giovedì 2 settembre 2010

Vargas Llosa, il liberalismo e l'illusione berlusconiana

Da Ffwebmagazinhe del 02/09/10

di Francesco De Palo

«Sono uno schiavo volontario e felice della letteratura». Così si definì anni fa Mario Vargas Llosa, scrittore peruviano tra i più noti, fresco vincitore del Premio Internazionale “Viareggio-Versilia”, attribuendo a quello straordinario dono che è la scrittura una missione puntuale, perché essa non può «isolarsi dalla vita sociale». E che oggi, dopo anni di inchiostro versato su storie e romanzi caratterizzati da un impatto descrittivo unico nel suo genere, volge lo sguardo su quella che chiama illusione italiana.

Ovvero come un liberale vero - per nulla imparentato con quelli che invece attuano il frequente liberalismo a intermittenza - osserva il berlusconismo, la sua straripante immagine, la sua evoluzione tortuosamente fuorviante, la sua plastica raffigurazione nelle vite degli italiani. Quel fenomeno che ha solcato quindici anni di storia. Proprio il popolo nostrano, in un’intervista all’Unità, viene definito dallo scrittore come «illuso», in quanto sono le derive populiste e le infatuazioni presenti massicce nel paese a comporre un mosaico fasullo. Che comprende la sfera dei pericoli corsi da una democrazia occidentale, utili come materia di studio e di approfondimento. O come la speranza che «un uomo forte ricercato dalla gente, potesse far fronte ai problemi lasciati irrisolti dai governi precedenti». Problemi che, nonostante leggi, leggine e leggi ad personam, permangono intatti. Facendo leva sull’aspetto ottimistico di quell’impostazione politica, sull’impatto aziendale del risultato e del profitto, sul circuito propagandistico che si innesca quando, commercialmente parlando, serve convincere qualcuno della bontà di un prodotto.

Ma sono appunto applicazioni manageriali, utili in altre vesti diverse da quelle istituzionali. E perché Llosa considera tutto ciò un’illusione? Per il semplice motivo che «l’autoritarismo non risolve affatto i problemi, ne crea di nuovi». Questa volta ben più gravosi, perché strozzano il dibattito, animano il pensiero unico, livellano le diversificazioni, accorpano le idee sotto lo stesso forzato ombrello. L’interessante provocazione dello scrittore peruviano, che provocazione non è, bensì analisi secca e scevra da timori reverenziali, apre un’interessante fronte nel già traballante universo del berlusconismo. In quanto riflette sul fatto che non è sufficiente il ghe pensi mi a tutto spiano per dare risposte e offrire soluzioni, quando invece, una squadra di calcio, per fare un paragone sportivo, è fatta di undici elementi, e non solo di uno che mette il pallone e magari, poi, se lo riporta a casa interrompendo la partita sul più bello.

Tra l’altro in una conversazione con il Corsera del settembre 2008, Vargas Llosa denunciò una sorta di ostracismo nei suoi confronti da parte dell’Italia, in quanto veniva «oscurato il mio pensiero liberale». Infatti, non tanto i suoi romanzi, ma i suoi pamphlet politici si possono trovare solo in lingua francese, per merito dell’editore Gallimard, e non in italiano. Come La tentazione dell’impossibile e L’utopia arcaica, dove si schiera contro il cosiddetto indigenismo. O come Sfida alla libertà, sobria miscellanea di riflessioni ispirate ad Aron.

«In Italia non piaccio - rivelò in quell’occasione - perché sono un uccello tropicale. Secondo gli italiani gli scrittori sudamericani devono essere amici dei dittatori in odore di socialismo, come Castro o Chàvez». Ma non solo una questione di nomi o di appartenenze. Vargas Llosa si incunea nell’intimo del liberalismo quando afferma che «nel progresso della libertà risiede l’umanizzazione della vita e delle relazioni sociali. L’errore fatale della mia generazione di scrittori è stato quello di giustificare le autocrazie, le dittature e di accettare la visione rivoluzionaria marxista come panacea di tutti i mali».

La sua attenzione si concentra sul raggio di azione della letteratura all’interno di una visione liberale di massa. Nell’intervista all’Unità prosegue sostenendo che la letteratura ha un ruolo politico, un compito civile, «dal momento che i libri e le poesie sostengono la fantasia e l’immaginazione, ovvero lo spirito critico della gente. Di conseguenza si comincia a divenire critici verso ciò che ci circonda. Per questo – annota - le dittature cercano sempre di mantenere il controllo sulla produzione letteraria e sugli scrittori».

Controllo, critica, eresia, intercultura, convivenza. Diceva Margherite Yourcenar che «fondare biblioteche è un po’come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito, che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire». È proprio quell’inverno la prospettiva da evitare, è quella stagione di buio e di cieli inondati da cirri tediosi il panorama da allontanare, ma solo una politica aperta e pronta a una spinta liberale potrà farlo con serietà e convinzione. Quella politica che, in un anno e mezzo di vita, il Pdl non è riuscito ad attuare.

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