Da Ffwebmagazine del 06/12/10
«Il problema, compagno Divjak, è che tu ed io abbiamo perso. Il signor Milosevic, morto in carcere all’Aja, invece ha vinto alla grande». Perché le sue teorie hanno attecchito in un’Europa influenzabile, perché adesso l’Islam è stato messo nel mirino in quanto pericolo. E i luoghi dove i mores convivono, sono visti con sospetto, le patrie si barricano dentro identità ringhiose, in modo particolare in Italia. Dove l’epiteto immigrati, si accosta automaticamente a “criminale”. Sono righe amare quella che Paolo Rumiz dedica all’introduzione di Sarajevo mon amour, in cui Jovan Divjak nell’esercito dall’età di 19 anni, è intervistato da Florence La Bruyère.
Un libro vero, di un uomo che ha vissuto per quarant’anni in Bosnia. A metà strada fra una moschea del XVI secolo ed una chiesa ortodossa, e in linea d’aria con un seminario cattolico. Un’armonia geografica che era insita nel Paese e nei suoi cittadini. Nei gesti di ogni giorno, nelle varie festività, nei riti. Negli occhi di ciascuno, nelle abitazioni, nelle giornate. «Durante la mia infanzia - si legge -, rumeni, croati e ungheresi si mescolavano senza problemi ai serbi sui banchi di scuola. E se c’erano baruffe per delle biglie o su un campo di calcio, si trattava di rivalità tra quartieri, senza alcuna connotazione etnica». Ma un giorno ecco spari e morte, che irrompono come macigni, distruggendo quella convivenza, quella tolleranza, quello stare insieme. E’la guerra, bellezza: le azioni offensive, le difese, le reazioni, i cambiamenti repentini della fazione musulmana, il ruolo ibrido dell’Onu. E poi i nazionalismi, i doppi giochi, i bombardamenti, le angosce.
Perché fare la guerra non significa solo premere un grilletto o azionare con freddezza un pulsante. Vi sono conseguenze ben precise e letali: si chiamano ferite, incubi, dolori, ansie. E ancora vedove, orfani, naufraghi. Individui a cui hanno strappato la bussola, incapaci adesso di aprire nuovamente gli occhi dopo un accadimento drammatico, che brutto sogno non è, ma purtroppo dura realtà. In questo libro intervista, toccante e forte, la protagonista è la città che ha dato i natali a Kusturica e Bregovic. Dove si annida il Narod («infausto concetto genealogico di popolo-nazione, che per oltre un secolo ha frustato i Balcani»), un mostro a sei teste pronto a risvegliarsi anche in altri ambiti e sotto spoglie diverse. In un tessuto sociale nel quale «chi non sta nel branco rischia, e deve sempre giustificarsi». Come dimostra il primo provvedimento di Milosevic, che abolì ogni diritto agli albanesi.
Due, fra gli altri, i momenti topici del libro. Quando Divjal zittisce i suoi interlocutori: è il 1992 ed il generale Gvero, braccio armato del massacratore Ratko Mladic, gli chiede provocatoriamente di convertirsi all’Islam. Lui invece risponde che lo avrebbe fatto, ma solo quando chi glielo chiedeva, fosse sceso dagli alberi e avesse assunto una posizione eretta. L’orgoglio umano, prima che di qualsiasi altra appartenenza geografica o territoriale. E quando realizza che i venti di guerra avrebbero spirato anche su Sarajevo: si stava svolgendo la manifestazione per la pace, una delle più imponenti, con circa centomila partecipanti. Slogan di pace, inni pro Bosnia dinanzi al Parlamento, senza che vi fossero pulsioni antiserbe. In quel momento un pezzo di corteo faceva rotta sul ponte Vrbanja, incontro a milizie serbe per dimostrare le intenzioni pacifiche della manifestazione. Ma dagli estremisti partirono le prime raffiche. Fu l’inizio dell’incubo.
Una Bosnia che negli anni sessanta e settanta aveva standard di tutto rispetto, con tasso di disoccupazione più basso di tutta la Jugoslavia, con mano d’opera nell’industria bellica, con l’apice raggiunto in occasione delle Olimpiadi del 1984 quando Sarajevo seminò ospitalità ed accoglienza.
Quella stessa accoglienza che si denota passeggiando per le sue strade, assaporando i vicoli più intimi di quei quartiere. Dove il militare Divjak si sente coccolato, avvolto in una coperta protettiva: una grande casa, la definisce, che la guerra non ha cambiato. Numerose le occasioni in cui gli è stato chiesto il perché di una permanenza in un luogo ormai assediato: «Perché amo i suoi abitanti - rispose -, cui Kemal Monteno rende omaggio in una bella canzone, Sarajevo, mon amour. La loro cortesia e il loro amabile stile di vita non li ho mai incontrati altrove».
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