Da Ffwebmagazine del 21/09/10
Un incrocio di profumi, di sapori agli antipodi, di colori che non solo si mischiano in una miscellanea di diversità. Ma che finiscono per diventare un unicum così pregiato da far dimenticare le differenze di ingredienti e di persone che lo lavorano pazientemente. Per poi affondare nei palati di chi rifiuta il conservatorismo dei mores, di chi grazie ad un alimento, comune a quel grande lago salato che è il Mediterraneo, si ritrova assieme dopo secoli di divisioni. Il cous-cous, protagonista dell'omonimo Festival a San Vito Lo Capo, giunto alla tredicesima edizione, in quella conca di strabilianti interculture che è la Sicilia, unisce ciò che l'uomo in millenni di storia ha fatto di tutto per separare. E non solo a causa di guerre, carestie ed epidemie ma, volgendo lo sguardo all'oggi, per via di miopie sociali, scelleratezze politiche, pigrizie mentali.
L'evento internazionale dell'integrazione, con nove Paesi uniti intorno a un piatto, che promuove lo scambio e valorizza le differenze, dà vita a una vera e propria festa di popoli, tradizioni e culture. Che si studiano, si osservano e poi si mescolano, si animano in una tavola comune. Noto come cibo tipico delle coste meridionali del Mediterraneo, o piatto nazionale dei berberi, è denominato maftul in Palestina, taam in Libia e Tunisia, o cascà. Pare che le prime citazioni del cous-cous risalgano al tredicesimo secolo soprattutto in Cirenaica, mentre una delle prime apparizioni in Europa è stata in Provenza.
Gli sono stati dedicati libri, film, occasioni di dialogo e di confronto. Come il film di Umberto Spinazzola Cous-cous, che narra le giornate di una banda musicale ovviamente multietnica, (chiamata come il famoso cibo) che, allontanata dalla sala prove all'interno di un inospitale condominio torinese, si sforza di ricercare un altro luogo. Magari più tollerante ad ascoltare note e versi.
Pellicola apprezzata è quella del regista Abdellatif Kechiche, vincitore del Gran Premio della Giuria e del Premio come migliore attrice rivelazione alla sessantaquattresima Mostra del Cinema di Venezia. Dove il sessantenne Beiji si impegna a cambiare vita, e dopo aver trascorso anni di lavoro in un cantiere navale di Marsiglia, decide di coronare il suo sogno aprendo un ristorante. Ecco ancora il cibo che, come in pertugi carsici, fa capolino nelle vite e nelle storie di genti e popoli. «Non riesco a sopportare quelli che non prendono sul serio il cibo», disse Oscar Wilde, a testimoniare un legame indissolubile tra l'alimento e le fasi delle singole esistenze.
Le stesse genti che per sei giorni si ritroveranno nel trapanese nell'elogio del meticciato alimentare, all`interno della Al Waht, che in arabo significa oasi nel deserto, dove si svolgeranno meeting e degustazioni dentro una tenda berbera, con atmosfere etniche e danze del ventre. Sino al gran finale dell'evento, con la gara gastronomica tra Paesi (Francia, Israele, Algeria, Costa d'Avorio, Palestina, Marocco) che si daranno da fare per strappare il titolo all'Italia, vincitrice lo scorso anno.
Ispirandosi a un mondo di colori, dove il cous-cous rappresenta la sintesi di culture e mondi lontani, quello stesso intreccio di carni, verdure, pesce e miglio che accende la luce della comunione. Dettagli presenti con insistenza in un altro romanzo, firmato da Pap Khouma e intitolato Nonno Dio e gli spiriti danzanti, con al centro dei dialoghi il tradizionale lalo, la foglia di Paspalum Hieronymii, utilizzata per la preparazione del cous-cous a base di miglio.
Senza dimenticare le pagine de Le avventure del cous-cous, di Mouhoub Hadjira e Rabaa Claudine, dove si raccontano viaggi e soprattutto le coordinate socio-geografiche del gustoso alimento. Fino a spingersi alle origini babilonesi, ovvero all'inizio della civiltà. E poi i primi gesti della preparazione, i sapori che si intrecciano, i profumi che si concentrano ma provenendo da più direzioni, le mani che assemblano i singoli ingredienti, in un arcobaleno di gusti. In una parola sola cous-cous.
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