domenica 6 maggio 2012

La democrazia agonizza nella sua culla


Proprio un brutto scherzo del destino che lì, esattamente dove la democrazia è nata, oggi essa stessa viva una gravissima crisi di identità. La Grecia che domenica è chiamata al voto non solo ha smarrito la propria sovranità (troika docet, un rappresentante in ogni ministero con tanti saluti all’autodeterminazione nazionale) ma con il rischio del caos a partire dal prossimo lunedì, forse ancora prima, quando le urne verranno aperte e si conoscerà il nome del vincitore. Perché nell’Ellade dove si cova un disagio sociale da far impallidire le piazze nordafricane delle Primavere arabe, (si temono aspri scontri già da domenica sera), dove le pensioni minime sfiorano appena i duecento euro, dove un cappuccino costa anche cinque euro, e dove dal carrello della spesa scompare la carne, la politica non sta rappresentando la risposta alla crisi. Anzi, la sta implementando, avvicinando il Paese sempre di più al baratro, come se la figura mitologica di Ade incarnata dai cattivi amministratori fosse lì a un passo. Pronta a prendere il sopravvento. I due maggiori partiti, Pasok e Nea Democratia che sostengono il piano della troika, crollano nei sondaggi, le intenzioni di voto li danno al 15%. I cittadini li ritengono i principali responsabili della situazione attuale, perché negli anni hanno celato le difficoltà finanziarie, non ostacolando la corsa a un benessere diffuso e illusorio, spendendo miliardi in armamenti e zero euro in infrastrutture o piani industriali, non facendo una sola riforma per il bene del Paese. Che oggi soccombe sotto il piano franco-tedesco, con medici ospedalieri che guadagnano mille euro, con migliaia di licenziamenti anche nel privato, con banche che chiudono come funghi, con lo spostamento automatico dei conti ad altri istituti.
Dall’altro versante, quello della protesta di chi non ha più un futuro, crescono le ali come i tre partiti di sinistra (Kke, Siriza, Sinistra Democratica rispettivamente dati al 12, 11 e 10%) e l’estrema destra di Chrisì Avghì (6%) e del Laos (4%). Effetto Le Pen anche sotto l’Acropoli? L’assurdo è che, nel paese che vede il più alto tasso Ocse di bambini sottopeso, con più di duecento suicidi causa-crisi, con il taglio entro settembre di altri 150mila dipendenti pubblici, si spendano dieci milioni di euro per le elezioni, con altri quaranta che verranno distribuiti ai partiti il prossimo mese di giugno. Trentadue le liste che si presentano agli occhi di un popolo che non ne può più di promesse («oltre al piano della troika - sostengono il conservatore Samaras e il socialista Venizelos- non c’è scelta»).

Il giorno dopo della proclamazione del vincitore, commenta il segretario del Kke Aleka Papariga, il popolo dovrà affrontare «una scure affilata molto più di prima». Contro quella guerra economica, aggiunge, si dia vita a un nuovo ciclo dove la gente dovrebbe «condurre la propria guerra». E si dice certa che qualsiasi governo avrà vita breve, invitando i greci ad essere diffidenti. L’ex ministro dell’economia e candidato del Pasok Elefteros Venizelos, invece, dichiara che la chiave per vincere le elezioni «si trova all’interno del nostro partito». Chissà se si riferisce ad esempio al socialista Simitis, premier quando la Grecia alterò i propri bilanci pur di entrare nella moneta unica, o quando il pluripremier sempre del Pasok Andreas Papandreu fece salire alla ribalta Akis Tzogatzopulos, ministro e suo braccio destro, arrestato pochi giorni fa assieme a moglie e figlia per aver distratto almeno cento milioni di euro tra fondi pubblici e tangenti per fornitura di armi. Scrivendo la pagina più nera della corruzione nazionale ellenica (al pari dello scandalo Siemens). Si dice che quando Tzogatzopulos entrò per la prima volta in politica non aveva il becco di un quattrino, ma strada facendo ha fatto parlare di sé, anche per il favoloso matrimonio celebrato a Parigi alla modica cifra di due milioni di euro, o per lo straordinario sistema di società offshore da lui creato e scoperto da una giudice che pare stia mettendo un po’di ordine nella Grecia che non ha più (da un pezzo) i colonnelli ma che ha avuto da quel giorno
molti boiardi di stato che si sono arricchiti a sbafo alle sue spalle.
Intanto si moltiplicano gli ultimi appelli al voto, con a fare da contraltare l’apatia dei cittadini. Tre giorni fa il socialista Venizelos era atteso per un comizio a Lamia, nella regione della Fthiotida, a pochi chilometri dalla piana delle Termopili dove duemilacinquecento anni fa Leonida fermò l’avanzata di Serse. Il comizio non è stato pubblico, bensì al chiuso di una mini sala congressi, con ad applaudire solo pochi militanti e gli amministratori locali del partito. E con un cordone di polizia di sessanta agenti a fare da scudo contro eventuali contestatori. Ma i lanci di yogurth non ci sono stati e la motivazione sta nel disinteresse. Che i greci abbiano perso la passione politica? Non avrebbero tutti i torti.

Si prendano le parole del premier Papademos, che proprio sull’integrazione nell’euro della Grecia ha detto che il mercato unico e la moneta comune, nonostante la crisi, hanno portato ad un significativo miglioramento del tenore di vita tra 2000 e il 2009, aumentando del 24% al netto del reddito pro capite. Ma dimenticando di aggiungere che proprio in quei due lustri si è speso più di quanto il Paese potesse realmente fare. E fa specie che a dirlo sia proprio l’attuale primo ministro, che prima di sedere su quella poltrona è stato il Vice-Presidente della Banca centrale europea dal 2002 al 2010 e il Governatore della Banca di Grecia dal 1994 al 2002. I cittadini si chiedono come facesse a ignorare i conti in (profondo) rosso. 

Ma alla gente comune, cosa importa realmente di comizi ed intenzioni di voto? Giorgios è da tre generazioni editore e distributore di quotidiani per la Grecia centrale, le vendite sono crollate del 70%, ammette a testa bassa, con ricadute chirurgiche sulla forza occupazionale alle sue dipendenze: altro che exit pool o promesse da buontemponi, qui si chiude bottega. In ballo le grandi difficoltà socio-politiche, che chissà, forse trent’anni fa l’inventore del rebetiko Vassilis Tsitsanis, già immaginava. In una sua composizione, “Ti simera, ti avrio, ti tora” (Che sarà dell’oggi e del domani) canta che è meglio separarsi adesso, dal momento che insieme non si può più stare, pensieri attualissimi se si pensa al rapporto Grecia-Ue.
E allora non servono fiotte di politologi che attestino la morte del bipolarismo o che dibattano su come la classe dirigente che richiede la fiducia degli elettori sia in pratica la stessa che ha conseguito il penoso risultato del quasi default. In Grecia serve come il pane una rupture. Vera, intensa e risolutrice. Per tornare a una democrazia che oggi, da Atene, è stata trasferita tout court a Berlino.

Fonte: Gli altri settimanale del 4/5/2012

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