"Potete ingannare tutti per un po', potete ingannare qualcuno per sempre, ma non potrete ingannare tutti per sempre". (A. Lincoln)
mercoledì 1 dicembre 2010
Chi vuole morto Tareq Aziz? Pannella va a Bagdad
Da Ffwebmagazine del 01/12/10
Kosmos, mondo, universo. Ma anche altro, altri e ancora finestre su ciò che accade a longitudini e latitudini lontane, senza preclusioni per posizioni ed opinioni. Un approfondimento costante e sotto traccia, in collaborazione con L’interprete internazionale, per slacciare quel cordone ombelicale che troppo spesso lega l’informazione alla contingenza locale, impedendole di mettere il naso fuori dalla propria visione. (Per segnalazioni e commenti inviare una mail all’indirizzo: francesco.depalo@libero.it).
«Non faccio passerelle, vado a Bagdad solo se potrò incontrarlo». Marco Pannella è determinato. A non farsi prendere in giro, a far valere il diritto alla vita per l’ex ministro degli esteri iracheno Tareq Aziz, condannato a morte, ma la cui esecuzione è in stand by. Il leader radicale ha da poco interrotto lo sciopero della fame che durava dallo scorso 2 ottobre, giornata mondiale della non violenza, non appena ha ricevuto la telefonata dal ministro degli esteri Frattini che, dopo avergli annunciato il viaggio a Bagdad, gli comunicava la decisione irachena di sospensione della condanna, sino al termine del processo di appello.
Aziz è attualmente detenuto in un carcere iracheno, in pessime condizioni di salute, con problemi di deambulazione e di assunzione di farmaci, come conferma suo figlio Ziad ai microfoni della trasmissione Settimana internazionale.
Pannella ha inoltre chiesto che nell’occasione vengano resi pubblici i documenti ufficiali che rendano giustizia ad un’incredibile verità storica, «nascosta e negata in primo luogo proprio oggi nel e dal mondo libero, occidentale e civile: il 18 marzo 2003 Bush e Blair diedero avvio al conflitto solo perché non scoppiassero in Iraq la libertà e la pace, con l’esilio ormai accettato, di Saddam».
La grazia a Tareq Aziz, considerato il volto presentabile del regime di Saddam, è giunta dall’attuale presidente iracheno Jalal Talabani. Aziz, condannato all’impiccagione dall’Alta Corte irachena nell’ambito del processo sulla chiusura dei partiti religiosi nel Paese, è anche l’ultimo custode ancora in vita dei segreti che da oltre trent’anni imperversano nel Paese.
Il caso, secondo Pannella, è forse l’aspetto più criminale di questo lembo di Medio Oriente. Quell’Iraq che nel momento più importante della sua ricostruzione, dopo aver sperimentato pur con mille difficoltà e contraddizioni otto mesi fa lo strumento del voto, è oggi minacciato da un altro virus, che potrebbe inficiarne i passi in avanti compiuti. Ovvero quella pena di morte che il governo di Bagdad ha deciso di adoperare contro tre individui: appunto l’ex ministro degli esteri Aziz, Sadun Shaker (ex ministro dell’interno) e Adbel Hamit Amud (ex segretario particolare di Saddam Hussein).
Non solo, quindi, la rassicurazione di una visita a Bagdad, prevista per il prossimo 5 dicembre, ma anche la richiesta da parte di Pannella che venga attivata una commissione di inchiesta italiana che faccia luce sul comportamento del governo durante il conflitto iracheno. Magari ristabilendo per convenzione che a 75 anni, in precarie condizioni di salute, si possa anche immaginare una diversa strutturazione della pena, perché inadatta alle oggettive situazioni fisiche. Aziz infatti non parla più, perché colpito da emorragia celebrale. Più recentemente ha subito un secondo episodio simile nel nuovo carcere dove è detenuto, all’interno del quale non gli possono essere garantite le cure del caso.
Ma quale il significato politico di questa condanna? E in quale contesto geopolitico? Ziad Aziz solleva perplessità sui modi e sui tempi della condanna. Cosa ha a che fare, si chiede, suo padre con la questione dei partiti religiosi? Inoltre la condanna, come ha dimostrato un pronunciamento del gruppo di lavoro sulla detenzione della Corte dei diritti umani nel 2005, è arbitraria, in quanto avviene in violazione degli articoli nove e quattordici della Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici, di cui tra l’altro sono firmatari proprio Iraq e Usa. Ziad sostiene che negli ultimi sette anni siano stati gli iraniani a tenere il controllo della situazione politica a Bagdad, in quanto «sono gli stessi personaggi di sempre».
Il figlio di Tareq Aziz, inoltre, conferma che le uniche iniziative a sostegno della causa di suo padre sono venute dall’Italia e dalla Lega Araba. Al di là della condanna alla pena di morte, sembra che l’affaire sia una resa dei conti vera e propria a distanza di anni, tra sciiti e sunniti. Non bisogna dimenticare che si tratta di un Paese rimasto per poco meno di un anno senza governo, e che dovrebbe urgentemente avviare una fase di riconciliazione non solo con l’esterno ma soprattutto con l’interno. Mentre dimostra, purtroppo, di non essere ancora disposto a perdonare ex avversari. In una spirale che, dopo la violenza della guerra, sta concimando altra violenza.
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