Un futuro nel quale noi occidentali avremo un ruolo molto meno rilevante».
Due contesti, arte e futuro, che in quel lembo di Asia sembrano aver trovato una spinta propulsiva non indifferente. Dove i coreani, prosegue l’esperto italiano, già curatore della Fondazione Trussardi a Milano e del New Museum di New York, hanno dimostrato una grande curiosità e «un desiderio di rischiare da far vergognare noi occidentali». Lo stupore per il dinamismo dei coreani viene dal fatto che non hanno fiatato circa modalità e perimetrazione della biennale, ovvero senza temere rivoluzioni stilistiche o provocazioni. Ostentando non poco coraggio artistico ma soprattutto sociale, senza farsi soffocare dai compromessi politici che invece, sostiene Gioni, in Europa avrebbero rappresentato un’indubbia zavorra.
Nei poco più di due mesi di apertura della kermesse, si potranno ammirare fotografie, oggetti, immagini di individui morti, anche crude, danze folkloristiche quindi identitarie, ma anche segnali di appartenenza globale a mille storie diverse e diversificate. Pezzi di un puzzle complesso e variopinto, dove le migliaia di sfumature cromatiche sono il vero plus. Perché osano, perché rompono canovacci, solcano percorsi nuovi sconosciuti e mai tracciati. Ecco la doppia sfida della Biennale Asiatica, lasciarsi andare al futuro, al nuovo, ed evitare di rintanare l’arte ed i suoi derivati in contenitori appesantiti, standard, dove essa alla fine risulti amaramente fruibile solo alle elite. E quindi lontana anni luce dalla gente.
Ma perseguendo invece un obiettivo intelligente e lungimirante, stimolando quell’arte che parta dal basso, come gli scatti dei campi di concentramento cambogiani, o quelli dei prigionieri condannati dal regime di Pol Pot. Passando per storie vere e vissute, come le scatole che Andy Warhol pare avesse dedicato a sua madre.
Un modo innovativo per scacciare l’ossessione del professionismo artistico, per dire che l’arte è anche e soprattutto il racconto in forma originale di ciò che accade, di quello che passa per la testa della gente, o sotto la finestra di casa, o ciò che fra le righe quella stessa gente non si dice. Senza dimenticare i sogni, le emozioni, i sentimenti. Come si può ingabbiare questa miriade di sensazioni e di pensieri in un contenitore a tenuta stagna, con porte sbarrate e codici criptati?
Dai coreani, anche grazie alla verve di un italiano, una doppia lezione per la vecchia Europa quindi. Di uno sguardo al futuro più ottimista, con tentativi non sporadici di sperimentare, di ricercare, di annusare ciò che non rientra tra i profumi conosciuti.
Sta tutta lì la sfida da vincere, per non rimanere miseramente chiusi e ripiegati in una sorta di grande dimenticatoio delle idee. Che puzza di chiuso e dal tanfo che addormenta.
Perché, come disse Marco Aurelio, «ognuno vale quanto ciò che ricerca».
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