mercoledì 15 dicembre 2010

E grazie alla cultura sbocciano i fiori a Kirkuk


Da Ffwebmagazine del 15/12/10

Kosmos, mondo, universo. Ma anche altro, altri e ancora finestre su ciò che accade a longitudini e latitudini lontane, senza preclusioni per posizioni ed opinioni. Un approfondimento costante e sotto traccia, in collaborazione con L’interprete internazionale, per slacciare quel cordone ombelicale che troppo spesso lega l’informazione alla contingenza locale, impedendole di mettere il naso fuori dalla propria visione. (Per segnalazioni e commenti inviare una mail all’indirizzo: francesco.depalo@libero.it).

Un io, un noi, tanti loro. E poi quegli altri che li perseguitano, che brandiscono spade e tranciano vite ed esistenze. I fiori di Kirkuk, di Fariborz Kamkani, è un film che disegna passioni. Il regista, nato in Iran ma curdo da sempre, in quanto minoranza (perché relegato a oggetto da eliminare, a popolo da distruggere) narra la storia di Sherko e Najla, due giovani medici che si conoscono in Italia. Ma la diversa identità territoriale dei due (lui curdo, lei irachena), convoglia la storia verso un amore impossibile, dal momento che la dura mano di Saddam Hussein ha violentato migliaia di villaggi curdi, imprigionandone i cittadini, relegandoli ai margini sociali e politici, infliggendo loro torture e pene severe.

La pellicola restituisce frame mai andati in onda nei tg occidentali, crudi e violenti, che contrastano con i sentimenti dei protagonisti: verso la propria terra, ragione per cui decide di rimanere in Iraq nonostante la persecuzione del regime; e verso il proprio partner, che al suo interno contiene molto di più di un rapporto di coppia. Perché si tratta di un film di affermazione, di dialogo interreligioso e interculturale, attraverso il quale, rivela il regista ai microfoni de La settimana internazionale, si può far luce su un periodo troppo spesso ignorato. Del quale poco si conosce e si approfondisce, perché si ignora quel background iracheno degli anni ottanta di usi e costumi, di circostanze, di delegittimazioni, di minoranze ignorate o colpite.

E se quella sceneggiatura fosse oggi presa in considerazione per tracciare nuove linee in un Paese solcato da mille cambiamenti e metamorfosi in chiave democratica? E se fosse proprio l’esempio di Najla, decisa a mutare gli eventi grazie al proprio senso di responsabilità, a spingere i protagonisti dell’Iraq di oggi a valutare anche l’opzione culturale come strumento di rinascita? Una strada percorribile, dal momento che di questo Paese noto per il petrolio e per essere stato scenario di guerre vicine e lontane, manca un’approfondita visione di insieme. Con scenari che si sono rapidamente accavallati, intrecciati, con sangue e vittime, da una parte e dall’altra. Con strumentalizzazioni frequenti, di questo o quell’esponente. Con condanne a morte, con celle umide di carceri medioevali, con elezioni, esecutivi, dubbi e speranze.
Servirebbe più cultura del dialogo, ammette Habeeb M. H. Al-Sadr, ambasciatore dell’Iraq presso la Santa Sede, nell’analizzare la contingenza di oggi, legata a quegli omicidi che vedono cittadini di fede cristiana assassinati senza un apparente motivo.

Secondo il diplomatico il traguardo dei terroristi è di innescare una guerra civile, supportata da un conflitto interreligioso, per distruggere lo spirito democratico che lentamente sta tornando nel Paese. Non ha dubbi l’ambasciatore nel dissipare i dubbi circa una persecuzione ad cristianum, all’indomani dell’uccisione di altre due persone, freddate nella loro casa di Baladiyat, zona prevalentemente sciita di Bagdad. Secondo fonti militari a premere il grilletto sarebbero stati individui non iracheni, lasciando intendere la matrice straniera. A seguito di questi fatti di sangue, è salito a 500 il numero delle famiglie cristiane che cercano riparo in Kurdistan.

Due gli elementi da cui ripartire, entrambi di matrice legislativa, con la nuova Costituzione che appare inclusiva al pari della nuova legge elettorale che consente ai cristiani una quota parlamentare di cinque seggi. Provvedimento che rientra nel solco della politica avanzata dal premier Al-Maliky, per un governo di unità nazionale che non sia dei più forti, ma garanzia di tutte le rappresentanze. Certo, permangono dubbi e incertezze, come il fatto che il Paese sia rimasto per nove mesi sprovvisto di una guida politica, troppi per una comunità dagli equilibri fragili come l’Iraq. O come il fatto che inizialmente gli americani abbiano lasciato interamente in mano agli iracheni la questione della sicurezza interna, dato che ha favorito le escalation terroristiche che, oggi, continuano a sfruttare eventi come le rappresaglie contro cristiani e contro alcune moschee del Paese, per ottenere un eco mediatico in occidente. Non bisogna dimenticare che si stanno chiudendo ancora conti del passato rimasti in sospeso, si veda la condanna a morte inflitta a Tarek Aziz, il cosiddetto volto presentabile del regime di Saddam.

Nonostante evidenti passi in avanti, politici, amministrativi e sociali, ciò che non convince è la possibilità prevista dalla carta costituzionale di costituire regioni per cittadini cristiani, ma solo su loro richiesta. Un’eventualità miope di creazione di veri e propri ghetti, i quali più che l’integrazione ed il rispetto dei diritti umani e religiosi di tutti, segnerebbero un ulteriore confine invalicabile tra popoli che, nei secoli passati, sono riusciti tranquillamente ad esistere nello stesso Paese. Fino a quando la politica e i macrointeressi non si sono infilati in quel pertugio di convivenza.

Nessun commento: