Barack Obama e Bill Clinton
presidenti degli Usa a 47 anni, Nicolas Sarkozy all’Eliseo a 52, Angela Merkel
cancelliera a 51. Per non parlare dello svedese Fredrik Reinfeld premier a 41
anni, di Tony Blair che fece il suo ingresso a Downing Street a 44 anni, come
l’attuale inquilino David Cameron. Tutto (o quasi) il mondo che conta si affida
a forze fresche, menti dinamiche, lasciando a casa vecchi marpioni e polverosi burocrati
che sanno di naftalina e non di neuroni in movimento. Non in Italia, dove un
politico di 60 anni è ancora considerato “acerbo” per Palazzo Chigi: autolesionismo
o chirurgico timore del nuovo? Secondo un report presentato nel corso
dell'Assemblea dei giovani della Coldiretti e realizzato in collaborazione con
l'Università della Calabria, la “casta” italiana in politica, nell'economia e
nella pubblica amministrazione ha una età media di 59 anni: i più vecchi di
tutta l’Unione europea, in virtù di una cultura diffusa trasversalmente e in
tutti i pertugi del paese. Si prendano le università, con i baroni ancora a
dettare legge e nomine (i docenti italiani hanno una media di 63 anni, i più
anziani del mondo industrializzato), o le banche con una età media degli
amministratori delegati e dei presidenti di circa 67 anni, pari addirittura a
quella dei vescovi italiani in carica. Uno sguardo sugli altri continenti rende
meglio la tragicità biancarossaeverde. Larry Page, amministratore di Google ha
39 anni. Lakshmi Mittal a 55 anni è entrato nel board di Goldman Sacs, Alex
Halliday a 50 anni è diventato direttore del dipartimento di Matematica
dell’Università di Oxford; nella Grecia al default il leader della sinistra
radicale ha 37 anni e “rischia” di fare il primo ministro se dovesse vincere alle
urne del 17 giugno.
L’Italia ha un problema, grande
quanto il Colosseo, di natura culturale e di conseguenza anche pericolosamente sociale.
Latita il coraggio del nuovo, la voglia di fare spazio a chi “ha più birra” in
corpo, lo slancio verso quel mare aperto lontano da certezze e da punti di
riferimento fissi e immutabili. È un problema di testa, sarebbe da stolti non
certificarlo. E accanto a deficienze strutturali innegabili. Il riferimento è
al virus della burocrazia che infetta tutto ciò che è apparato e che tenta di
“apparatizzare” anche ciò che per sua natura tale non sarà mai. Così facendo
trova facile sponda in gabbie di un passato che non vuole cedere il passo, in
menti e braccia che, pur di ipotecare il proprio piccolo strapuntino di domani,
si accucciano dietro il feudatario di turno. Che di andare in pensione proprio
non ne vuole sapere.
Giusto indignarsi per una classe
dirigente d’annata, stantìa a che puzza di passato. Ma a patto che i giovani
che premono per prendere quei posti non siano, poi, solo la copia sbiadita e
“ritoccata” di modus operandi da inciucio e atteggiamenti da vecchio Pcus. Ecco
il rischio concreto di un paese che fa una fatica maledetta a ragionare per
buon senso.
Fonte: il futurista quotidiano del 18/5/2012
Twitter@FDepalo
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