martedì 7 dicembre 2010

La smania del verdetto, che mortifica fatti e persone


Da Ffwebmagazine del 07/12/10

«Noto in Italia - scriveva a inizio secolo Benedetto Croce a un giovanissimo Giovanni Laterza - una sorta di ebetudine, bisogna avere fiducia nell’avvenire e coraggio nel presente. Passerà». Sembrano parole attuali anche cento anni dopo, rivolte all’oggi, a quel torpore che sta investendo non solo un Paese nelle grandi vicende più o meno note, ma soprattutto nelle sue membra, nelle viscere più interne, più profonde, nella quotidianità. Dove sembra che un abbraccio soporifero ma disordinato voglia inglobare tutto e tutti. Con una marcata approssimazione, con strafalcioni sempre più frequenti, con incroci di ruoli, con posizioni indefinite e caotiche. Dove tutti si affannano a giungere per primi a un verdetto, per la smania di dichiarare, di ottenere un colpevole, per poi scagionarlo, ma un minuto dopo ributtarlo in galera. Senza un ordine, senza senso, senza logica.

La resa dei conti immediata, la confusione completa di sentimenti ed emozioni: è la patologia nostrana del terzo millennio, strabordata in quel di Avetrana e che ora rischia di fare nuovamente capolino nell’episodio che ha coinvolto la giovane Yara nel bergamasco. Con un indiziato immigrato che, a causa di un banale errore di traduzione, è passato in poche ore dallo status di mostro a soggetto che non può più essere trattenuto, quindi prossimo al rilascio. Con striscioni xenofobi e carichi di odio issati a vessillo identitario un momento fa, e con le immancabili dosi di retorica che, da oggi, verranno probabilmente pompate nel circuito mediatico. In uno scenario dove manca la misura, il raziocinio. Sarebbe utile comprendere come, allorquando i dati e i riscontri fossero più chiari ai fini probatori, la si smettesse una volta per tutte di appiccicare targhette di riconoscimento o patenti di vita. Se il cittadino marocchino dovesse in una seconda fase risultare coinvolto nella vicenda, non si confonda un caso singolo con il risentimento verso una comunità. Se fosse confermata la sua estraneità ai fatti, la si smetta di cercare un colpevole lì dove magari non c’è.

È così difficile immaginare un sistema, non solo giudiziario, ma a questo punto sociale, dove i fatti siano valutati per quel che sono? E senza dietrologie, elucubrazioni, secondi fini, ulteriori passaggi fanatici ed allusori? Fatti, numeri, dati. E ancora reati, commessi o no. Favoriti o meno. Questa è la maturità di uno Stato, dei suoi tre poteri, ma a questo punto anche del quarto, che spesso invece non aiuta a fare chiarezza, ma cerca l’effetto, stimola il colpo di scena a tutti i costi. Una deriva che causa anche angoscia nei cittadini, nei genitori che ora si interrogano sulla sicurezza, si preoccupano dei propri figli. Ecco il caos, il disordine di pensieri e di emozioni, dove questo comportamento irresponsabile produce danni a tutti: alla comunità di quel comune, ai cittadini immigrati che lì lavorano, pagano le tasse e tentano una difficile integrazione, a quei datori di lavoro che hanno dato loro fiducia, ai vicini di casa.

Insomma, aveva ragione Croce in quella missiva, dura ma in conclusione fiduciosa, perché chiudeva la sua valutazione con una nuvola di speranza. Ma non fine a se stessa, abulica, ed estemporanea. Bensì confortata da quella consapevolezza senza la quale le risposte rimarrebbero lettere morte, anime svuotate da battiti pulsanti. È quello lo scenario da evitare, perché se così non fosse si proseguirebbe in quel pericoloso sentiero di puro caos. Dove tutti sono colpevoli, e un minuto dopo illibati, e il giorno successivo vittime, per poi incarnare drammaticamente tutti i ruoli in questo vero e proprio teatro dell’assurdo.

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